N.04
Luglio/Agosto 2025

Sopravvivere al dolore

«Preghi? Non esattamente. Chiedo a Dio se esiste e se, nella nostra attuale situazione, ci potesse favorire un po’. Favorire? Magari. Zitto, non si sa mai. Sarebbe bello che il bambino fosse qualcosa di più di uno scheletro dentro una cassa bianca e che in questo momento stesse saltando e spassandosela alla grande con gli altri bambini in Paradiso».

Fernando Aramburu, Il bambino, Guanda

 

Il 31 ottobre del 2002, dopo una scossa di magnitudo 6.0, la scuola elementare “Francesco Jovine” di San Giuliano di Puglia collassò. Sotto le macerie dell’edificio, costruito in difetto di criteri antisismici e unico a sbriciolarsi in tutto il paese, rimasero 27 bambini e una maestra. Erano quasi tutti alunni di una prima: un’intera generazione, quella del 1996, venne cancellata per sempre. Anche la Spagna ha avuto la sua San Giuliano. Il 23 ottobre del 1980 a Ortuella, cittadina di 9mila abitanti nei Paesi Baschi, un’esplosione di gas innescata da un idraulico distratto fece saltare in aria la scuola elementare “Marcelino Ugalde”. Tra macerie e devastazione persero la vita tre adulti e cinquanta bambini tra i 5 e i 6 anni. Da questa tragedia Fernando Aramburu costruisce “Il bambino”, racconto delicato e dolente che scandaglia le ferite dell’anima inflitte dalla morte di un figlio. È un viaggio nella sofferenza e nella rabbia dei personaggi – Mariaje, la madre, José Miguel il padre, e Nicasio, il nonno del piccolo Nuco – che mette a nudo complessità e fragilità dell’umano di fronte alla più devastante delle domande: «A che cosa serve il dolore?». Un dolore che non è solo dei singoli, ma di un’intera comunità: «La tragedia aveva colpito così tante famiglie che sembrava maleducato lamentarsi in presenza di altre persone, come se uno volesse mettersi al di sopra degli altri o darsi più importanza». Eppure, il romanzo non si consuma in un’apologia della perdita, indaga invece il modo e le forme con cui, dopo un evento così atroce, un danno irreparabile, si cerca di continuare a vivere, a sopravvivere. Soprattutto il nonno, nella sua ostinata determinazione a non accettare la morte del nipotino e, allo stesso tempo, nel suo pellegrinaggio settimanale alla tomba, mostra la frattura profonda di chi, di fronte al lutto, in un limbo tra ricordo e immaginazione, si sforza di non dimenticare e di non far dimenticare. Dettagli e conseguenze della disgrazia ci vengono svelati pian piano, attraverso flashback, rapidi avanzamenti al presente e l’espediente narrativo di dar voce, in capitoli stampati in corsivo, al romanzo stesso, che spiega e aiuta a comprendere quel che c’è dietro la genesi e la composizione del testo: una lunga intervista alla madre di uno dei bimbi perduti.