N.04
Luglio/Agosto 2025

La casa delle pause

Lo spazio di un’alterità che ci supera

Ho vinto.

Sarà mio il progetto del nuovo Palazzo dei Congressi della città.

Ma mentre scattano intorno a me gli applausi del pubblico e i flash dei fotografi e il presidente della Commissione mi stringe la mano dopo aver proclamato il mio nome quale vincitore del concorso di idee tra decine di architetti, non posso fare a meno di pensare a una camera d’ospedale, a un vecchio e a una di quelle coincidenze della vita che qualcuno chiama “destino”, altri “mano divina” e che io non saprei definire. A parte il fatto che qualunque cosa è mi ha portato fin qui.

Ho vinto e ora tutti si congratulano con me. Ma che strano. Mi sembra di essere al posto di un altro. Quel vecchio dagli occhi di bambino che mi ha indicato la strada. Perché è anche merito suo se questo progetto vincente ha visto la luce quando il parto si stava complicando peggio di una matassa senza bandolo.

L’avevo incontrato in un giorno maledetto. Almeno dal mio punto di vista (ma come è vero che le apparenze spesso ingannano). Una caduta stupida sui gradini del cantiere che stavo ispezionando. Il dolore nel costato e poi nel braccio, con il quale avevo inutilmente tentato di attutire il colpo. La corsa in ospedale, l’attesa, le radiografie e alla fine il referto. Frattura di due costole, oltre che di ulna e radio della mano sinistra. Per me l’equivalente di una condanna a svariati anni di carcere. E ora come faccio con il concorso, le scadenze e tutto il resto del lavoro?

“Si prenda una bella pausa. Vedrà che le farà bene”, mi disse l’ortopedico dopo il gesso e le fasciature di rito. In quel momento ho odiato lui e la parola pausa, maledetta come quel giorno infausto e la mia stupida caduta. Pausa, un lusso che non potevo assolutamente permettermi.

Quando il dottore se ne fu andato cominciai a imprecare in tutte le lingue del mondo, compreso il sanscrito, lo swahili e il tagalog. E più imprecavo, più mi sentivo corroso dalla rabbia.

“Adesso basta!”.

La voce risuonò come per un prodigio. Voltai il capo, l’unica parte del corpo che potevo muovere senza ricevere fitte di dolore, e solo allora mi accorsi che non ero solo. Mi avevano parcheggiato in una stanza a due letti dalle pareti grigie fino a una certa altezza e poi bianche come il soffitto, tranne la macchia giallastra del neon che vi stava attaccato. Lo squallore fatto e finito. Come tutto l’ospedale, del resto. Se fosse in mio potere, revocherei la laurea a chi progetta luoghi simili. Oltre ai letti, l’arredamento comprendeva due comodini, un tavolo in formica di un marrone ormai slavato e un armadio diviso in due scomparti, uno per ogni degente. Dalla finestra di fronte alla porta d’ingresso filtrava una luce smorta, ammalata anch’essa di squallore. Una seconda porta davanti ai letti portava a un minuscolo bagno.

Guardai in direzione della voce. E mi sorprese che il suo proprietario fosse un vecchio. Le sopracciglia cespugliose e bianche come i capelli e la barba. Le borse marcate sotto gli occhi. E in generale l’aspetto di chi non sta per niente bene. Ma la voce era ancora fresca, quasi giovanile. Con il tono autorevole di chi è abituato a farsi ascoltare a prescindere dagli interlocutori. E infatti non aveva gridato. Eppure, il suo “adesso basta” mi aveva zittito come se fossi stato colpito da una freccia al cuore.

Anche lui guardava me.

“Mi scusi – gli dissi – non mi ero accorto di lei”.

“Non so se è meglio o peggio”, rispose.

I suoi occhi, però, sorridevano. Capii che non voleva essere un rimprovero, ma mi vergognai lo stesso. Specie di fronte a quelle iridi cerulee che, come la voce, parevano aver conservato un’età differente dal resto del corpo.

“Ha ragione, sono proprio uno scostumato. È che questo incidente mi ha complicato maledettamente le cose”.

“Ascolti il dottore. Non tutti i mali vengono per nuocere”.

Per la seconda volta nel giro di pochi attimi provai una sensazione indefinibile. In bocca al vecchio anche una frase fatta, come quella, mi suonò diversa. Ma non volli indietreggiare.

“E che ne sa il dottore? Questo è il peggior momento che potesse capitarmi per prendere una pausa”, ribattei con stizza.

“Che lavoro fa lei?”.

“Sono un architetto. Mi chiamo Michele Corradi. E devo consegnare al più presto un grosso progetto”.

Il vecchio sorrise. “Io sono Pietro Airoldi. Piacere. Sa che da ragazzo ci avevo fatto un pensierino anch’io all’architettura?”.

“E poi?”.

“Poi capii che non era la mia strada. E successe proprio durante una, diciamo così, pausa”.

“Una vacanza?”.

“Una malattia. Mi costrinse a letto per un po’ e poi a una lunga convalescenza. E ricordo che all’inizio ero furioso proprio come lei. Solo dopo capii che anche quell’inattività aveva avuto un valore. Per esempio, mi permise di prendere la decisione fondamentale della mia vita. Benedetta pausa, mi son detto tante volte”.

Rimasi in silenzio. Non sapevo cosa rispondere. Ma cominciai a pensare. A come avevo vissuto fino a quel momento. Alle mille cose con cui avevo riempito i miei giorni e sovente anche le mie notti. E mi parve di vedere solo pietre che rotolavano. Come su un piano inclinato. Per forza di inerzia. E con la banalità di un meccanismo ineluttabile.

“Vede? – disse il vecchio dopo qualche minuto – abbiamo appena fatto una pausa. E scommetto che lei sta pensando a qualcosa”.

Sgranai gli occhi. Che quell’uomo avesse il potere di leggere nella mente degli altri?

Lui sorrise ancora. Un sorriso buono, delicato come una carezza.

“Non si sorprenda, la mia è una deformazione professionale. Ho passato la vita ad ascoltare la gente”.

“E che lavoro era il suo, se non sono indiscreto?”.

“Sono un sacerdote”.

La rivelazione mi lasciò sconcertato. Oddio proprio a me, ateo convinto e anticlericale da sempre, doveva capitare un prete come compagno di stanza, per di più nel giorno più disgraziato della mia vita? Ecco uno scherzo del destino che non mi sarei mai aspettato. Proprio uno scherzo da prete, pensai. E mi venne da ridere. Ma non potevo negare che il vecchio aveva un suo fascino. Forse proprio per via dei suoi occhi trasparenti. Occhi da bambino.

“L’avverto che io non credo a niente”, dissi però quasi per difendermi.

“E mica sono qui per farle l’esame di catechismo”.

La risata mi uscì spontanea. Simpatico e anche ironico il prete. Mi accorsi che non gli avevo ancora chiesto perché si trovasse in ospedale. Rimediai subito.

“Frattura del femore – rispose –. A noi giovanotti di novant’anni può capitare”.

Istintivamente corrucciai il volto. Fu chiaro ciò che pensai in quel momento.

“È grave alla mia età, vero? Vuole dirmi questo con la sua espressione? E magari vuole sapere se ho paura di morire. Beh, un po’ sì, glielo confesso. Anche se sono un prete e dovrei essere contento di andare a vedere nostro Signore faccia a faccia, come adesso vedo lei. Poi mi dico che in fondo anche la morte è solo una pausa. E allora un po’ mi passa. Perché non bisogna avere paura delle pause, sa? Dopo, la musica ricomincia. E magari è anche più bella”.

“La morte, però, è alquanto lunghetta come pausa”, notai.

“E chi può dirlo? Magari sarà come attraversare un breve corridoio buio prima di sbucare in un ambiente ancora più pieno di luce. Non mettiamo limiti alla Provvidenza”.

“Beato lei che ci crede. Io proprio non ci riesco”.

“La capisco – disse sorprendentemente il vecchio –. Anch’io da giovane ho avuto qualche dubbio”.

La mia faccia tradì un punto interrogativo. Ed ero sincero. Quel discorso cominciava a interessarmi.

“Leggevo il Vangelo – riprese lui – , studiavo sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino, la teologia e i padri della Chiesa e però mi chiedevo: non sarà mica una favoletta per tenerci buoni, per impedirci di impazzire al solo pensiero che tutto finisce con la morte?”.

A quelle parole rimasi colpito. A suo tempo me l’ero chiesto pure io. Poi avevo concluso che sì, era una favoletta. E mi ero gettato in un attivismo frenetico perché c’era solo questa vita e bisognava viverla fino in fondo. Senza sprecarne un istante.

“E com’è che ha concluso che non era una favoletta?”, domandai.

“Per via di quella famosa pausa. E per merito di un’altra pausa. In senso musicale, intendo. Ma forse le mie memorie non la interessano”, disse vedendo che mi ero spostato in cerca di una posizione migliore. Il costato mi torturava.

“No, anzi. Mi racconti, se non è stanco”.

Stava per ricominciare, ma il suo volto si contrasse in una smorfia. E si lasciò sfuggire un lamento.

“Fa male?”, chiesi.

“Di tanto in tanto una fitta”.

“Non si affatichi. Lo ha detto lei che le pause sono importanti”.

Sorrise.

“E io vedo che lei impara in fretta. Bravo!”.

Gli sorrisi anch’io. Quegli occhi da bambino mi intenerivano.

L’infermiere entrò proprio in quel momento.

“Allora? Non abbiamo voglia di dormire stasera?”.

Era un omaccione dalla voce cavernosa, il cranio pelato e due baffi a manubrio, come quelli che si usavano ai primi del Novecento. L’avrei visto bene a fare il cattivo in una comica di Charlie Chaplin.

“Lei specialmente, don Pietro, deve riposare. O vuole anticipare l’ingresso in paradiso?”.

Senza attendere la risposta si avvicinò al letto del prete, controllò la flebo, gli tastò la fronte e grugnì un “ok, tutto a posto”.

A me riservò un’occhiata distratta.

“Ha bisogno di qualcosa?”, chiese quando era quasi sulla porta.

“Di uscire al più presto da qui”.

“Non le piace l’albergo?”.

Stavo per mandarlo a quel paese, ma c’era il prete e con lui avevo già esaurito il bonus delle imprecazioni.

L’infermiere spense il neon attaccato al soffitto, lasciando solo una luce bluastra che emanava dalla parte superiore delle nostre due spalliere.

“E adesso tutti a nanna”, disse perentorio prima di sparire nel corridoio.

“Gentile”, notai con una nota di sarcasmo.

“Ruvido ma bravo”, mi corresse il prete.

“Come si sente?”, chiesi.

“Ogni tanto avverto del dolore. Penso però che in questa flebo ci sia anche un calmante. E lei?”.

“Il mio fastidio più forte è di un altro tipo. Gliel’ho detto”.

“Porti pazienza. Prima di addormentarmi pregherò anche per lei”.

Ci augurammo reciprocamente la buonanotte.

“Domani mi piacerebbe sapere il resto della sua storia”, dissi.

“Se sarò ancora qui, volentieri”.

Mi addormentai dopo un bel po’. Non riuscivo a trovare la posizione giusta per via delle costole. Il braccio pulsava dentro il gesso. E poi c’erano i pensieri. Tanti e diversi e tutti contribuivano a tenermi sveglio. Non ultimo quello di qualcuno che stesse pregando per me. Non mi era mai capitato. O almeno non l’avevo mai saputo. Che valore poteva avere, se dall’altra parte non c’era nessuno? Houston, abbiamo un problema. Ma se Houston non esiste, nessun Apollo 13 potrà tornare a casa. E nessuno di noi potrà ricevere aiuto. Eppure, quel vecchio prete, alle prese con un malanno potenzialmente mortale, ne era certo. Houston-Dio non solo esisteva, ma aveva anche il tempo di ascoltarlo.

Alla fine, quando presi sonno, feci sogni confusi e agitati. Mio padre, il mio maestro delle elementari, il professore con cui avevo fatto la tesi di laurea, a un certo punto comparve anche il parroco della prima comunione, che avevo perso di vista subito dopo. Perché neanche la cresima avevo fatto. E tutti mi dicevano: “Che fortuna, che fortuna hai avuto”. E io pensavo che o erano tutti pazzi o mi stavano prendendo in giro. Anche nel sogno, infatti, ero perfettamente consapevole di ciò che mi era capitato.

Mi svegliai che albeggiava. Orario per me insolito. Anche di più della situazione in cui mi trovavo.

Il prete invece era già sveglio. Chissà da quanto. Qualcuno, forse il ruvido infermiere, gli aveva alzato lo schienale.

“Buongiorno – mi salutò –. Come ha dormito?”.

“Non benissimo. Ho sognato che diverse persone, tra cui mio padre che è morto qualche anno fa, mi dicevano che ero stato fortunato ad avere questo incidente. E a me dava fastidio”.

“Lo sa che nella Bibbia Dio spesso usa i sogni per veicolare i suoi messaggi?”.

“Sempre che esista”.

“Ammettiamolo per un momento. E consideriamo anche il dormire, con annessi sogni, una pausa. Forse in questo sogno suo padre e gli altri hanno voluto dirle qualcosa. A me da giovane è successo. Perché Dio io l’ho trovato in una pausa”.

Mi accorsi, ascoltandolo, che, quando parlava della sua giovinezza, gli occhi da bambino diventavano ancora più trasparenti. Due piccoli laghi in cui specchiarsi e ammirare il fondo.

“Si riferisce a quello che mi stava raccontando ieri sera?”.

Annuì. Si sistemò sul cuscino e poi riprese a parlare con quella sua voce che sembrava venire direttamente da un tempo remoto.

“Durante la mia convalescenza – disse –, mio padre, per farmi distrarre, mi procurò un insegnante di pianoforte. Io già strimpellavo, ma alla musica non avevo mai dato troppa importanza. Quell’uomo invece riuscì a farmi appassionare, perché con lo strumento sembrava proprio parlarci, per quanto era bravo. Durante una delle lezioni, sbagliai ripetutamente in un punto in cui c’era una pausa. E lui ogni volta mi interrompeva e mi diceva: ‘No, da capo’. Alla fine, sbottai: ‘Ma, insomma, è solo una pausa”. Il maestro si fece serio: ‘Le pause sono la parte più importante della musica. Se non ci fossero, avremmo solo rumore’. Da quel giorno, ritornammo spesso sull’argomento. E sa che cosa mi disse, infine, lui che si definiva agnostico? ‘La pausa è lo spazio di un’alterità che ci prescinde e ci supera e che spesso non riusciamo neanche a comprendere fino in fondo’”.

“Bel discorso, ma anch’io ci ho capito poco. Non mi dica che lei da ragazzo lo comprese”.

“Non glielo dico, infatti. Ma gli chiesi che cosa volesse dire. E lui me lo spiegò più o meno così: le note sono il frutto della nostra creatività, le pause invece sono spazi indipendenti da noi. E questi spazi rimandano a qualcos’altro che c’è, anche se non riusciamo a conoscerlo o addirittura ci rifiutiamo di conoscerlo”.

“E il suo insegnante era agnostico? Figuriamoci se fosse stato credente”.

Il vecchio sorrise. “Mi piacciono le sue obiezioni. Denotano intelligenza. E allora faccia un altro piccolo sforzo. Essere agnostici o non credenti non significa rinunciare a porsi delle domande e quindi a cercare le risposte”.

Fui colto in quel momento da una specie di folgorazione. Io alle domande avevo praticamente rinunciato. Ero pieno di certezze e di risposte. Ma mi accorgevo all’improvviso che tutta la mia vita si era ridotta a sorta di legge del fare. Che non lasciava spazio per niente altro. E a un tratto mi sentii soffocare.

“Che successe poi? – chiesi –. Voglio dire, come influì l’insegnamento del suo maestro di pianoforte sulla sua scelta di vita?”.

La luce al neon si accese. Anzi, in quella penombra aurorale sembrò praticamente esplodere. Ci voltammo verso la porta e lo vedemmo là, piantato sulle gambe leggermente divaricate e con le mani sui fianchi.

“Ah, ma qui il sonno sembra essere stato abolito”.

“Buongiorno anche a lei, Goffredo”, disse il vecchio con il suo solito sorriso buono.

L’infermiere non colse l’ironia del saluto. Non sembrava di buon umore. Cambiò la flebo al prete, gli dette un paio di pillole e a me non chiese niente. Quindi si eclissò di nuovo con un “a domani”. Evidentemente il suo turno era finito.

“Dicevamo?”, chiese il vecchio.

“La sua scelta di diventare sacerdote”.

“Ah, sì. L’incontro con quel musicista mi aprì orizzonti nuovi. E per me impensabili. Cominciai per esempio ad apprezzare quel tempo di inattività. Da ferita diventò feritoia e da quella feritoia vidi chiaramente che senza un attimo di pausa, di silenzio, di contemplazione anche il nostro agire perde valore, diventa azione cieca. Persino Dio, dopo la creazione, sentì il bisogno di riposare nel settimo giorno. La pausa non solo ci rigenera, ma ci consente di entrare in relazione con lui, che è l’assolutamente Altro. Cioè, di riconoscerci creature e non padroni del mondo”.

Si fermò come per riprendere fiato, si accarezzò la barba e aggiunse: “La mia vocazione maturò nel silenzio di quella pausa. Poi, crescendo, ne ho avuto conferma. Ridurre gli spazi di sosta significa ridurre la dose di umanità, e quindi di amore, presente nel mondo. In tutta la mia vita sacerdotale ho sempre cercato di preservare questo spazio di contemplazione e di inattività, che ci mette in contatto con l’Oltre”.

A quel punto, senza un motivo apparente, pensai al mio progetto per il concorso. E mi venne spontaneo un aggettivo. Inadeguato. Stavo per chiedergli qualcosa, ma il vecchio mi anticipò.

“Ora basta a parlare di me. Mi racconti un po’ di lei e della sua professione. Sono pur sempre un architetto mancato”.

Gli raccontai allora del progetto per il nuovo Centro Congressi, delle difficoltà che stavo incontrando e che non sapevo come risolvere.

“Sono a un punto morto – riconobbi – e sa la cosa più strana? Ne ho preso coscienza proprio adesso, parlando con lei. È un progetto inadeguato, mi è venuto di pensare poco fa, ascoltandola. Finirò per credere anch’io, irrequieto per natura e per scelta, che le pause servono”, conclusi strizzandogli l’occhio in segno di complicità.

Approvò con un gesto solenne del capo.

“Mi descriva il progetto – invitò –. Come ha pensato di organizzare gli spazi, qual è la filosofia che ha seguito, a chi ha pensato mentre progettava”.

Gli riassunsi come mi ero mosso, gli parlai della disposizione degli ambienti e alla fine ammisi che mi ero ispirato al funzionalismo. Cioè, ero partito dalla funzione che l’edificio doveva assolvere e in base a quello avevo organizzato tutto il resto.

Mi ascoltò con gli occhi chiusi e l’espressione assorta, come se stesse provando a riprodurre nella mente quello che gli descrivevo. Alla fine, restò in silenzio per un lungo momento. Al punto che pensai si fosse assopito. Invece sollevò una mano, si lisciò i capelli e mi piantò addosso i suoi occhi da bambino. Rilucevano in maniera particolare.

“Lo accetta il consiglio di un vecchio prete?”.

Feci di sì con il capo. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quegli occhi.

“Lei è partito dalla funzione dell’edificio. E va bene. Ma la funzione qual è?”.

“Lo dice lo stesso nome – risposi –. Palazzo dei Congressi”.

“Sì, ma quello che si andrà a fare là dentro come lo considera? Un’attività o una pausa?”.

Non mi ero posto il problema. E non sapevo che cosa rispondere. Così attesi che lo facesse lui.

“Se per lei è un’attività, prosegua con il suo progetto, ma se la consideriamo una pausa per riflettere in maniera personale e comunitaria, allora ciò che mi ha descritto non va bene. Occorrono spazi più che volumi. Bisogna offrire ai fruitori del palazzo la possibilità di uscire dalla logica binaria che oggi governa il mondo – stimolo-reazione, bisogno-appagamento, problema-soluzione, buono-cattivo –, la realtà è più complessa ed è sempre necessario allargare il proprio sguardo. Immagini il suo Palazzo dei Congressi come una città e ne riproduca tutti gli spazi, ponendoli in relazione tra loro”.

Oikos, agorà e tèmenos, casa, piazza e spazio sacro”, mormorai ricordando le tre dimensioni della città greca.

“Vedo che ha compreso perfettamente. Servono spazi più piccoli, per far sentire come a casa chi li userà, servono uno o più spazi grandi, come le piazze in cui ci si incontra, si passeggia, ci si conosce e si discute. E non dimentichi lo spazio sacro. Per i greci una città era impensabile senza l’acropoli dedicata al divino. Nella nostra società dell’inclusione, sempre più spesso ad essere escluso è proprio quell’Oltre che io chiamo Dio, ma che lei può benissimo chiamare riflessione o meditazione. Nel suo progetto, la prego, non lo ostracizzi. Dia cittadinanza anche alle pause. E avrà fatto una piccola grande rivoluzione”.

Lo guardai ammutolito, ma ormai non lo vedevo più. Il vecchio prete era diventato trasparente. Attraverso di lui vedevo il mio progetto com’era e come invece avrebbe dovuto essere.

Quando mi ripresi da quella specie di visione, nella stanza era entrato l’ortopedico, con un’infermiera e un altro dottore. Stava parlando con don Pietro della possibilità di un intervento. Aveva un’espressione grave e il vecchio prete scuoteva la testa.

“Questa è la situazione. Non le ho nascosto nulla”, concluse l’ortopedico, levandosi gli occhiali e pulendoli con un pannetto.

“Grazie dottore. È giunta per me l’ora di rispondere alla vocazione definitiva”.

Il terzetto allora si rivolse a me. Mi visitarono e dissi che a parte il dolore nel costato non avevo altri fastidi.

“Bene – disse l’ortopedico –. Nel pomeriggio la dimettiamo e ci rivediamo tra un mese per togliere il gesso. Quanto alle costole, se vuole guarire più in fretta, riposo assoluto. Se la prenda quella pausa, dia retta a me”.

La notizia della imminente dimissione mi mise di buon umore. Volevo commentarla con don Pietro, ma si era messo a pregare il Rosario. Sottovoce. Non lo distolsi.

Più tardi riprendemmo a parlare. Mi confidò di essere stanco. Aveva passato la vita a predicare la necessità di dare il giusto spazio alla contemplazione e vedeva invece quello spazio assottigliarsi anche nella stessa Chiesa. “Molti miei confratelli – disse con una punta di tristezza – si dedicano quasi esclusivamente all’azione pastorale, dimenticando il primato della preghiera e della preghiera di adorazione, in particolare. Il consumismo ci corrode come la ruggine si mangia il ferro. C’è un pensatore di cui ora non ricordo il nome che ha scritto più o meno così: ‘Le azioni si accorciano, diventando reazioni. Le esperienze si assottigliano, trasformandosi in eventi. I sentimenti si impoveriscono, diventando emozioni forti o esplosioni d’ira. Non abbiamo più accesso alla verità, che si rivela solo all’attenzione contemplativa’. E senza la verità, aggiungo io, anche la polis si frantuma in tanti individui solitari”.

Del tempo trascorso insieme a lui mi porto dentro soprattutto queste ultime parole. Tornato a casa, mi concessi un giorno di completo far niente. E quella inattività mi sembrò di una bellezza sconosciuta fino allora. Poi nello studio secondario che avevo messo su qualche tempo prima in quella che avrebbe dovuto essere la stanza degli ospiti, ripresi in mano il progetto, lo stracciai e ricominciai tutto da capo.

La notizia della morte di don Pietro mi giunse il giorno in cui consegnai il materiale alla commissione esaminatrice del concorso. Lo interpretai come un segno. Il vecchio prete mi aveva idealmente accompagnato fino alla fine del lavoro. Qualche tempo dopo mi arrivò anche il biglietto che aveva lasciato per me. “Sto per affrontare la grande pausa. Ma non ho paura. E me ne vado sereno. Perché almeno un discepolo credo di averlo trovato, alla fine. Grazie. E a-Dio, architetto. Vado a conoscere il suo più grande collega di sempre. Posso portargli i suoi saluti?”.

L’ironia di quel vecchio prete. Risi. Poi piansi. Poi risi ancora.

In suo onore chiamerò il nuovo Palazzo dei Congressi “La Casa delle Pause”.