N.04
Luglio/agosto 2017

Rembrandt Harmenszoon Van Rijn

Il buon samaritano

Il viaggio dello straniero

Testo biblico (Lc 10,25-37)
Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

L’artista
Rembrandt Harmenszoon Van Rijn nasce a Leida, in Olanda, il 15 luglio 1606, da genitori benestanti. Il padre è proprietario di un mulino e la madre, figlia di un fornaio, discendente da una nobile famiglia cittadina. Rembrandt frequenta una prestigiosa scuola di studi classici e più tardi si iscrive all’università che però lascia presto per andare a bottega da un modesto pittore di Leida.
Il suo primo vero maestro è Pieter Lastman, che unisce la pittura di genere olandese e quella italiana, in particolare le opere di Caravaggio.
Rembrandt segue l’indirizzo del maestro, ma ben presto approda a uno stile personale; importante e decisiva è la collaborazione con Lievens, altro allievo di Lastman.
È forte l’influsso del Caravaggismo di Lievens; la luce è interprete principale dei suoi dipinti in cui risaltano gli effetti di chiaroscuro e di notturno e i bagliori di luce che rivelano un’atmosfera interiore e intimistica. Nel 1634 la sua prima grande opera, La lezione di anatomia del professore Tulp, segna l’inizio di una produzione artistica che comprende ritratti, scene sacre, paesaggi, disegni e trova un suo particolare mezzo espressivo nell’incisione all’acquaforte. Oltre al grande interesse per Caravaggio, da cui trae ispirazione per l’uso di luci, ombre e contrasti, è forte anche l’ispirazione a Rubens a cui si ispira per l’approccio drammatico ai soggetti dipinti.
Dalla sua immensa produzione pittorica citiamo alcuni capolavori quali La ronda di notte, Il ritorno del figliol prodigo e numerosi autoritratti e quadri, d’ispirazione religiosa, tratti dalla Bibbia.
L’opera di Rembrandt è richiesta da enti pubblici e dalla ricca borghesia, giunge così presto all’apice della carriera e migliora oltremodo la sua posizione economica e sociale. Con la morte della moglie Saskia si apre un periodo molto difficile, tra vicende familiari, sentimentali, legali e dissesti finanziari; la sua vita privata diventa oggetto di scandalo per la società del tempo e la sua attività artistica si riduce notevolmente. Presto la situazione economica si aggrava a tal punto che la casa e i suoi beni vengono venduti all’asta. E inseguito a vari lutti, tra cui la morte del figlio, e altri fatti drammatici, Rembrandt muore il 4 ottobre 1669.

L’opera
In questa opera giovanile di Rembrandt è illustrata la parabola del buon samaritano, che non è ambientata, come ci si potrebbe aspettare, in una zona desertica o in una periferia disabitata, degradata, ma in uno spaccato di vita quotidiana: una casa, più precisamente una locanda. In primo piano un uomo ferito viene fatto scendere da cavallo, un servitore tiene le redini dell’animale e un altro uomo, un samaritano, sulla sommità della scala davanti alla porta della locanda, parla con l’oste. Completano la scena due donne, una al pozzo, l’altra affacciata alla finestra.
Non sappiamo definire l’ora del giorno, potrebbe essere mattino presto o sul far della sera, al crepuscolo; da sinistra si diffonde una luce intensa; luce e colore dominano il quadro. Il paesaggio è immerso nei toni del giallo, densi e caldi, in un effetto di luce che tutto avvolge e ricorda lo stile, il tema della luce presente nella pittura dei caravaggeschi olandesi.
È il momento dell’arrivo alla locanda di un uomo, ferito per mano dei briganti, mentre scendeva sulla strada da Gerusalemme.
Un samaritano lo ha raccolto e soccorso e ora si appresta a farlo curare.

Il samaritano
Ci piace interpretare la ricostruzione della parabola del Vangelo di Luca fatta da Rembrandt come un’originale sequenza di inquadrature.
In alto, all’ingresso della locanda, vediamo il samaritano che parla con l’oste mentre, al centro del quadro, aiuta l’uomo ferito a scendere da cavallo.
È una scena di grande pathos: del samaritano vediamo solo la testa, intravediamo il braccio sinistro che cinge il corpo del ferito, ma la nostra attenzione è concentrata sul suo volto teso nello sforzo e in questa fisicità cogliamo il suo coinvolgimento totale, nel suo gesto ci sono forza e pietà. Il samaritano, certo, non passava di lì per caso, forse era in viaggio d’affari, o aveva un incontro, un appuntamento importante; sceglie però di mettere da parte tutti i suoi impegni, i suoi interessi e di caricarsi sulle spalle l’altro, di aiutarlo. Prendersi cura di lui vuol dire addossarsi, far proprie le sue difficoltà, il suo dolore; è una scelta impegnativa, che implica una dedizione totale, un coinvolgimento affettivo ed emotivo che non tutti sono in grado di mettere in atto.

L’oste
In cima alle scale, sulla porta della locanda, l’anziano oste, con la barba bianca, prende due denari dal samaritano che dice: «Ciò che spenderai di più, te lo pagherò al mio ritorno». È la ricompensa per la cura che presta all’uomo ferito, si tratta di due denari, corrispondenti alla paga di due giornate di lavoro. La sua ospitalità è legata al denaro che riceve. L’atteggiamento del samaritano invece è diverso, disinteressato. Soccorre quell’uomo, si cura di lui perché vede la sua difficoltà, la sofferenza. Diversamente dal sacerdote e dal levita, aiuta il ferito perché lo ha nel cuore, il suo amore non è fatto di parole, ma di gesti concreti, di attenzione per gli altri.

Il malcapitato
L’uomo che si trova per terra, ferito, viene caricato in sella al cavallo bianco. Chi lo raccoglie non sa nulla di lui, il suo nome, da dove viene; può essere un povero o un ricco, un bandito, un pellegrino, un forestiero, non importa. Viene soccorso, riceve le prime cure e viene avvolto in un telo bianco, la testa bendata. L’uomo ferito è di profilo e con le mani giunte, ringrazia il suo salvatore, il suo sguardo desidera incontrarsi con chi osserva il quadro come per domandargli: «E tu sei capace di compiere gesti di amore, di compassione, di misericordia come questo straniero?».
In lui vediamo l’umanità stanca e ferita che chiama e ci invita a compiere un gesto di compassione, di amore. Il colore bianco del cavallo, del telo e delle bende ci conduce al riferimento simbolico del bianco come colore della risurrezione e ci dice che un gesto di misericordia, come quello del samaritano, (ci) fa risorgere, (ci) fa nascere di nuovo.

Altri personaggi
Rispetto alla parabola, Rembrandt si è concesso qualche libertà.
Nel dipinto infatti non c’è traccia del sacerdote e del levita che proseguono con indifferenza per la loro meta, al contrario il pittore raffigura nuovi personaggi: due donne che rendono in modo efficace l’indifferenza e l’insensibilità del mondo contemporaneo.

La donna alla finestra
Da una finestra della locanda, una donna, appoggiata al davanzale, si sporge e vede la scena: ma la sua è solo curiosità, non ha interesse per quello che sta accadendo, non si lascia coinvolgere, non agisce, addirittura non comprende il comportamento dello straniero che soccorre il ferito. Forse in cuor suo si domanda: «Chi glielo ha fatto fare a quello straniero! Con i tempi che corrono dare una mano, soccorrere… può essere molto pericoloso».
La donna alla finestra non è capace di accogliere, di mettersi nei panni di chi soffre, di stare vicino al povero, all’ultimo, al peccatore e perde questa opportunità che solo un animo attento e aperto può cogliere.

La donna al pozzo
Una donna è al pozzo, occupata nelle sue faccende, troppo presa dalle sue piccole cose non vede ciò che accade intorno, non vuole volgere lo sguardo altrove, è appagata dal suo abituale impegno. È l’atteggiamento di chi, oggi, si rifugia in se stesso, magari perché preso, schiacciato dalle proprie vicende quotidiane, non presta attenzione agli altri. Ogni giorno facciamo esperienza di tanti eventi e situazioni drammatiche, di tragedie che accadono sotto i nostri occhi, ma siamo incapaci di ascoltare, di comunicare, di condividere, e facciamo prevalere il nostro egoismo, la salvaguardia dei nostri interessi. Non ci rendiamo conto che l’incapacità di essere accoglienti, di trovare compassione, è il frutto delle nostre fragilità e delle nostre debolezze, dimenticando che noi tutti abbiamo bisogno di misericordia.
Le due donne, nel quadro di Rembrandt, sostituiscono in modo efficace il sacerdote e il levita della parabola, non hanno fatto il male, ma certamente non hanno fatto il bene e purtroppo accade spesso di assomigliare a loro.

Il servo
Il servo che tiene le redini del cavallo osserva attentamente la scena, ciò che fa il suo padrone, la cura che ha verso il malcapitato, il suo sguardo si fa contemplazione e, in un certo senso, il samaritano con la sua compassione lo coinvolge e lo contagia.

Approccio vocazionale

Nel dolore e nella compassione… il paradosso di Dio
Il maestro della Legge chiede a Gesù che cosa deve fare per avere la vita eterna. Per gli israeliti la vita eterna non corrisponde a una vita dopo la morte, come per noi. Per un israelita aspirare alla vita eterna significa ambire a una vita felice, bella, realizzata, piena di senso. E allora ci piace vedere in quel maestro della Legge un giovane che chiede a Gesù cosa deve fare per dare compimento e pienezza all’esistenza. È anche la nostra domanda, è la domanda di tanti.
Sappiamo, dal testo evangelico, che Gesù risponde rimandando a ciò che sta scritto nella Legge: l’amore verso Dio e verso il prossimo.
Un’ulteriore domanda del giovane – «Chi è il mio prossimo?»1 – è l’occasione per Gesù di comunicare e svelare cosa vive nel cuore di Dio. Gesù fa compiere al maestro della Legge e a noi un viaggio dentro la parabola alla scoperta della vera umanità. «Lo vide e ne ebbe compassione».
Per il samaritano tutto ciò che segue, gesti2, azioni, emozioni, scaturisce da quella fonte che è la compassione3. Il samaritano entra nella sofferenza dell’altro, la condivide, ne alleggerisce il peso portandola un po’ con sé; nel suo sguardo gli occhi del cuore, per dire che non c’è limite alla capacità di amare. È un “sentire” che rende il cuore dell’uomo come quello di Dio, Gesù umanissimo con gli uomini.
Allora che cosa può dire questa parabola a un giovane che affacciandosi alla vita vuole fare dono della propria esistenza? «Va’ e anche tu fa’ così». Così termina la parabola, Gesù ci riconduce a un fare che ha origine dal cuore, da questa compassione che porta ad agire perché un uomo di Dio non è solo colui che “sa” ma colui che “fa”.
«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio»4.
A volte si può pensare che in un itinerario di formazione sia importante e predominante il curriculum di studi nel sapere di Dio e non si considera, nel giovane, una maturità umana che lo porta a educare il proprio sentire, a uscire da sé, a compiere gesti di amore, alla capacità di vivere la compassione, di volgere lo sguardo alla contemplazione di ciò che è intorno.
Allora, come nella parabola, sono i contrattempi e gli imprevisti che rivelano l’identità del chiamato che mette da parte i propri impegni, gli interessi, per fermarsi ad ascoltare il grido di sofferenza, di dolore, degli uomini e delle donne del nostro tempo.
«Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Non dimentichiamolo mai: di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio»5.
Sono forti e provocanti le parole di Papa Francesco, ha il coraggio di porre sullo stesso piano Dio e l’uomo. Il vero culto a Dio è accogliere il dolore e la sofferenza di ogni uomo, che diventa dolore di Dio condiviso nello spazio della compassione.
Papa Francesco afferma che per noi cristiani l’umanità sofferente è il luogo di Dio, il “dove” di Dio, dove Dio vuole farsi incontrare, con ogni uomo.
Dio chiama, ascolta, accoglie; incontrare lui è credere in lui, è far nascere in noi il sentimento della compassione, la sua compassione, è accogliere la sua chiamata ad andare verso ogni uomo, verso chi soffre, chi è povero, malato, peccatore. È vedere con i suoi occhi, vedere ciò che è invisibile a chi non ha gli occhi del cuore.

Preghiera
Signore, vuoi le mie mani per passare questa giornata
aiutando i poveri e i malati che ne hanno bisogno?
Signore, oggi ti do le mie mani.
Signore, vuoi i miei piedi per passare questa giornata
visitando coloro che hanno bisogno di un amico?
Signore, oggi ti do i miei piedi.
Signore, vuoi la mia voce per passare questa giornata
parlando con quelli che hanno bisogno di parole d’amore?
Signore, oggi ti do la mia voce.
Signore, vuoi il mio cuore per passare questa giornata
amando ogni uomo solo perché è uomo?
Signore, oggi ti do il mio cuore.
Santa Teresa di Calcutta

 

NOTE
1 A quel tempo c’era una diatriba nell’individuare e classificare “il prossimo”: per alcuni erano solo gli ebrei, connazionali, per altri anche gli stranieri residenti in terra di Israele.
2 I gesti che il samaritano pone in atto sono gesti normali, semplici, alla portata di tutti: lo vede, si fa vicino, se ne prende cura, si fa carico della sua situazione, gli offre un luogo di accoglienza,, paga affinché altri possano continuare la sua opera. L’evangelista Luca, con cura minuziosa, enumera i sei atti di amore che servono non solo per il momento, ma fino alla guarigione.
3 “Compassione” è “patire con”, è partecipazione al bisogno, al dolore, alla sofferenza dell’altro, è sentire con il proprio cuore ciò che sente il cuore dell’altro, è capacità di ascolto profondo del disagio dell’altro.
4 Simon Weil, Quaderno IV, pp. 182-183.
5 Papa Francesco, udienza del 27 aprile 2016.

 

Rembrandt Harmenszoon Van Rijn
Il buon samaritano
1630, olio su pannello, 68.5 × 57.3, Wallace Collection, Londra