Fedeltà tra nostalgia e prassi
Potrei cominciare questa mia riflessione sulla fedeltà nella società e nella cultura dicendo una cosa banale ed insieme stravagante: è difficile essere fedeli in una società ed una cultura di stampo politeista, dove domina il gusto della sperimentazione di diverse esperienze umane.
Una società e una cultura “politeiste”
Una società politeista, una cultura politeista; che significa? Se si tiene a bada il riflesso condizionato di intendere alla lettera (cioè in termini religiosi) il termine “politeismo”, si può facilmente constatare come la società di oggi, specialmente quella italiana, ha una tale carica di diversificazione (e di volontà di sperimentazione) dei comportamenti, degli atteggiamenti, dei valori, da poter essere ben definita, con Hillman, una società a forte politeismo culturale.
Si guardino, per averne conferma, i più importanti settori della vita sociale. I consumi sono sempre più diversificati, centrati sulla logica di una soggettività che cerca nel consumo un riscontro talvolta emblematico della personalità dei singoli e dei vari segmenti sociali. Il turismo vive di una forte tendenza all’esperienzialità più segmentata (nei tempi di vacanza come nelle destinazioni dei viaggi).
Il lavoro non è più una realtà uniforme ma una galassia senza fine di diverse collocazioni ed esperienze professionali (con grande peso della mobilità, delle attività indipendenti, dei tempi di lavoro, ecc.).
La stessa vita religiosa non si sviluppa sotto il segno di un’unica concezione della “religione” ma sotto la spinta di diverse esperienze di “religiosità” in gruppi, comunità, movimenti.
Tutta la vita moderna è esperienziale, in quanto vince la ricerca (attraverso l’esperienza della diversità) della componente più soggettivamente significativa delle diverse dimensioni della vita individuale e collettiva.
C’è ancora spazio per la “fedeltà”?
Che ruolo e peso può avere la fedeltà (ad una scelta o ad una più profonda vocazione) in una società politeistica ed esperienziale? In una società in cui si allargano invece di approfondire i campi di espressione della personalità individuale; in una società dove si preferisce “piluccare” invece di perseverare nel capire la realtà; in una società in cui vale il gusto della varietà di tante scintille di verità e non la costanza su poche antiche certezze; in una società dove vince la sensibilità esasperata su eventi e fenomeni spesso cangianti invece della concentrazione sulle lunghe e lente derive della storia; in una società di questo tipo è più facile l’esercizio della sperimentazione continuata (anche negli affetti, talvolta) che l’esercizio della fedeltà. La vocazione si indirizza più sul far suonare tante corde del proprio essere che sul ricercare l’essenza unitaria di sé e delle cose.
È in questa realtà che si pone il problema del valore della fedeltà. Cosa è fedeltà in una società segnata dal desiderio di esperienze diverse in una logica di politeismo culturale? È possibile credere in una sola scelta e seguirla nel lungo periodo (per tutta la vita, se occorre) in una società che permette o promette una grande quantità e varietà di scelte?
La mia risposta a tali domande non è del tutto negativa. Certo, se si rimane sul piano delle riflessioni concettuali o delle propensioni emotive o delle valutazioni pragmatiche, risulta problematico capire e dire cosa sia oggi la fedeltà (la costanza e la perseveranza nella fedeltà, il bisogno e la nostalgia della fedeltà, la chiamata e la fatica dell’esser fedeli). Ma se si guarda alla storia concreta di ciascuno di noi si vede che la fedeltà è oggi ancora possibile, a patto però che si inverta il suo riferimento di fondo: oggi si può e si deve concentrarsi sulla “fedeltà all’oggetto” non su quella a se stesso, al soggetto.
Mi spiego meglio. In una società ad alta soggettività ed alta propensione esperienziale, centrare la fedeltà sulla dimensione soggettiva (“resto fedele a me stesso ed a quello che sono o penso di essere”) è estremamente pericoloso, proprio perché siamo persone quotidianamente tentate a sperimentare un’esperienza nuova, a considerare l’esperienza come un arricchimento, a sentirci più pieni e più noi stessi se sviluppiamo questo arricchimento, a considerare quindi la fedeltà come un potenziale isterilimento. La fedeltà, in questa prospettiva, è eroica fatica; posso pensare che pochi la scelgono e ne siano contenti, ma tantissimi la sentono estranea, anche se non conoscono la critica di Bonhoeffer verso gli “eroismi sospetti” del comportamento etico.
La fedeltà “possibile”
La fedeltà possibile oggi per tanti è la fedeltà dell’oggetto: fedeltà all’oggetto del proprio lavoro, fedeltà ai temi significanti della propria riflessione culturale e religiosa, fedeltà ai destinatari del proprio impegno di volontariato, fedeltà al contenuto tecnico della propria professionalità, fedeltà all’altro che ci sta di fronte in ogni rapporto umano, fedeltà alla moglie ed ai figli come “altri” e non come parte di se stessi e della fedeltà a noi stessi.
Solo l’accettazione dell’oggetto come altro da noi, e quindi come qualcosa che non possiamo ridurre a pura esperienza soggettiva, ci può dare il senso della fedeltà non come dovere ma come più intensa e concentrata “esperienza di altro”.
La fedeltà può essere non solo possibile ma addirittura arricchente, in una società politeista.