La famiglia educa alla fedeltà
Fedeltà significa legame stabile: con se stessi, con un valore, un contesto, o altra persona. Il fatto, o meglio il comportamento, non è in sé una virtù. Lo diviene allorché matura come consapevolezza di un progetto e si connette per la persona con i significati inter-dipendenti di intenzione, scelta, coerenza, impegno. Solo così compreso ed assunto il legame fedele è vivibile quale gioia di un bene desiderato e continuamente desiderabile; non è sofferto come esclusione da altro felice immaginario e come realistica povertà. Ne discendono quattro precisazioni.
1. L’educazione alla fedeltà è educazione all’essere pienamente persona in relazione con la vita stessa e con gli altri, che ne sono la parte più significativa. Non è quindi un particolare, specifico complemento educativo.
2. Il comportamento fedele può anche essere espressione di immaturità personale, di paura, oppure dell’assoggettarsi a condizionamenti, siano questi reali o immaginati. In tali casi il rifugiarsi nella fedeltà è inerzia e rassegnazione per chi la offre; viene vissuta come incuria e mistificazione da chi la riceve. Fonte comunque di malintesi relazionali e reciproco disagio.
3. La vita familiare è la naturale, primaria matrice della capacità di vivere l’intersecarsi dei rapporti fra Sé e, oltre a Sé, fra gli Altri; è quindi formatrice intrinseca della capacità di assumere degli impegni cui essere fedeli.
4. La famiglia educa alla fedeltà responsabile aumentando la consapevolezza e la ricchezza degli spazi relazionali e progettuali; esercitando la reciproca verifica di senso condiviso e di comuni significati. Non educa insegnando o imponendo comportamenti fedeli a cose, idee o persone.
Tali asserzioni richiedono qualche riflessione che le giustifichi. Il legame stabile è istintivo nel bambino, perché dipende da tale legame la sua sopravvivenza fisica e il processo di formazione del Sé attraverso la significazione affettiva. Nelle naturali condizioni di vita l’investimento è rivolto alla propria famiglia: persone, oggetti e spazi compresi.
Si trasforma, nell’arco dell’infanzia, da emotivo attaccamento a sentimento di appartenenza. Ha radici, come si è detto, nel bisogno esistenziale di sussistenza ed evolve come più ampio bisogno psicologico di sicurezza.
I genitori accolgono il bambino, si prendono cura dei suoi bisogni non solo materiali e man mano lo incoraggiano al distacco verso la realtà esterna e a lui estranea, garantendogli però in ogni momento il rientro nella sua casa e nella reciproca confidenza.
In ogni adulto, che abbia pienamente vissuto l’infanzia e le relazioni familiari, permane, a sostegno del desiderio di altri legami stabili, questa nostalgia di un mondo accogliente riconoscibile come proprio e che ti riconosce sua parte essenziale.
Da questi sentimenti nasce l’aspirazione a ricomporre un contesto dove rivivere la familiarità. A partire dalla seconda infanzia fino alla prima vita giovanile, se la sicurezza affettiva ed identificativa sono fondate, subentra il prevalere dell’orientamento soggettivo alla scoperta del nuovo e alla varietà delle relazioni.
La persona allaccia e respinge legami vari, fra loro e da sé diversi, nella ricerca di propria e altrui verifica. La fedeltà in tale periodo viene prevalentemente vissuta nella dimensione, pure pertinente, di vincolo sociale: cioè come richiesta da altri e dall’ordine sociale stesso, più che come proprio bisogno e orientamento.
Organizzazione e ordine della Società in cui si ritrova limitano infatti la naturalità esplorativa, e il riconoscimento sociale è subordinato alla adesione di specifica cultura, modelli e compiti.
L’individualità in questa fase della vita si scontra con la socialità, oscillando tra la attrattiva per le garanzie che l’ordine offre e l’insofferenza per le limitazioni che esso impone.
Comunque la fedeltà che prima era rifugio, è ora sacrificio e non è ancora scelta. In questa dialettica, che costruisce, se pienamente dialogata, la interiorizzazione della socialità adulta, la vita familiare è mediatore formativo indispensabile. Perché incarna la naturale compenetrazione di identità umana specifica e irripetibile e della configurazione di gruppo organico ed organizzato.
Le radici affettive di appartenenza rendono, entro la famiglia, comprensibile ed accettabile per il ragazzo il dovere di riscontro materializzato nel contributo del fare ognuno la propria parte per la coordinazione e la buona funzionalità comune.
La famiglia educa così, offrendo se stessa come esperienza concreta di reciprocità solidale e collaborativa, fatta di tante azioni quotidiane che rendono il vivere insieme ambito di benessere maggiore di quanto ciascuno potrebbe da solo organizzare per sé.
Insegna inoltre implicitamente che la stabilità dei legami e degli intenti trasforma la sofferenza, per l’esclusione da altre aree di interesse e legame, in soddisfazione della piena padronanza di quelle che si sono scelte. Accompagna nella scoperta della varietà e costruttività di ciò che si può trarre dal dedicarsi, quando le scelte sono condivise e l’impegno è realizzato insieme ad altri.
Infine una famiglia reale, non solo convenzionale, né solo apparente, genera altre famiglie reali, in un concatenarsi che è storicizzazione della fedeltà.
Perché maturità e creatività individuali volgono al naturale sbocco della progettualità interpersonale: innovativa nello scambio e riespressione dei ruoli e dei legami; ma fedele alle dinamiche umane che hanno dato pieno senso alla propria persona e ai legami esistenziali che la realizzano.
Vi sono però anche persone che, pur cronologicamente e mentalmente adulte, non hanno pienamente compiuto la formazione di identità, a causa di possibili difficoltà affettive o relazionali. Altre persone possono non essere neppure fedeli a Sé, perché profonde lacerazioni e conflitti fanno sì che il riconoscimento e la presa in carico di una propria parte rinneghi altra parte dello stesso sé.
Tali persone possono anche ricercare ed assumere comportamenti fedeli, mossi da bisogni diversi. Per esempio per inseguire la rassicurazione di non venire abbandonate nella solitudine; oppure per sfiducia nella reciprocità del riconoscersi ed amarsi, che viene allora sostituito dalla aspirazione al possesso. Per conformismo a una società vissuta come schiacciante invece che condivisibile; per ancoraggio a ciò che è accaduto e che ti ha offerto una presenza concreta, mentre ci si dibatteva nell’incapacità di scelta. Per rinuncia, pigrizia, quieto vivere, particolare interesse, da cui ci si fa guidare, perdendo prospettiva e interiore dinamicità; ma soprattutto senza sentirsi mai pienamente responsabili; e di conseguenza orientati a far pagare all’altro il peso della fedeltà stessa. In tutte queste accezioni la fedeltà non è certo virtù, forse è vizio.