Affettività e vocazione
Il cliché ormai è collaudato, il bravo formatore chiama l’esperto a parlare ai suoi ragazzi/e con un invito esplicito di questo tipo: “Vorremmo trattare con lei della affettività che si fa dono e trova il suo pieno compimento nell’amore oblativo”. L’esperto esegue le consegne e la sua “devota” relazione gli procura anche un applauso.
Ma a relazione finita, il formatore bussa timidamente alla sua porta e gli fa capire che il suo discorso sulla oblatività va anche bene, ma, consiglia timidamente: “se crede bene, faccia anche un accenno alla masturbazione, alle interminabili telefonate con l’amico/a, alle fantasie…”. Il relatore obbedisce e a questo punto, silenzio in sala, tutti con la testa sotto i banchi e sguardo che sembra dire: “costui ci infastidisce, non lo chiamiamo più; la prossima volta parleremo della castità in S. Paolo”.
Siamo realisti. Evitiamo di intellettualizzare e guardiamo in faccia la realtà. I nostri bravi giovani di seminario e di noviziato entrano perché – come dicono loro – hanno avuto la “conversione” e si illudono che tutto ciò che è stato prima sia, di incanto, sparito. Prima cosa c’era? Mal che vada, nomadismo sessuale, masturbazione, relazioni sentimentali sullo stile “ti voglio bene” (che poi significa “io ho bisogno di te”). Ben che vada, moralismo ad oltranza del tipo “io sono puro, non baciatemi”, fantasie più o meno elaborate di sogni infranti. E tutto questo, senza scomodare l’inconscio: basta che abbiano il coraggio di confidarsi e, grazie a Dio, ne hanno tanto. L’effetto conversione dura qualche anno, e poi il cuore ritorna a ripiegarsi su di sé come prima. Come diceva, argutamente, un mio seminarista: “al primo anno di teologia, per spirito di povertà, ho venduto lo stereo; al terzo anno, per lo stesso spirito di povertà, l’ho comperato di seconda mano”. Se poi andiamo a vedere il sottofondo familiare, non ci stupiamo neanche più di trovare storie familiari conflittuali, segnate da separazioni dei genitori o assenza fisico-affettiva degli stessi.
Una critica affettuosa
Siamo realisti: oggi i ragazzi che bussano alle nostre porte sono per lo più degli incapaci di “sognare alla grande”. Hanno quasi sempre una paura enorme di rischiare, progettare su vasta scala. Il loro cuore funziona in genere per mete a breve termine. Se analizziamo il sistema dei loro desideri, ci accorgiamo che il loro è un desiderare povero, ripetitivo e a basso cabotaggio. Banalizzano la radicalità del vangelo in valori stereotipati, tipo “mettersi a disposizione, servire la gente, fare un servizio, dichiararsi disponibili…”. Ricordo un bravo religioso che in occasione della sua professione perpetua, così spiegava alla gente il suo voto di castità: “fedeltà alla storia”.
Il punto di partenza
E allora? Sesso o S. Paolo? Io partirei invece dai dati: i bisogni psichici (specialmente quelli auto-centrati e non solo sessuali) stanno acquistando una forza sempre maggiore nella dinamica decisionale. Basti pensare alla cultura attuale fortemente egocentrica[1]; la forza dei valori normativi tende a diminuire. Soprattutto dei valori trascendenti, quelli cioè che maggiormente fanno appello alla irrazionalità e “stupidità” della fede[2]; gli atteggiamenti profondi di vita non sono facilmente intaccati dalle strutture istituzionali, anch’esse smarrite nella ricerca del proprio “carisma” o comunque preoccupate alla conformità esteriore (vedi l’apatia e la “serenità” di certi seminari o case di formazione).
Mettiamo insieme questi tre ingredienti esplosivi e ne risulta una strana definizione di maturità affettiva: realizzazione e integrazione armonica di tutte le mie potenzialità, alcune direttamente confermate dal valore, altre (le più “delicate”) da esso sublimate.
E così, la mancata soddisfazione di qualche potenzialità è automaticamente vista come impedimento ad affermare il meglio di sé, quindi un anti-valore[3].
Il Nucleo
Cosa c’è alla base. Un cuore impaurito. La paura della passionalità. Strano, ma per me il punto preoccupante è la caduta pericolosa dell’eros: passione, inventiva, aggressività, energia che trascina – in alto o in basso – ma trascina. Su questo terreno apatico, tutto può crescere: erotismo o frigidità, narcisismo o depressione, idealismo astratto o gretto pragmatismo, arrabbiature con se stessi o promesse da marinaio.
Non sono gli effetti a preoccupare. È la radice: la logica ingannatoria del bisogno, che fa ragionare in termini del “per me”, come se l’affettività fosse un bisogno di ricevere affetto e ottenere gratificazione. È il modello (mortale, ci disse Freud!) del: impulso che spinge – soddisfazione obbligata – tensione finalmente ridotta. La voglia di vivere muore. Anzi, a lungo andare viene meno la stessa capacità di godere da quelle gratificazioni così ripetitivamente ricercate[4]. II punto preoccupante è una vita senza passione, apologetica dello status quo, timorosa di ciò che la rende significativa: il rischio, la trasgressione, la tensione e l’azzardo di perseguire obiettivi esigenti e attraenti.
Ma già che ci sono, vado fino in fondo. Mi sembra di capire che i giovani di oggi non vedono più nella castità un attentato alla loro libertà.
Questa era una paura di noi “ex giovani” e un po’ sessantottini: vedevamo negli ideali cristiani lo spauracchio del Super-io, il padre inibitore che, con barba e baffi, ci impone divieti e tabù per cui essere cristiani significava entrare in un imbuto che si restringe sempre più.
Mi sembra che per il giovane di oggi l’idea e cristiano spaventi per la sua eccessiva ed “esagerata” apertura di orizzonti. Un attentato alla piccolezza, tanto cara e familiare. Spaventa perché provoca, non perché inibisce.
Come i loro coetanei, anche i nostri giovani hanno la paura del “figlio”. Figlio come simbolo: qualche cosa che è stato azzardato da me, è nuovo, non identico a ciò che già c’era, fratello ma non gemello del precedente. È la paura che “il figlio generato” possa vivere da orfano (perché io non so fino a quando potrò impegnarmi) e in condizioni di non protezione (sorretto solo da me e non in un contesto di solidarietà).
La proposta
Si tratta allora di rimettere la persona in contatto con le sue energie vitali più immediate: quelle istituzionali, pre-morali e pre-razionali. Risvegliare il sopito istinto di libertà e responsabilità. Deatrofizzare la voglia di cercare e la certezza di trovare. Fare capire che dentro di noi, non c’è solo la logica del bisogno, del “per me”, ma c’è una aspirazione ben più forte che è una tendenza finalistica, dell’“andare oltre” e che, disciplinata, porta ad appassionarsi per un obiettivo esigente e attraente che è: la croce di Cristo! Io chiamo tutto questo: “fare l’archeologia del desiderio”. “Uomo, vuoi essere te stesso? Osa desiderare; scava dentro di te e troverai un desiderio ferito di trascendenza”. Ecco la maturità affettiva: lasciarsi attrarre da un messaggio attraente che si rivolge ad un soggetto potenzialmente attraibile. Riuscire a leggere il proprio profondo alla luce di Dio.
È sbalorditivo vedere come i giovani ci arrivano alla svelta. Quando lo fanno, si accorgono che il loro passato non è più un dato da subire o sbarazzarsene, ma un dono del Dio creatore. La natura si risveglia perché diventa creazione. Il semplice “esserci” diventa “essere così perché così voluto da Dio”. Il “davanti a Dio” fa vedere il dato come luogo di salvezza: il primo atto salvifico in favore dell’uomo.
E dall’archeologia possono passare al loro futuro. Non più un’elaborazione della sola mente umana, ipotetico e incerto finché non si è realizzato. Diventa un futuro di certezza: realtà garantita in anticipo, prima che si realizzi, e già garantita come futuro di redenzione peraltro già iniziato in sordina dal Dio creatore. Il dato è nobilitato a creazione e il futuro a redenzione. Il Dio creatore che mi ha fornito di un dato, si manifesterà come Dio redentore che fa di quel dato il luogo della realizzazione più alta della sua parola.
A questo punto si capisce bene la definizione di maturità affettiva: capacità di fare un dono totale di sé, motivato dalla trascendenza teocentrica (e non solo filantropica – sociale o egocentrica)[5]. È una definizione esistenziale (quanto mi dono?) e strutturale (quale è la motivazione del dono?). Contiene la risposta a due domande: chiamati a che cosa? (fino in fondo); per quale motivazione? (per un amore che viene da Dio e porta a Dio).
In questo contesto (per niente scontato) sarà possibile affrontare il tema della oblatività o le sue difficoltà di percorso.
Il prezzo
Ma c’è una sfida da sopportare, che rende amaro il giorno della conversione. E la sfida non si chiama sublimazione, ma rinuncia. Bisogna accettare che la fede, se inizia come sostegno e rinforzo alla nostra identità umana, richiede – ad un certo punto – di rifondare la stessa identità, andando contro ciò con cui umanamente ci sentiamo solidali[6]. Ci obbliga a cambiare i criteri interpretativi di ciò che è felicità, successo o sconfitta. E quindi, una parte del nostro io viene dispersa, inutilizzata, resa sterile.
Ciò vuol dire: riconoscere apertamente la necessità della rinuncia ad alcune nostre potenzialità, l’obbligo di vivere in una sana tensione di crescita, sapere tollerare il deficit, vivere in stato di astinenza da risultati e ambizioni personali.
È c’è un guaio ancora più grosso: tutte queste rinunce continueranno sempre a reclamare i loro diritti di cittadinanza in noi. Non ce ne liberiamo mai, anzi a volte quei diritti ricompariranno come i più attraenti e logici. L’addio riguarda l’attuazione ma non l’esistenza delle “controindicazioni” che non possono (e non devono!) essere annullate. Ed è bello che sia così: le alternative rese sterili ma sempre presenti, stanno a ricordarci che la scelta fatta non era d’obbligo e che a tutt’oggi rimane sotto un consenso libero. L’alternativa ripropone sempre l’interrogativo terribile del “volete andarvene anche voi?”, che è un buon incentivo alla perseveranza.
Inconveniente e fascino della vita consacrata a Dio. Ma non preoccupiamoci: è la regola di ogni vita riuscita. Amare è sempre un po’ morire.
Note
[1] Sulla critica a una tale cultura vedi l’interessante saggio di Ch. Lasch, L’io minimo; la mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1987.
[2] Nel messaggio cristiano possiamo distinguere due classi di valori. Valori umani che dal vangelo vengono ricuperati e incrementati. Valori trascendenti che derivano dallo specifico cristiano e comprensibili sono nella logica del mistero pasquale.
[3] Ben diverso è il concetto cristiano di realizzazione: la conseguenza derivata dalla ricerca di un obiettivo, diverso dal soggetto ricercante e che funga da significato in se stesso, ben distinto dai risultati che produce. È la realizzazione come superamento di sé e non solo come gratificazione o espressione di sé. E così il fallimento cristiano è l’aver mancato l’obiettivo, diverso e distinto dalla realtà soggettiva e che funge da organizzatore delle scelte di azione.
[4] Anche in campo sociologico si nota la teorizzazione di un umanesimo più completo di quello cristiano ma che, in realtà, si rivela per un umanesimo dimezzato, senza grandezza e poca dignità. Vedi ad esempio il livellamento (verso il basso) della umanità in J. Rawins, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982 e la banalizzazione sentimentale della morale operata da F. Alberoni e S. Veca, L’altruismo e la morale, Garzanti, Milano 1988.
[5] Vedi L. Rulla, F.Imoda, J. Ridick, Antropologia della vocazione cristiana, II. Conferme esistenziali, Piemme, Casale Monferrato, 1986, 190-199.
[6] È il punto critico della fede, nel quale prima o poi l’uomo adulto si imbatte. Cfr. A. Manenti, Vivere gli ideali; fra paura e desiderio, E.D.B., Bologna, 1991, 129-141.