Pastorale familiare è pastorale vocazionale
Famiglia e vocazioni: non è un tema nuovo sull’orizzonte della pastorale vocazionale.
La novità appare se mai nella sua immediatezza quando il rapporto famiglia e vocazioni si traduce nel seguente assunto: pastorale familiare è pastorale vocazionale. Ovvero: far pastorale familiare significa fare pastorale vocazionale. Come dire che è naturale la continuità, per non dire l’unità e l’identità, tra pastorale familiare e pastorale vocazionale.
Il primo e non unico vantaggio di quest’impostazione, del rapporto profondo tra famiglia e vocazioni nella comunità ecclesiale, è anzitutto il superamento nella pastorale ordinaria di un certo isolamento di fatto della pastorale vocazionale nei confronti della pastorale familiare nonché il superamento di una certa tentazione di autonomia della pastorale familiare e il timore di essere strumentalizzata dalla pastorale vocazionale stessa.
Nello spirito e nello stile di una “pastorale diocesana organica e unitaria”[1], che ai nostri giorni s’impone per motivi ecclesiologici e pastorali, sono almeno due le coordinate che rivelano l’unità e la continuità tra la pastorale familiare e pastorale vocazionale: la persona al “centro” dell’azione pastorale della chiesa per la famiglia e la famiglia “luogo nativo” della comunicazione della fede e della vocazione nella comunità ecclesiale.
La persona “al centro” dell’azione pastorale
La famiglia è l’ambiente educativo fondamentale per ogni persona. È elemento chiave nella formazione del carattere di una persona e delle sue attitudini verso la società. È luogo d’interessi affettivi e di rapporti personali profondi, quindi ambito privilegiato per costruire il tessuto antropologico unico e irripetibile di ogni persona[2].
Questi rapidi cenni, sviluppati ampiamente in questi anni dal Magistero e dagli studi teologico pastorali, sono sufficienti a motivare l’unità e la continuità tra pastorale familiare e pastorale vocazionale.
È, infatti, la famiglia che educa al “senso positivo della vita”[3], alla “ricomprensione del senso ultimo della vita e dei suoi valori fondamentali”; alla “coscienza morale, che rende ogni uomo capace di giudicare e discernere i modi adeguati per realizzarsi secondo la sua verità originaria”[4].
La verità originaria dell’uomo, lo sappiamo, è la sua vocazione così riassumibile: “l’uomo soggetto unico e irripetibile, con la sua interiorità e specifica personalità, oggetto dell’amore del Padre, che nel suo piano salvifico chiama ognuno alla sublime vocazione di figlio nel Figlio”[5].
Sappiamo anche come la realizzazione di tale vocazione della persona umana, immagine di Dio, dipende essenzialmente da una famiglia capace d’impartire un’educazione aperta ed integrale, ove alla comunicazione della fede e all’esperienza feriale di educazione alla solidarietà e all’amore-dono, si accompagna l’apertura ai valori della sofferenza e del sacrificio, tanto importanti per la maturazione della persona e per la formazione del carattere dei figli.
È significativo che oggi l’azione pastorale della Chiesa, centrata sulla priorità della famiglia, interessi anche coloro che operano nei tanti settori del disagio sociale. E ciò, a ragione, perché la famiglia è imprescindibile per educare le giovani generazioni al senso positivo della vita: l’uomo vi riceve “le prime e determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, apprende che cosa vuol dire in concreto essere una persona”[6].
La pastorale familiare è in naturale continuità con la pastorale vocazionale proprio quando è capace di mettere al centro dell’evangelizzazione e di tutto il processo educativo “i figli come persone uniche e irripetibili, con i loro doni ed una propria vocazione”[7].
Famiglia e comunità ecclesiale: insieme per un’educazione vocazionale
Tra le forme specifiche di protagonismo educativo della famiglia, nella comunità ecclesiale, c’è ovviamente la comunicazione nella fede e della fede.
Educare alla e nella fede significa essenzialmente aiutare una persona a vivere secondo il progetto di Dio, perché ciascuno possa riconoscere e vivere la propria vocazione.
L’azione educativa alla fede “possiede perciò un’intrinseca dimensione vocazionale, e la famiglia è chiamata a essere l’ambito privilegiato in cui ciascuno liberamente possa decidere di vivere secondo il divino disegno… Perché le famiglie si aprano all’educazione vocazionale è importante che vivano momenti di preghiera, di ascolto della Parola, di silenzio… Oltre la preghiera occorre un’attenzione a ciò che avviene, ai bisogni e alle sollecitazioni che ci vengono dagli altri”[8].
In questo compito educativo, famiglia e comunità ecclesiale sono naturali alleate: pastorale familiare e pastorale vocazionale – rispondendo insieme all’interrogativo di fondo “che cosa vuol dire educare?” – si traducono e si propongono come un unico cammino di fede ecclesiale.
Un cammino di fede è il luogo in cui famiglia e comunità ecclesiale interagiscono all’unisono: “è compito della famiglia… far vivere al ragazzo le realtà ecclesiali… reinserirlo continuamente nel tessuto della Chiesa locale”[9].
Un cammino di fede, nei contenuti proposti e nelle diverse tappe previste, accompagna la persona dal primo momento della fede come “fede ricettiva” – che è appunto un “ricevere”, un “affidarsi”, attraverso la mediazione proprio dei genitori – sino a maturare una “fede oblativa”, in cui Dio è Colui che non soltanto fa qualcosa per l’uomo ma anche Colui per il quale si è chiamati a fare qualcosa. E questo è il punto nodale, sul piano dell’educazione alla fede dei figli, ove pastorale familiare e pastorale vocazionale s’incontrano e sono complementari.
“Il dinamismo del cammino va verso una fede attiva e operante ed è questo il momento più delicato. Soltanto se il ragazzo riesce a cogliere la vita come una chiamata di Dio, il problema educativo è stato impostato nel suo centro fondamentale, ha fatto emergere la verità dell’esistenza umana e allora il ragazzo potrà assumere la sua vita come risposta alla chiamata. Tutti gli altri ideali di vita che non corrispondono ad una apertura vocazionale conducono, inevitabilmente, a scelte sbagliate, dunque, rischiose… È chiaro che anche i genitori devono cogliere che se per il loro figlio la vita è risposta a una chiamata, questa chiamata può esigere tutto. L’esclusione sottintesa di quella che potrebbe essere la vocazione di consacrazione totale è, di solito, nociva nel campo educativo perché non permette che ci sia quell’attenzione morale totale, che sola è capace di catalizzare le energie giovanili verso un mondo difficile come il nostro… Non è questo il tempo nel quale si possa ‘educare a metà’”[10].
Le famiglie – sostenute da una pastorale familiare mirata vocazionalmente e finalizzata a educare la vocazione dei figli accompagnandoli in un cammino di fede ecclesiale – sono quindi chiamate ad assumere fino infondo la propria responsabilità educativa in un’azione convergente con tutti gli altri soggetti o educatori propri della comunità cristiana, in specie con gli itinerari di fede propri della pastorale giovanile.
Il presente numero di ‘Vocazioni’, attraverso i ricchi e significativi contributi che seguono, intende favorire un rapporto fecondo tra pastorale familiare e pastorale vocazionale.
Note
[1] CEI, Evangelizzazione e Testimonianza della Carità, n. 29.
[2] Cfr. Pontificio Consiglio per la Famiglia, Dalla disperazione alla speranza, Libreria Editrice Vaticana 1992, p. 6-9; cfr. C.M. Martini, Programmi pastorali diocesani 1980-1990, EDB, p. 35.
[3] Cfr.Pontificio Consiglio per la Famiglia, idem p. 6.
[4] Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, n. 8.
[5] Pontificio Consiglio per la Famiglia, idem p. 6.
[6] Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, n. 39.
[7] Pontificio Consiglio per la Famiglia, idem, p. 24.
[8] C.M. Martini, Il vino nuovo, Ed. Piemme 1992, p. 178.
[9] C.M. Martini, idem, p. 21.
[10] C.M. Martini, idem, p. 23.