N.03
Maggio/Giugno 1992

“Segni” vocazionali nella celebrazione del matrimonio

La vicenda coniugale – dall’attrazione nell’innamoramento alla decisione di unire le due esistenze, dalla celebrazione matrimoniale alla comunione di vita – può essere sperimentata come percezione di appelli e responsabile risposta ad accoglierli e a corrispondervi, sino a modificare il comportamento di ciascuno dei due. Per due credenti, che cercano di vivere consapevolmente la loro esperienza matrimoniale, è possibile parlare di vocazione, nel senso di chiamata da parte di Dio per realizzare la sua volontà? La liturgia del matrimonio dovrebbe essere luogo e momento nel quale i vari impulsi e le diverse sollecitazioni, che i due sposi sperimentano, acquistano la loro valenza cristiana e perciò possono apparire come esplicita manifestazione della “vocazione”, propria a ogni stato di vita compreso nella fede.

Un’analisi dell’attuale liturgia del matrimonio sacramento richiede, però, alcune premesse, alcune di ordine oggettivo altre di ordine soggettivo1.

Innanzi tutto la liturgia cattolica del matrimonio si è formata in secoli nei quali non erano presenti le attuali preoccupazioni teologico-pastorali e neppure le contemporanee sensibilità antropologico-spirituali, per cui risulta anacronistico cercare nei formulari di allora esplicite affermazioni riguardanti questioni odierne. Trattandosi di testi biblici e di forme eucologiche, è possibile però farli oggetto di adeguata interpretazione, con un corretto procedimento ermeneutico, che rintracci e sviluppi nei dati biblico-liturgici messaggi validi e traducibili nella nostra cultura.

D’altra parte una teologia del matrimonio, resa ufficiale al Vaticano II con le costituzioni Lumen Gentium (n. 11) e Gaudium et Spes (nn. 47-52), data dalla metà di questo secolo ed è praticamente impossibile che sia diventata coscienza comune dei fedeli. Per quasi due millenni la mentalità dei cristiani intorno alla vita matrimoniale è quella che il cristianesimo ha incontrato nella cultura grecoromana, e che è stata formulata canonicamente. Il concetto biblico di alleanza nuziale di fatto non ha influito sulla catechesi e neppure il riferimento al rapporto sponsale Cristo-Chiesa, sacramentum magnum di Ef 5,32.

Questi testi sono serviti a teologi e canonisti per definire la sacramentalità del matrimonio fra cristiani, ma sono stati estranei alla mentalità popolare anche cristianizzata. Mancano quindi nei fedeli, che si decidono al matrimonio e lo celebrano sacramentalmente, quelle categorie interpretative, biblico-teologiche, che consentono loro di comprendere i messaggi provenienti dalla liturgia.

A meno che non accettino di prepararsi adeguatamente, riflettendo sui riti e scambiandosi impressioni, guidati in ciò da chi è capace di trarre, con saggia ermeneusi, i temi vocazionali che i testi pur contengono.

 

 

Lo scambio dei consensi come “segno” vocazionale

Dopo tali premesse, che c’invitano a essere cauti nel pretendere che la liturgia matrimoniale irraggi motivi vocazionali, esaminiamo il rito del matrimonio partendo dal rito sacramentale che ha i due sposi come protagonisti attivi. Nel medesimo atto di scegliersi e di impegnarsi in un’esistenza coniugale consiste l’azione sacramentale, al punto che si è potuto sostenere che siano gli stessi sposi a essere i ministri del loro matrimonio. Il ministro ecclesiale presente, però, non è solo testimone o comparsa, dato che funge da presidente ed esprime ministerialmente la Chiesa, nella cui comunione avviene il matrimonio, e lo stesso Cristo unisce gli sposi.

La formula attualmente in uso è più antica di quella in vigore dal rito tridentino, ed è una dichiarazione di decisa volontà di uno sposo verso l’altro. Nelle sue parole essa è religiosamente e cristianamente “asettica”: “Io, N., prendo te, N., come mia (o) sposa (o) e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.

Il “prendere” l’altro non significa afferrarlo o impossessarsene, con volontà predatoria e con intenzione di sfruttamento, bensì ha il senso di accogliere, di ospitare in sé, di offrire dimora e protezione perché l’altro viva e prosperi. È una risposta all’altro dal quale si è percepito un appello e si è apprezzato un dono: l’appello a vivere in comunanza di esperienza e il dono di sé. Tale risposta diventa promessa che impegna per tutta la vita: amore e onore, dato che nell’altro si riconosce una persona da eleggere come partner della coppia e come detentrice di diritti.

Quindi la struttura dell’appello e della risposta, del riconoscimento e della responsabilità, del gradimento e del dono, trova la sua espressione nei gesti (il prendersi per mano, guardandosi negli occhi) e nelle parole del “consenso”. Da cosa viene che tale struttura si apra alla dimensione vocazionale, includendovi la chiamata di Dio e quindi la risposta di fede e di carità? È il contesto celebrativo ecclesiale, nell’assemblea che è sempre convocazione da parte del Signore, con la presidenza del ministro che rappresenta l’iniziativa del Signore, nella vita degli sposi, con la lettura dei testi biblici nei quali il Signore parla ai credenti che ascoltano, ed eventualmente con la celebrazione eucaristica per la quale gli sposi entrano nell’azione trasformante dello Spirito del Signore.

 

 

I messaggi vocazionali nelle “benedizione degli sposi”

Per far notare come le parole e i riti del matrimonio riverberino messaggi vocazionali sull’atto nuziale compiuto dagli sposi, esamino le tre formule della “benedizione dello sposo e della sposa”, che provengono da un più antico testo liturgico nuziale, nel quale la “benedizione” era però riservata alla sposa. Si tratta della più originale proclamazione ecclesiale intorno a ciò che il matrimonio è per la fede cristiana, e contiene in germe la riflessione teologica su tale sacramento. Non mi riferisco alla formula antica, ma alle tre formule ora in uso. Da notare che il libro liturgico italiano pone la recita di questa “benedizione” dopo il Padre nostro, quando si celebra l’eucaristica, mentre la pone subito dopo lo scambio del consenso e la consegna degli anelli quando non c’è la messa. È questa la posizione più logica, e molti rituali di Chiese nazionali la contemplano proprio a questo punto.

Queste formule – come la benedizione giudaica dalle quale derivano, la berakah – nella prima parte annunciano ciò che Dio ha fatto per il suo popolo e nella seconda invocano da Dio il proseguimento di quella azione nella quale il popolo trova salvezza. È la struttura letteraria della preghiera eucaristica.

La prima formula ricorda, in un discorso rivolto a Dio ma che di fatto diventa proclamazione nell’assemblea, che “nell’ordine primordiale della creazione” Dio ha formato l’uomo e la donna, “a sua immagine e somiglianza, donandoli l’uno all’altro come compagni indivisibili, perché siano non più due, ma un essere solo. A questa vocazione fondamentale, che riguarda qualsiasi coppia coniugale, se ne aggiunge un’altra che la specifica in senso cristiano: “nel grande mistero del suo amore Dio ha consacrato il patto coniugale e lo ha reso simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa. Perciò nel matrimonio, ogni volta che “in Dio la donna si unisce all’uomo” si costituisce la famiglia che è “la prima comunità umana, e che “riceve in dono quella benedizione che nulla poté cancellare, né la pena del peccato originale, né il castigo del diluvio.

La seconda formula ricorda lo scopo inteso da Dio nella creazione della coppia: “perché l’uomo e la donna, uniti nel corpo e nello spirito, fossero collaboratori della tua creazione. Viene poi espresso il senso che il matrimonio ha nella storia della salvezza: “hai voluto che la comunione di vita tra l’uomo e la donna, simbolo dell’antica alleanza col tuo popolo, divenisse segno sacramentale dell’amore che unisce Cristo alla sua Chiesa.

Più snella, ma anche più povera, la terza formula si rivolge al Padre, ricordando che “ha posto sulla prima famiglia in segno della sua benedizione”. Purtroppo oggi il termine “benedizione” non ha tutta l’ampiezza del suo significato biblico, che con l’azione divina vitalizzante e proteggente include anche la vocazione a esistere e a vivere secondo la volontà di Dio. È lui che “dice-bene”, cioè “benedice”, con la Parola che costituisce e orienta una realtà, facendola crescere nelle sue vie.

Dalle espressioni bibliche rilevate nella parte “proclamatoria” della benedizione degli sposi appare che nel matrimonio, inteso come vita di comunione coniugale, Dio chiama gli sposi a uno stato di vita nel quale essi realizzano la loro esistenza in quanto divengono collaboratori con Dio nell’opera di continuare e compiere la creazione. Tale vocazione riguarda i due sposi non separatamente ma in quanto coppia. A questa vocazione creaturale si sovrappone, dall’interno e non come aggiunta estrinseca, quella inerente alla loro dignità cristiana per cui sono chiamati a vivere sponsalmente in riferimento all’unione nuziale Cristo-Chiesa.

Nella sua portata operativa, questo aspetto sacramentale si precisa nella parte “invocatoria” della benedizione degli sposi, dove si chiede a Dio che gli sposi siano aiutati, per l’azione dello Spirito Santo, ad attuare nella loro concreta vicenda nuziale gli atteggiamenti interiori e i comportamenti corrispondenti a un’unione sponsale esemplare. Bisogna leggere direttamente i testi, che non sono sintetizzabili, per avere un quadro ideale della convivenza coniugale di chi è chiamato a rendere visibile nel mondo l’amore divino comunicante e fecondo.

Le pretese espresse in queste formule liturgiche sono molto alte, ma si deve sapere che non si tratta di un programma morale astratto bensì di condizioni esistenziali il cui ispiratore è Dio, tramite lo Spirito di Cristo. Perché ciò sia più chiaramente evidente, nella seconda edizione dell’Ordo celebrandi matrimonii (1990), di cui si attende l’edizione italiana, si esplicita tale azione che nei testi precedenti era implicita. L’effetto di qualsiasi sacramento non è solo di stimolare le persone a dare il massimo di sé nella prospettiva intesa dalla celebrazione, ma è di associare il fedele a quell’opera di salvezza e di perfezionamento che lo Spirito di Dio compie incessantemente in lui.

Nel caso del matrimonio il soggetto che si apre a questa azione, collaborandovi, non è il singolo sposo ma la coppia in quanto tale, quindi ciascuno nei confronti del l’altro. È questa la peculiarità vocazionale insita nel sacramento del matrimonio e resa manifesta dalla liturgia: gli appelli vitali e le vocazioni divine sono percepiti solo attraverso l’altro (coniuge) e le risposte sono adeguate solo se si traducono in atti compiuti verso l’altro o insieme con lui.

 

 

 

 

Note

[1] Per una analisi più completa del rito nella prospettiva catechetica, e quindi formativa, si veda: L. Della Torre  Il Matrimonio, rito e catechesi, Edizioni OR, Milano 1990, cap. II.