N.03
Maggio/Giugno 1992

Paternità e maternità “responsabile”: ossia, l’educazione come “vocazione”

La generazione deve essere “responsabile”: il principio, solennemente affermato dalla Gaudium et spes (n. 50), è ormai entrato nel repertorio delle affermazioni “ovvie” della pastorale corrente, e quindi della stessa coscienza cattolica diffusa. Ad una tale “ovvietà” nominale è dubbio però che corrisponda un’effettiva comprensione di quello che si dice, e quindi anche di quello che una tale affermazione di principio praticamente comporta.

 

 

Quale responsabilità?

La “responsabilità” nella generazione è di solito intesa, in forma troppo angusta, quasi essa riguardasse unicamente il numero dei figli da generare, o al massimo i tempi opportuni per la generazione, valutati in rapporto alle possibilità dei genitori stessi e agli standard di vita di un determinato tempo e di una determinata condizione sociale. Mentre il principio della generazione “responsabile” comporta un riconoscimento assai più generale e impegnativo: l’uomo e la donna, generando, fanno una “promessa” al figlio, lo sappiano o non lo sappiano, lo vogliano o non lo vogliano; la “responsabilità” esige ch’essi lo sappiano e lo vogliano. Esige che dall’inizio prevedano quello che esige la loro effettiva capacità di “rispondere” di una tale promessa: “rispondere” ovviamente non soltanto né soprattutto mediante parole, ma attraverso il complesso delle cure espresse nei suoi confronti. L’educazione, nel suo nucleo più originario e profondo è infatti proprio questo: la fedeltà dei genitori alla “promessa” fatta ai figli mettendoli al mondo.

L’educazione viene oggi intesa in forme meno impegnative, dalla cultura civile e “laica”, ma poi anche dalla retorica largamente diffusa all’interno stesso della Chiesa. Essa è prima di tutto intesa come spontaneo “processo” di crescita del minore, e non invece come forma dell’agire morale e “responsabile” dell’adulto. Certo, viene poi riconosciuto anche che tale processo ha da essere marginalmente propiziato dall’aiuto degli adulti, e degli stessi genitori: ma si tratterebbe di aiuto volto a favorire un “processo” considerato come fondamentalmente autonomo. A partire dal ‘700 – è d’obbligo il riferimento a Rousseau – l’educazione è “puero centrica”: la pratica educativa non avrebbe altra norma che questa, la natura del bambino e quindi le esigenze del suo sviluppo. Per “educare” non ci si dovrebbe affidare a risorse tanto dubbie come sono le convinzioni religiose e morali proprie dell’adulto, ma soltanto alla conoscenza del bambino.

Il “puero centrismo” della teoria educativa produce questa vantaggiosa conseguenza: consente di dissociare la causa dell’educazione dall’altra causa, troppo complessa e problematica, che è quella della vita personale dell’adulto stesso.

L’opera dell’educatore è separata dalla sua persona. Essa esigerebbe competenza “psicologica”, e comunque competenza nella conoscenza del bambino, anziché competenza nel mestiere personale di vivere. Questa separazione realizza appunto l’obiettiva “irresponsabilità” della generazione adulta nei confronti della nuova generazione. Vediamo tale obiettiva “irresponsabilità” praticamente realizzata nelle forme pubbliche dell’educazione contemporanea, che sono fondamentalmente le forme scolastiche. La pedagogia moderna nasce – non a caso – a margine della scuola, assai più che a margine della famiglia.

Espressione emblematica dell’ “irresponsabilità” in questione è proprio la censura del rilievo educativo della persona dei genitori: un rilievo questo che riguarda appunto la loro precisa persona, il loro complessivo modo di essere e di vivere, il loro rapporto reciproco, assai più che le loro prestazioni espressamente educative. Eppure questa evidenza appare assolutamente innegabile, ed è largamente riconosciuta dalla sociologia e dalla stessa psicologia clinica (meno dalla psicopedagogia): l’accesso del figlio all’età adulta, e il suo carattere più o meno felice, è fondamentalmente determinato dalla qualità del suo rapporto con la persona dei genitori.

 

 

Un compito “eccessivo”?

La censura del rilievo dei genitori nell’opera educativa non è casuale, ha motivi precisi: essa corrisponde alla segreta percezione del compito dei genitori come compito “eccessivo” e intrattabile – per riferimento – s’intende, alla qualità della cultura corrente e dell’immagine dell’uomo in essa implicita. Viviamo in una società “democratica”, di uguali, e dunque senza “padri” e senza “madri”. Viviamo quindi anche in una civiltà “secolare”, che non ammette riferimenti religiosi. E d’altra parte, un compito tanto “grandioso”, qual’è quello del padre e della madre, sembra non possa essere compreso altro che in una prospettiva religiosa. Il comandamento mosaico prescrive al figlio: “Onora il padre e la madre”; esso non è più ripetuto; sembra infatti eccessivo, non soltanto ai figli, ma anche e soprattutto ai genitori. Essi preferiscono l’intesa, o magari addirittura l’”amicizia” dei figli; si sentirebbero imbarazzati da un sentimento tanto grandioso come quello dell’ “onore”. Effettivamente, tale sentimento nella sua accezione biblica imparenta i genitori a Dio stesso.

Ma nonostante le censure della civiltà, di fatto oggi ancora i figli cercano nella persona dei genitori “risposta” ad un interrogativo grande, come è quello circa il senso stesso della loro vita. Essi si sono trovati a vivere senza averlo scelto. Al principio non hanno certo inteso tale circostanza quasi fosse l’indice di un abuso commesso nei loro confronti. Al contrario hanno vissuto tale circostanza come grata e promettente; si sono sentiti come “chiamati” a vivere da una “promessa”, imprecisa, e tuttavia anche indubitabile. L’interrogativo che essi rivolgono ai genitori – in forma dapprima implicita e appena avvertita dai genitori stessi, poi in forma progressivamente più esplicita e inquietante – è appunto questo: qual’è il più preciso significato di quella “promessa” che è all’inizio della mia vita? Chi mi ha “chiamato” a vivere? Che cosa si attende da me? E perché è tanto interessato a tutto quello che io faccio, e che io sono? Che vuol dire questa attesa dalla quale io mi sento quasi assediato, che addirittura minaccia di inquietarmi anziché consolarmi?

 

 

Risposte ineludibili

I genitori, spaventati dalla grandiosità di tali taciti interrogativi, sono tentati di rispondere allo stesso modo in cui rispose – in prima battuta – il vecchio Eli al giovane Samuele: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire. Soltanto alla terza richiesta di Samuele, Eli “comprese che Dio chiamava il giovinetto, e gli rispose diversamente: “Se ti si chiamerà ancora dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta (cfr. 1 Sam 3, 1-10). Così i genitori debbono rispondere ai figli fin dall’inizio. Certo, in un primo tempo sarà naturale per i figli confondere la persona dei genitori con quella di Dio stesso; sembrerà loro che essi bastino a giustificare la loro vita. Sentirsi da loro accolti, e certo anche da loro attesi e interpellati, apparirà come un motivo sufficiente per vivere la vita come avventura sensata, promettente e affidabile. La “legge” della vita familiare apparirà come un codice chiaro e rassicurante dell’ordine cosmico. La “facilità” del compito di genitori in questo primo tempo della vita potrà illudere i genitori stessi; essi non si sentiranno troppo oppressi da quell’evidente “onore” che è loro tributato dai figli.

Ma quando poi invece avvertiranno a quali e quanto impegnativi interrogativi li espone questa loro figura, addirittura di garanti dell’ordine cosmico, saranno tentati di rispondere ai figli adolescenti: “Non ti ho chiamato io, figlio mio, rivolgiti altrove; ormai hai la tua età, e per quello che riguarda queste impegnative domande, ciascuno deve arrangiarsi da solo”. Una tale risposta sarà data certo non con parole così esplicite, ma nei fatti, con i comportamenti, con il sequestro sistematico della loro vita (e della loro fede) personale rispetto alla “responsabilità” nei confronti del figlio. Una tale risposta sarebbe un obiettivo tradimento. L’attitudine a “rispondere” agli interrogativi del figlio che cresce, d’altra parte, non dipende solo dalle scelte fatte e dalle parole pronunciate nel tempo in cui i figli sono già adolescenti; dipende invece anche e soprattutto dalla qualità obiettiva di tutta la vita precedente. L’inconveniente frequente dell’opera educativa è proprio questo: soltanto troppo tardi diventa chiaro quello che si sarebbe dovuto fare prima. Dalla “responsabilità” obiettiva di tutta l’opera educativa, anzi, addirittura dalla “responsabilità” della vita intera, dipende la possibilità di dare risposta al figlio ormai cresciuto.

“Responsabilità” vuol dire disposizione a rispondere di sé di fronte al figlio; ma vuol dire a monte disposizione a rispondere di sé di fronte a Colui dal quale solo prende nome ogni paternità in cielo e sulla terra (cfr. Ef 3, 15). Soltanto a condizione di vivere la propria responsabilità come un compito che cerca e trova autorizzazione in Dio, come “risposta” dunque ad una “vocazione”, i genitori diventeranno testimoni trasparenti presso i figli stessi della promessa e della chiamata, che obiettivamente stanno all’inizio della loro vita. Soltanto nel riconoscimento di una tale promessa e chiamata la vita diviene possibile e buona per ogni figlio che nasce in questo mondo.

 

 

Alle sorgenti

Occorre risalire fino all’inizio. La “responsabilità” del rapporto educativo comincia con la “responsabilità” dell’atto stesso della generazione. E un tale atto appare “responsabile” quando assume la figura di un atto di fede, di una specie di “patto” con Dio. Più esplicitamente, quando assume la figura di un “voto”, come espressamente suggerisce G. Marcel, nel suo illuminante articolo “Il voto creatore come essenza della paternità (cfr. Homo viator, Borla, Torino 1967, pp. 115-144). “Volere” un figlio vuol dire rivolgere a Dio una invocazione, e formulare insieme una promessa. L’invocazione è appunto quella di un figlio, a cui far dono della vita, perché essa non rimanga inutile e non sia semplicemente consumata dal tempo. La promessa è quella conseguente, di un’incondizionata disponibilità a quanto il bene di quel figlio chiederà; più precisamente, a quanto Dio stesso chiederà, manifestando la sua presenza fedele attraverso i segni imprevedibili del tempo.

Lo svolgimento di questi pensieri troppo rapidi esigerebbe una rinnovata trattazione di quasi tutti i temi fondamentali di un’antropologia cristiana (abbiamo tentato qualche cosa di simile nel libro “Il figlio, una benedizione, un compito” Vita e Pensiero, Milano 1991). Ci sia concesso qui di terminare dichiarando semplicemente una persuasione: la pastorale familiare (e certo anche la più esile pastorale “vocazionale”), soffrono fino ad oggi per spiccato difetto di radicamento “antropologico”. Detto altrimenti, troppo in fretta si fa appello alle immagini bibliche, alla dottrina dei sacramenti, alla retorica della “chiesa domestica”, senza invece preoccuparsi di intendere la verità di questi simboli cristiani mettendoli a puntuale confronto con le forme dell’esperienza umana della famiglia, e rispettivamente con le scadenti interpretazioni che di tale esperienza offre l’odierna cultura “laica” e “democratica”. Il discorso pastorale sulla famiglia e l’educazione, sottraendosi ad un tale confronto, assume i tratti di un gergo alquanto “iniziatico”per pochi addetti ai lavori; ma soprattutto, elude gli interrogativi gravi con i quali quotidianamente deve confrontarsi la coscienza dei genitori, cristiani e no.