La dimensione vocazionale come dimensione unificante e trasversale della formazione spirituale del presbiterio diocesano
Forse stupisce la ricorrente preoccupazione del Magistero ecclesiale per la verità. Ciò non significa una certa nostalgia deduttivistica, dimentica della persona in situazione concreta o dei crocevia della cultura in cui si imbatte l’uomo con le sue domande più o meno esplicite. Vuole dire semplicemente che nella vigile e coerente ricerca della verità non ci si può fermare a metà strada; non si può cedere alla tentazione dello scetticismo, talora più vissuto che teorizzato; non si può fare della reticenza, per sé e per gli altri, uno stile di vita.
Vedersi “nella sua verità”
Nell’esortazione apostolica “Pastores dabo vobis”, la preoccupazione per la verità, ritorna attorno ad un soggetto preciso: il prete. Non si tratta soltanto di un’identità teologica, oggettiva, per altro già ribadita con chiarezza nel magistero degli anni ‘70; ma di un’identità spirituale, della verità esistenziale della vita del prete, della sua qualità: quella che lo coinvolge profondamente nelle sue tensioni profonde, nelle sue “forze d’amore”, nelle sue motivazioni di fede e nelle sue aspirazioni più realizzanti. Il “vedersi nella sua verità” diventa “condicio sine qua non” per rendere possibile un triplice salto di qualità nella pastorale con a soggetto appunto il prete-pastore, ed ovviamente nella vita stessa della comunità.
Anzitutto il recupero della “bella immagine” della vita e del ministero del prete è la strada più convincente per uscire dal guado della crisi, o delle molte crisi. Crisi di vocazioni identificata con il calo a picco del diagramma delle nuove adesioni. Crisi di vocazione come abbandono del ministero. Crisi di fedeltà nella vocazione come connivenza ministero-mondanità e come sfocamento della verità profonda di sé. L’esortazione addita nella verità vocazionale del presbitero la strada giusta per restituire significato alla sua vita. Infatti sono stati diversi i padri sinodali a dichiarare che una decisa messa a fuoco dell’identità del prete è la “sorgente della nostra gioia e la certezza della nostra vita” (n. 18).
Non solo: – ed è il secondo salto di qualità – il “vedersi nella sua verità” è l’obiettivo vero della “formazione permanente” del presbitero. “Egli deve custodire questa verità con amore grato e gioioso. Deve rinnovare la sua fede quando esercita il ministero sacerdotale; sentirsi ministro di Gesù Cristo, sacramento dell’amore di Dio per l’uomo” (n. 73). La formazione permanente diventa così un processo vitale, una verità che si conosce e si fa, attraverso la crescita armonica di tutte le componenti della formazione: da quella umana a quella spirituale, da quella teologica a quella pastorale. Il “vedersi nella sua verità” costituisce pertanto un cammino che reca dentro di sé un’urgenza di conversione e di fedeltà alla grazia dell’ordine. Tutto questo significa ribaltare il criterio di valore della vita e del ministero; criterio che non sta fuori, nell’azione, per sua natura frammentata e sovente irriducibile ad unità; ma sta “dentro”. Il passaggio è d’obbligo: dalla quantità delle cose che si fanno alla qualità della testimonianza che si rende. Pertanto la formazione permanente diventa la via concreta per “vedersi nella sua verità”; costituisce la strada necessaria senza la quale la verità del ministero resterebbe una frustrante nostalgia, puntualmente tradita anche dopo talune esperienze forti dello spirito.
Solo così “la vita dei presbiteri è il primo ed il persuasivo fattore di fecondità vocazionale” (n. 41). È nota la disaffezione, dei giovani in particolare, per il problema della verità. Per essi è vero ciò che interessa; o comunque, emerge una sorta di atteggiamento selettivo di fronte ai valori ed alle esperienze di vita: lo sguardo si rivolge verso ciò che piace, interessa, gratifica. Si tratta di “sentieri interrotti” nella selva di tanti desideri che pure ci sono nel cuore dei giovani. Allora soltanto una vita vissuta nella sua trasparente verità può diventare ipotesi concreta di futuro anche per le ultime generazioni. La pastorale vocazionale non può prescindere dai “modelli”; ma li suppone e li aiuta a trasformarsi in progetto. Il modello e il progetto non possono disgiungersi.
Solo così la verità concreta di una vita sacerdotale può risvegliare l’interesse dei giovani, spesso ripiegati su miraggi poveri di futuro, perché vadano “oltre”, sino alla verità di un’esistenza veramente realizzata in Cristo.
I tratti “forti” della vocazione “nel” sacerdozio
C’è una radicale esigenza di coerenza tra identità teologica del presbitero e le sue scelte esistenziali, il suo cammino spirituale e la sua realizzazione personale. La figura del prete come “ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore” (n. 15) ha in sé un appello di totalità psicologica e spirituale, pedagogica e pastorale. In che cosa consiste infatti tutta la formazione seminaristica se non nell’“abituarsi a dare una risposta personale alla questione fondamentale di Cristo: Mi ami tu?” (n. 42). Qui la vocazione viene evocata nel suo risvolto più delicato, ma anche più vero. Diventare preti significa dare una risposta di “amore”. Non ci sono altre motivazioni periferiche. Si va al centro del mistero della persona; là dove l’“amore-risposta” a Cristo è l’unico a garantire nel futuro ministero l’identificazione quotidiana con Lui, attraverso quel “sì” fedele alla chiesa ed ai fratelli nel vissuto fecondo della “carità pastorale”.
Ma fissando lo sguardo sul prete, al centro della sua verità, è rilevante una forte accentuazione, per altro pregnante di conseguenze che impegnano il suo cammino spirituale, la sua formazione permanente e il suo ministero specifico. Si tratta della sua “dimensione relazionale”. La relazionalità fondamentale è quella “cristologica”.
Sta qui la vera esigente identità vocazionale del presbitero; nella sua radicale e totale “relatività” a Cristo, “l’amen” del Padre. Questo è l’aspetto più evidente del mistero di Cristo: la sua vocazione è la missione. Di qui il carattere misterioso della vocazione del prete come “segno”, “ripresentazione sacramentale di Gesù capo e pastore”. Ma tale identificazione sacramentale ha il necessario fondamento nella risposta, mai scontata, di un amore personale per Gesù, nel cui mistero si entra progressivamente guidati dallo Spirito, l’iconografo interiore, l’autore dell’immagine vera del ministero. L’amore personale, lo sguardo accogliente del Signore, è un sì permanente, da rinnovare, da purificare, da potenziare, attraverso un cammino vocazionale mai totalmente compiuto.
L’agape come risposta personale a Cristo diventa agape come carità pastorale: ognuno ha il suo spessore di verità esistenziale; ma ciascuno s’invera nell’altro. Il disgiungerle sarebbe la morte dell’una e dell’altra.
Tale relazionalità fondamentale e fondante della vita e del ministero del prete, che lo mette a sua volta in rapporto con il Padre e con lo Spirito (n. 18), si costituisce attraverso la “relazionalità gerarchica” per la quale il ministro ordinato ha una naturale “forma comunitaria” (n. 17)[1].
La “fraternità presbiterale” diventa pertanto un’altra direttrice dell’itinerario spirituale del presbitero. Il primo dono che il prete deve alla chiesa è la sua visibile e significativa testimonianza di comunione fraterna. Per questo il prete non è un battitore libero, un libero professionista, ma un membro del presbiterio. Tuttavia la fraternità sacerdotale non si identifica con l’amicizia, con le risorse affettive umane, bensì con una profonda auto-coscienza vocazionale: si è preti, in un presbiterio, e pertanto si è fratelli nel ministero, perché generati da un evento di grazia. La fraternità visibile ed espressiva attraverso molte forme e gesti, non è fondata soltanto su una reciproca scelta amicale, ma nella consapevolezza d’essere stati scelti, e dall’essere stati generati nella grazia di un sacramento: l’ordine sacro.
Questa “relazione fraterna” si colloca all’interno di una chiesa particolare come soggetto della missione: di qui la “relazionalità ecclesiale”, “nella” chiesa e “di fronte” alla chiesa. Il prete è “servitore della chiesa mistero, comunione e missione”: nel suo momento generativo e nella sua espressione missionaria, nel suo rapporto profondo con la chiesacomunità e nella sua intrinseca diversità vocazionale e ministeriale; nel suo rapporto di guida e di presidenza e nel discernimento propositivo della rotta della missione.
La “relazionalità ecclesiale” colloca dunque il prete in una chiesa particolare, ma dagli orizzonti aperti al mondo: per questo il respiro del ministero presbiterale, la sua più matura identità spirituale, si apre ad una “relazionalità missionaria”, per questo il prete è “l’uomo della missione e del dialogo”, a cui in particolare è chiesto il discernimento anche nella prospettiva della “nuova evangelizzazione”.
Forse è questa la categoria teologica-spirituale più esigente e più unificante sul piano del progetto formativo del futuro prete e della significatività della sua vocazione-missione nella chiesa.
Di qui le molte urgenze di conversione permanente nella vita del presbitero: conversione da una formazione tendenzialmente individualistica del passato, e dentro una cultura individualistica del presente, per rendere tangibile la testimonianza diversa di una vocazione come essere ed operare “con” e “per” gli altri. Il prete è, per ministero, un esperto “in relazionalità”, costantemente riproposta con la chiarezza illuminante della parola e con la forza convincente dei gesti; conversione da un rapporto forte “prete-parrocchia” (di matrice tridentina) ad un triplice rapporto forte: “prete-presbiterio” (attraverso la molteplice trama di relazioni esigita dal servire “insieme” la chiesa); “prete-chiesa particolare” (là dove tutte le espressioni del ministero sono relative e nel contempo sono tutte nobili ed importanti); “prete-chiesa universale” (verso cui va educata la disponibilità di ogni presbitero e su cui si misura la sua capacità di educare comunità e persone).
Fedeltà dinamica all’identità vocazionale.
– Vocazione “nel sacerdozio” ed autorealizzazione “nella santità”
Il vedersi nella sua verità non è solo. una meta, un obiettivo da raggiungere, ma un programma esigente verso la piena realizzazione di sé. C’è tuttavia una parola secolarizzata per indicare l’auto-realizzazione e c’è una parola evangelica. La prima, con molte variazioni sul tema, è sostanzialmente “estroversa”. Il criterio di realizzazione umana sta fuori dall’uomo, nella arcinota trimurti del fare, dell’avere, del potere. L’imperativo d’obbligo è l’auto-gratificazione. La seconda invece, il termine evangelico di piena realizzazione umana è la “santità”. La quale è un’impresa possibile a tutti; è un’opera di collaborazione con lo Spirito; ma soprattutto è una testimonianza necessaria soprattutto oggi alla storia della chiesa. Il criterio evangelico, coerente con tale meta della santità, è totalmente altro da quello della cultura egemone. Qui gioca un ruolo determinante la forza della ragione, del calcolo, delle mille risorse dell’io. Ed invece la vera realizzazione umana, secondo il Vangelo, è radicata nella fede, la sola capace di giustificare e di rendere possibile una scelta di vita nella prospettiva del dono. Solo la fede può impedire l’invadenza, talora strisciante ed ambigua, dei criteri del mondo anche nella vita e nel ministero del prete. Solo la fede consente di accettare la strada impervia del “dono” e del “servizio” qual’è l’obbedienza. È questo forse l’aspetto più severo del radicalismo evangelico che sta alla base dell’identificazione “prete-Cristo pastore e capo”. Non a caso è l’obbedienza il consiglio evangelico che sta al primo posto e giustifica tutti gli altri (celibato e povertà) a differenza della stessa obbedienza come componente del carisma della vita consacrata. Un presbitero disobbediente prende le distanze dal mistero di cui è per vocazione “segno”. Pertanto la formazione sacerdotale non può mai dare per acquisita questa non facile identificazione con Gesù “il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Solo in una visione, quotidianamente alimentata dalla preghiera, cresce una testimonianza di auto-realizzazione, nella costante passione per il servizio, nel dono gratuito di sé, sulla strada impervia dell’obbedienza.
– La formazione spirituale come “dovere” e come “amore” verso la comunità.
C’è una singolare comunanza di destino, una solidarietà esigente, tra pastore e comunità. C’è una sorta di simbiosi, per cui giustamente si usa dire che se il prete non costruisce la comunità secondo una propria incisiva testimonianza, sempre per altro evocativa di un’altra Presenza, rischia fatalmente l’appiattimento sui ritmi e sullo stile cui facilmente si adegua una comunità. Fatte salve le eccezioni, la comunità è per lo più, ad immagine e somiglianza del suo pastore. O viceversa. Ma proprio perché sta “di fronte” alla comunità a custodia delle sorgenti, nel suo nascere e nel suo crescere, il presbitero non può vanificare questo aspetto del suo ministero, che è il suo mistero, la sua vocazione particolare, la sua collocazione tra Dio e l’uomo. Allora il riscatto quotidiano della sua trasparenza, l’impegno primario della formazione permanente non è qualcosa di aggiuntivo, in balia di un tempo aleatorio, ma un “dovere” ed una “carità” (n. 70) verso una comunità che non attende solo dei “servizi”, ma il servizio della testimonianza, dell’essere; non aspetta soltanto una presenza, ma la qualità di una presenza; non si accontenta soltanto di un prete preparato, ma di un prete esperto di quel Mistero di cui soltanto ogni persona umana avverte il bisogno nel profondo del cuore.
– La formazione spirituale si compie e si verifica nel vivo del ministero
Il presbitero fedele della sua identità vocazionale è soprattutto esperto “in relazionalità”; non tanto per quello stile che la posizione sociale attribuisce ad una persona pubblica, e neppure per quell’attesa diffusa di presenze capaci di dialogo, e di comunicazione in una società che ha avvicinato le persone senza dissipare solitudini. No. La “relazionalità” è una dimensione essenziale del prete, del suo essere, della sua vocazione come “ripresentazione sacramentale di Cristo”. Là dove la relazione con Cristo risorto riveste il carattere della sponsalità, della contemplazione, della preghiera, della ricerca affettuosa della sua volontà; là dove la relazione con le persone, si fa iniziativa dell’amore di Dio, accoglienza cordiale, attesa paziente, ed assume i molti volti dell’inesauribile carità pastorale; là dove la relazione con la gente diventa servizio e mai ricerca di potere, amore per la comunione e mai atteggiamento di parte, attenzione amorevole verso chi c’è, ma non meno verso chi manca abitualmente ai pascoli della vita.
Né va sottovalutato il carattere crocifiggente di questa dimensione vocazionale della vita del prete, il quale è costantemente sollecitato a riattingere alle motivazioni più vere e trovare le strade concrete per uscire dall’ambiguità della solitudine, dal ripiegamento di fronte ai risultati deludenti, dall’esasperazione dei problemi personali, al fine di ritrovare nella serena dedizione la ragione più stabilizzante della propria realizzazione personale e il passo giusto per stare con Gesù, in capo al gregge.
Nel prete deve crescere lo spirito di Mosè, per essere guida di un popolo il cui esodo dipende dalla sua fede, dalla sua intercessione, dal suo sguardo fisso verso la terra promessa; ma anche lo spirito del Battista, che sa indicare, senza narcisismo, Gesù; che sa discernere la sua presenza ed orienta i suoi amici verso di Lui. Perché, in definitiva, è solo Lui il Messia, colui che è atteso nel cuore di ogni uomo.
– Formazione spirituale e significatività vocazionale per i giovani.
Senza dubbio è la comunità il soggetto promozionale di tutte le vocazioni, il luogo pedagogico in cui crescono i germi di nuove chiamate. Ma c’è un’esigenza psicologico – spirituale nel cuore dei giovani, la quale, beninteso, non elude la persuasione che ogni vocazione sia un dono dello Spirito, la cui creatività non è condizionata da nessuna strategia umana.
Ma è altrettanto vero che Dio vuole aver bisogno della “mediazione educativa”. Ed oggi più che mai la risposta vocazionale, per prendere corpo in una precisa scelta di vita, ha bisogno di passare ordinariamente attraverso un processo di identificazione. Non più con uno “status”, come sovente in passato; ma con un “modello” di vita, significativo, vero e vivibile.
Da qui la grande responsabilità di ogni singolo presbitero, di fronte alla sua comunità ed ai giovani in particolare. Ma soprattutto l’impegno, non tanto ad una fedeltà formale, esteriore, stanca e trasandata al proprio ministero, ma ad una fedeltà a quei valori evangelici ed umani di cui oggi soprattutto i giovani sono in palese ricerca. Guardando al prete, le persone e in particolare gli adolescenti, devono essere sollecitati a passare dall’interesse per una vita autenticamente umana al desiderio di coglierne le radici che stanno nel mistero di Dio; devono poter passare dalla stima ad una scelta concreta di imitazione.
Allora la formazione spirituale del presbitero non può non fare i conti con l’effettivo desiderio di fecondità vocazionale, con la qualità della sua pastorale vocazionale: la quale si concretizza nella preghiera incessante e fiduciosa, che affranca da alibi o da stanca rassegnazione ad una stagione di magra finalmente attribuita all’intemperie dei tempi; si concretizza in una testimonianza di vita in cui i valori essenziali dell’evangelo sono il segreto di una personalità ricca di umanità gioiosa, realizzata, contagiosa; si precisa in una pastorale vocazionale fuori dalle sabbie mobili di certo pragmatismo generico, per farsi attenta alla singola persona attraverso un discernimento puntuale, una capacità propositiva che non indulge nell’attivismo illusorio ed infruttuoso.
Insomma, la formazione spirituale ha un obiettivo preciso: dare una risposta generosa e gioiosa “da preti” agli appelli quotidiani dello Spirito, perché nel cuore di chi sta vicino spunti imperioso ed efficace “il desiderio di Eliseo” (2Re 2,10).
Note
[1] Si veda, in proposito, il puntuale intervento del Concilio che afferma: “I presbiteri costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione sono tutti uniti tra loro da intima fraternità sacramentale; in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono assegnati sotto il proprio vescovo” (P.O. 8).