N.04
Luglio/Agosto 1992

La coscienza della propria vocazione fonte, per il presbitero, della responsabilità per tutte le vocazioni nella chiesa

Mi sembra di poter individuare il taglio specifico della riflessione che mi viene richiesta intorno ai due concetti di “coscienza” e di “responsabilità”. Essi sono tra loro collegati da un nesso causale: nel senso che la coscienza vocazionale è indicata come “fonte” della responsabilità educativa e pastorale. Da questi due punti di vista cercherò, dunque, di affrontare il problema che è oggetto delle nostre relazioni.

 

 

La coscienza vocazionale del prete

Una prima componente fondamentale della coscienza vocazionale del prete è rappresentata dal corretto modo di concepire il rapporto tra grazia e libertà cristiana. Questo tema non va considerato troppo generico, né va dato troppo facilmente per scontato ed acquisito dalla coscienza cristiana e sacerdotale. Sappiamo infatti che la storia della teologia e della spiritualità sono state sempre accompagnate da controversie e ricerche in merito. Ma anche e per certi aspetti soprattutto la cultura contemporanea, che pure offre tanti spunti positivi alla riflessione cristiana, è segnata in questo campo da equivoci e deviazioni assai gravi.

Il n. 37 dell’Esortazione pontificia post-sinodale Pastores dabo vobis ce ne offre un elenco sintetico e significativo. Gli errori principali potrebbero essere ricondotti a quattro: una concezione della volontà di Dio come destino immutabile e fatale, di fronte al quale l’uomo non avrebbe altro compito che cercare di decifrarlo per poi adeguarvisi passivamente; una visione della libertà umana come di fatto tendenzialmente determinata e condizionata da fattori interni ed ambientali, oppure viceversa concepita come assoluta autonomia del soggetto, radicalmente svincolato da ogni riferimento o norma, unica e insindacabile fonte delle scelte; e, infine, la tendenza a descrivere il rapporto tra il soggetto umano e il proprio progetto di vita in termini intimistici e individualistici, quasi “romantici” escludendo ogni mediazione comunitaria e, ancor più, istituzionale.

Queste deviazioni si manifestano raramente allo stato puro, dove sarebbero più facilmente riconoscibili e smascherabili. Più spesso esse si insinuano, anche all’interno di coscienze cristiane e sacerdotali, combinandosi variamente l’una con l’altra, e provocano non piccoli guasti nella percezione di sé da parte del prete e, di conseguenza, nella sua dedizione ai compiti educativi e pastorali in genere.

Non è difficile immaginarsi questi guasti in concreto, soprattutto nel delicato ambito della direzione spirituale (attiva e passiva!). Appare quindi altrettanto evidente la necessità di radicare la coscienza vocazionale in una corretta visione del primato della grazia, che proprio come tale interpella e sostiene la libertà dell’uomo redento e la chiama ad esprimersi con autentica creatività, assumendo il rischio delle scelte e riconoscendosi come reale interlocutrice dell’iniziativa divina. Da questo punto di vista, il problema qui accennato, pur riguardando la vita cristiana in genere, si rivela come elemento decisivo per la giusta connessione tra la percezione che il prete ha di sé e della propria vocazione, cioè tra l’esperienza cristiana del proprio cammino vocazionale, e le responsabilità del ministero.

Più in particolare, occorre sottolineare la dimensione ecclesiale della vocazione. Essa è comune ad ogni esistenza cristiana, ma si manifesta con particolare evidenza nella figura di vita spirituale di chi è chiamato a prendersi cura della comunità come tale. Anche a questo proposito ci sovviene una pagina della Pastores dabo vobis: la vocazione deriva anche e necessariamente “dalla” Chiesa, si fa riconoscere e si compie “nella” Chiesa e si configura – nel fondamentale servizio alla gloria di Dio – come servizio “alla” Chiesa (cfr. n. 35).

Di qui una serie di conseguenze per la costruzione e il mantenimento di una retta autocoscienza vocazionale del prete: egli è consapevole di ricevere la propria vocazione come dono da Dio attraverso la Chiesa. Accetterà dunque la necessaria mediazione del Vescovo come parte di questo dono e non come inevitabile corollario burocratico; vivrà nella comunità e a servizio della comunità con un atteggiamento di solidale e attenta partecipazione al suo cammino di fede, facendosi modello del gregge e non facendola da padrone sulle pecore; non imporrà ad alcuno proprie personali condizioni o visioni soggettive, ma si disporrà di buon grado, con intelligenza e creatività, a servire docilmente in un lavoro pastorale convergente nel presbiterio, a favore della crescita dell’intero popolo di Dio in tutte le sue componenti e senza ingiustificate preferenze o discriminazioni. Una visione ampia e serena della vita della Chiesa impedirà al presbitero di privilegiare alcuni valori e di sottovalutarne o trascurarne altri, mettendolo veramente al servizio della ricerca vocazionale di ciascun fedele nel pieno rispetto della grazia dello Spirito e della libertà del credente.

Anche a questo proposito appare evidente la portata di questa dimensione della coscienza presbiterale in ordine ad un corretto svolgimento del ministero e, in particolare, alla feconda dedizione alla pastorale vocazionale.

Consideriamo infine l’aspetto propriamente presbiterale della coscienza vocazionale del prete.

Si tratta qui di garantire la qualità evangelica della percezione che il prete ha della propria identità secondo la volontà di Cristo su di lui e sulla Chiesa.

Ogni parzialità o distorsione in quest’immagine che il prete si fa di sé avrà un’inevitabile ripercussione su tutto il suo ministero e specialmente sull’aiuto che egli è chiamato a dare per l’accompagnamento del cammino vocazionale dei fedeli.

Sarà sufficiente fare qualche esempio: una vocazione presbiterale vissuta come “sintesi universale dei ministeri” finirà per considerare la comunità solo come oggetto passivo delle sue cure. Soltanto la corretta percezione di sé come oggetto di un “ministero della sintesi” renderà il prete attento a suscitare tutti i carismi e a valorizzare tutte le potenzialità vocazionali della comunità. Nello stesso modo, un sacerdozio “universale”, che cioè si esprime solo a livello spirituale/sacrale, oppure solo a livello caritativo/assistenziale, oppure a livello educativo/culturale o solo sociale, trascurerà di volta in volta le restanti modalità in cui lo Spirito anima e chiama la responsabilità vocazionale dei credenti.

In positivo: la vocazione sacerdotale è, nella sua essenza, rivolta all’edificio di una comunità naturale e consapevole dei suoi molteplici compiti di testimonianza: la cura delle vocazioni non appare come un compito secondario che si aggiunge per così dire dall’esterno a una figura di prete già altrimenti definita. Il discorso si svolge in parallelo a quello sulla pastorale: l’attenzione vocazionale non è una parte, per quanto privilegiata, della pastorale che, nel suo insieme, andrebbe definita e orientata in altro modo. La pastorale e la figura del sacerdozio ministeriale sono vocazionalmente connotate oppure non sono semplicemente cristiane.

 

 

La responsabilità per tutte le vocazioni

Da quanto abbiamo accennato fin qui emerge già con sufficiente chiarezza che le responsabilità nei confronti di tutte le vocazioni nella Chiesa grava sul prete, ancorché non in modo esclusivo perché tutta la comunità cristiana è in varia misura investita di questo compito, ma certamente in modo preciso, insostituibile e dotato di particolare autorevolezza ed efficacia.

Abbiamo già detto dell’importanza per il prete di un’autentica libertà da pregiudizi unilaterali. La vita della Chiesa e la sua missione va tenuta presente, soprattutto dai presbiteri, in tutta l’ampiezza e la varietà delle sue espressioni. È principalmente in questo campo che non va “contristato” lo Spirito.

È inevitabile che ogni prete abbia una sua personalità cristiana che registra più facilmente alcune di tali espressioni e ne individua altre con maggiore difficoltà, alcune ne preferisce e sente come più congeniali, altre come più lontane dalla propria sensibilità. Si tratta qui di educare e educarsi ad una vera e propria ascesi del “senso” pastorale, intendendo con quest’ultima espressione la capacità di percepire – ben oltre i gusti e le propensioni personali anche più degne di stima – le mozioni dello Spirito e le linee di edificazione della comunità e di testimonianza evangelica al mondo che la grazia di Dio suscita intorno a noi, spesso in modo imprevedibile e comunque fuori dai nostri schemi preconcetti.

Il prete si riconosce come il geloso custode di questa universalità e oggettività dell’esperienza cristiana, nella quale ogni battezzato ha il diritto di farsi aiutare a trovare la propria vocazione, senza indebite pressioni e senza trovarsi coinvolto in percorsi educativi a senso unico.

Bisogna forse portare un’attenzione nuova e più precisa a questo aspetto, peraltro essenziale, della formazione al sacerdozio ministeriale. Soprattutto in un contesto ecclesiale in cui l’eccessivo soggettivismo dell’adesione di fede non lascia immuni neppure i migliori itinerari educativi della pastorale giovanile e dei seminari.

Un discorso analogo, e per certi versi parallelo al precedente, va fatto soprattutto nel caso del prete diocesano a proposito del problema delle “appartenenze” ecclesiali. Il già citato documento post-sinodale lo affronta in più di un contesto con una finezza e un equilibrio che non sempre è dato ritrovare nei primi affrettati commenti all’Esortazione.

È indubbio che, a certe condizioni, l’appartenenza del prete a gruppi, movimenti, spiritualità particolari può essere un arricchimento per i singoli e per tutto il presbiterio diocesano. Ma, appunto, a certe condizioni. Prima tra le quali è che queste appartenenze siano subordinate a quella fondamentalissima a Gesù e a quelle fondamentali alla sua Chiesa, e in particolare e in concreto alla Chiesa diocesana, al suo Vescovo, al suo popolo (senza privilegi e concorsi per titoli ed esami), e al suo presbiterio. “Le molteplici forme di gruppi, movimenti e associazioni di varia ispirazione evangelica, devono essere sentite e vissute come il dono di un’anima alimentatrice dentro l’istituzione e al suo servizio (PDV n. 68).

Ciò che chiamiamo “istituzione ecclesiale” non è, infatti, come sembra suggerire la parola, un puro e semplice fatto burocratico e organizzativo. Essa è il terreno fecondo della crescita di ogni identità cristiana (in questo senso non esiste istituzione cristiana che non sia “carismatica” e non esiste carisma cristiano che non si traduca in forme “istituzionali”). Solo in questo modo i vari soggetti possono riconoscersi e incontrarsi, stimarsi e valorizzarsi a vicenda, orientarsi efficacemente ad un servizio comune, ed in ultima analisi unitario, al Vangelo. Il prete, in comunione diretta con il ministero episcopale, è incaricato “per essenza” di custodire e promuovere la possibilità di questo incontro e di questo riconoscimento, che sono premessa indispensabile al fiorire delle vocazioni, antiche e nuove, che il Signore continua a donare alla sua Chiesa.

Egli potrà assumersi questa responsabilità solo se terrà sotto controllo tutto ciò che, nella sua soggettiva esperienza di credente, pur essendo di fatto il veicolo privilegiato del suo incontro con Gesù, assume le caratteristiche del rivestimento soggettivo (è, cioè, il “suo modo”) di vivere la sequela del Signore, Egli dovrà impedire, in altri termini, che questa pur lodevole sensibilità soggettiva gli faccia da schermo nell’aiuto che gli viene richiesto per individuare e far crescere le varie vocazioni cristiane presenti nella porzione del popolo di Dio che è affidata alle sue cure.

Un’ultima osservazione: la responsabilità del prete nei confronti di tutte le vocazioni è condizionata, spesso, dal modo in cui si concepisce la formazione alla maturità complessiva della persona. E questo dipende in gran parte da come il prete stesso legge e interpreta il suo stesso cammino di fede e di vita.

Ebbene, sotto questo profilo capita di trovarsi di fronte ad un’interpretazione gravemente condizionata in senso negativo da quella che si potrebbe chiamare una teoria “a strati” dell’esistenza cristiana. Non possiamo farne qui che una presentazione sintetica, forse un po’ caricaturale, ma sostanzialmente corrispondente a quello che si pensa, e che a volte viene teorizzato, da parte di molti, anche preti.

Si tratta di quel modo di procedere nella pastorale e, ancora prima, di rileggere la propria esperienza, come si trattasse di formare anzitutto l’uomo, poi il cristiano in genere, e infine – a coronamento “ulteriore” del già fatto – il prete o il laico, la suora o il monaco, il missionario o il politico cristiano. Questo modo di pensare ha dalla sua un’indubbia chiarezza nella distinzione delle varie componenti di una vita secondo il Vangelo e non si vuol negare che possa tornare di qualche utilità in sede di considerazioni puramente teoriche.

Ma, in concreto, sono evidenti le conseguenze negative che esso provoca nel servizio alla crescita delle vocazioni. Lo sviluppo reale di una chiamata divina segue, infatti, una logica ben diversa. La specifica vocazione che il Signore rivolge ad un soggetto umano è la necessaria percezione della finalità appassionante e “trainante” che porta con sé i motivi e le sfumature concrete della sua crescita umana e genericamente cristiana. Ignorare questa logica significa in primo luogo rinviare (spesso “senza fine”) la scelta vocazionale, sul presupposto che prima bisogna formare l’uomo o la donna maturi, e poi il cristiano maturo. Solo “dopo” sarà possibile aprire il discorso delle diverse vocazioni.

L’esperienza insegna, al contrario, che è proprio nel momento in cui comincia a configurarsi, anche solo come ipotesi, una scelta vocazionale che il soggetto percepisce il senso della propria crescita umana e cristiana (anche di quella eventualmente “precedente”) e trova la forza, l’intelligenza e lo slancio necessari per dedicarvisi con tutte le proprie energie.

Il prete deve essere, lui per primo, consapevole di questa legge dello sviluppo vocazionale. Deve poterla riconoscere nella propria vita e testimoniare ai fratelli. Deve quindi privilegiare nel suo ministero lo sforzo di individuazione delle possibilità vocazionali delle persone che incontra, senza irreali astrazioni e senza inutili rinvii (tanto desiderati, purtroppo, dalle nuove generazioni e in molti casi anche per il motivo suddetto). Non si tratta di anticipare i tempi della maturazione, di illudere soggetti immaturi o di condurre a scelte non sufficientemente verificate. Si tratta invece di individuare la forza trainante di un progetto concreto e completo, che mobilita tutte le energie di una persona, mettendola in grado di fare dei passi che altrimenti restano impossibili per lunghi e perduti periodi di tempo, perché tentati sullo sfondo generico e poco avvincente della costruzione di un’immotivata “maturità umana” (che stenta perfino a trovare i criteri di verifica) e di un’evanescente “maturità cristiana” (che si rivela priva dei suoi contenuti più significativi).

S’intuisce facilmente come da questa considerazione deriva un’attenzione del tutto particolare a certe “vocazioni” precoci nella fanciullezza e nell’adolescenza. Un’attenzione che, lo ripetiamo, non conduce a illudersi o a illudere sulla definitività delle scelte, ma che richiede ben altra cura da quella suggerita in base ad una lettura forse troppo razionalistica del fenomeno umano nell’orizzonte della rivelazione cristiana.

È vero che formazione “umana” e formazione “cristiana” sono logicamente presupposte alla formazione specifica delle singole vocazioni. Ma è altrettanto vero che la priorità logica non corrisponde a quella reale: la maturazione di un’ipotesi vocazionale è elemento decisivo per mettere in moto, nel modo giusto e con le energie necessarie, la crescita del soggetto da ogni punto di vista.

Solo “dentro” un’ipotesi vocazionale chiaramente intravista e tenacemente perseguita, e non prima di essa e a prescindere da essa, sarà possibile sia verificare le reali capacità del soggetto – a livello umano e cristiano – di raggiungere una soddisfacente maturità, peraltro sempre in fieri e sempre bisognosa di incremento, sia verificare la stessa scelta vocazionale ipotizzata. A volte sarà sufficiente stimolare il soggetto a mettersi almeno in attiva ricerca di tale ipotesi, contrastando la sua illusione di poter rinviare il problema “perché, intanto, ci sono lavori più urgenti a livello psicologico, o culturale, o catechistico, o morale…”.

Fintanto che una precisa ipotesi vocazionale rimane un discorso o una proposta, percepita dal soggetto magari come interessante ma ancora estranea al proprio cuore e alle proprie capacità di appassionarsi, mentre in un altro cantiere si tenta di costruire l’uomo e il cristiano, l’eterno rinvio delle decisioni definite e la paralisi di tutti i cantieri saranno sempre una possibilità reale.