Rogate ergo Dominum messis
L’esortazione di Gesù: “Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe” costituisce ormai il riferimento biblico fondamentale per motivare la necessità della preghiera per le vocazioni nella Chiesa. Tale riferimento è senz’altro legittimo, ma non è inutile interrogarsi sul senso che queste parole di Gesù assumono nel contesto del Vangelo. Ciò permette di comprendere ancor meglio il valore di questa preghiera e di precisarne le caratteristiche.
Il contesto e il senso
L’invito alla preghiera appartiene ad una frase più ampia di Gesù ed è preceduto da una considerazione che suona così: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi” (cfr. Mt 9,37; Lc 10,2a). La presa di coscienza di questa situazione, cioè del contrasto marcato tra l’abbondanza della messe da raccogliere e il numero esiguo di operai, sta dunque alla base dell’esortazione di Gesù. Ma cosa significa propriamente che la messe è molta e che gli operai sono pochi? E che cosa allora si intende dire quando si chiede al padrone della messe di mandare operai nella sua messe? È evidente che si tratta di un modo di esprimersi simbolico e che occorre interpretare l’immagine: ma in quale direzione? In breve, come intendere queste parole?
La dichiarazione di Gesù si ritrova identica in due passi evangelici: in Mt 9,38 e in Lc 10,2b. Il contesto dei due testi è simile, anche se non identico: in Luca si tratta della missione dei settantadue discepoli, in Matteo si tratta della missione dei dodici. Le parole di Gesù vengono perciò rivolte ai discepoli stessi nel momento in cui sono da lui inviati. È sorprendente rilevare che coloro che sono esortati a pregare perché il padrone della messe mandi operai nella sua messe sono quegli stessi che vengono inviati da Gesù avanti a sé, che dunque condividono la sua stessa missione. Questo, in effetti, costituisce un primo elemento da sottolineare: la forte connessione tra la preghiera e la missione. Da un lato, la preghiera precede e accompagna la missione, sembra costituirne la condizione previa e determinarne l’ambito vitale; dall’altro, l’accoglienza della missione e l’impegno a realizzarla derivano dalla preghiera e sono insiti in essa. Non si è missionari se non si fa precedere al mandato la preghiera al padrone della messe, non si prega con verità il padrone della messe se non ci si mantiene a disposizione per questo stesso compito.
Il contesto in cui ricorrono nei due vangeli queste parole di Gesù permette anche di capire che gli operai inviati a raccogliere la messe trovano nei discepoli inviati da Gesù la loro più idonea personificazione. La figura dei discepoli e la loro opera conferiscono all’immagine degli operai un contenuto specifico. Sono le istruzioni impartite da Gesù a fornire il ritratto di quegli operai di cui tanto c’è bisogno, che Dio solo può inviare e per avere i quali occorre invocare costantemente la sua benevolenza. In effetti, la preghiera che Gesù invita a rivolgere non sembra tanto essere quella che non manchino mai operai nella messe di Dio, che ne siano sempre in numero adeguato, che dunque Dio chiami continuamente (tutto ciò non pare in discussione, dal momento che riguarda l’azione stessa di Dio): l’accento cade piuttosto sul bisogno di operai che siano veramente tali, adeguati al compito loro affidato, in grado di attuare una missione tanto rilevante quanto impegnativa, quella cioè di essere collaboratori dell’opera stessa di Cristo (ciò infatti chiama in causa la libertà di quanti vengono inviati). Questo è un punto che ci sembra molto importante e che merita di essere approfondito. Lo faremo cercando di analizzare un poco dettagliatamente il passo di Mt 9,37: il contesto matteano si presenta più ricco di quello lucano e permette di raccogliere utili elementi in vista di una migliore comprensione di quella preghiera che Gesù esorta a compiere.
Allora disse ai suoi discepoli…
Il passo di Mt 9,37 fa parte di un sommario (Mt 9,35-38) con il quale si viene ad inaugurare una nuova sezione narrativa all’interno del Vangelo di Matteo. Basta leggere Mt 9,35 e confrontarlo con quanto immediatamente precede per rendersene conto. Questo sommario introduce il cosiddetto “discorso missionario”, nel quale sono riunite con ordine le istruzioni che Gesù impartisce ai Dodici prima di inviarli. Sappiamo che il primo evangelista è particolarmente sensibile all’insegnamento di Gesù, ama presentarlo come il Maestro per eccellenza, come il Figlio di Dio che incarna la vera sapienza, come colui che conosce in modo perfetto la volontà di Dio e la rivela in tutta la sua ampiezza. L’insegnamento di Gesù, inoltre, è da Matteo tendenzialmente sintetizzato e strutturato in unità ben costruite a cui diamo il nome di “discorsi” e che sembrano assumere la forma di vere e proprie catechesi tematiche. Nel nostro caso (Mt 10,1-42), ci troviamo di fronte ad una catechesi sulla missione apostolica; in precedenza (cfr. Mt 5-7) l’evangelista ci aveva presentato il “discorso della montagna”, una catechesi sull’essenza del cristianesimo, un manifesto dell’esistenza dei discepoli di Cristo; più avanti il lettore incontrerà altri discorsi di Gesù, tutti con una propria specifica identità: il discorso parabolico (Mt 13,1-52), il discorso ecclesiale (Mt 18) e il discorso escatologico (Mt 24-25).
Il sommario di Mt 9,35-38 è composto di tre parti: dapprima una breve descrizione dell’attività di Gesù (9,35), poi l’accenno alla sua compassione nei confronti delle folle (9,36), infine le parole rivolte ai discepoli (9,37-38); queste ultime contengono prima la considerazione circa la messe e gli operai e poi l’invito alla preghiera. È evidente che non potremo spiegare il senso di queste parole e in particolare l’esortazione alla preghiera senza tener conto del legame che esse hanno con quel che precede e con quel che segue. Del discorso missionario, che appunto segue, si è già detto. È opportuno ora concentrare l’attenzione su quanto precede, cioè sulle prime due parti del sommario.
Non è un caso che la nuova sezione narrativa incominci con il richiamo dell’attività di Gesù. Era già successo in Mt 4,23, quando l’evangelista si stava preparando a introdurre il “discorso della montagna”. Il ministero di Gesù viene riassunto mediante tre espressioni tanto rilevanti per Matteo da risultare ormai stereotipate: l’insegnamento nelle sinagoghe, l’annuncio dell’evangelo del Regno e la cura delle malattie (cfr. ancora Mt 4,23). Si noterà anche l’insistenza sul carattere itinerante del ministero di Gesù: egli “andava attorno per tutte le città e i villaggi” (Mt 9,35). Tutto ciò è rilevante ai fini di comprendere il senso della missione affidata ai Dodici (Mt 10,1ss). Essi vengono infatti chiamati a collaborare alla missione stessa di Gesù come dimostra il fatto che ricevono da lui il potere di guarire le malattie (10,1.8), sono inviati ad annunciare che il regno dei cieli si è fatto vicino (10,7; cfr. 4,17) e ad annunciarlo “strada facendo” (10,7), “entrando in città e villaggi” (10,11). La missione dei Dodici dunque non è a proprio nome e neppure è fondata su mezzi propri: i discepoli sono totalmente relativi a Gesù, sono servitori e ambasciatori.
La compassione di Gesù
Dopo la descrizione dell’attività di Gesù, l’evangelista si sofferma a richiamare la compassione che la vista delle folle provoca su di lui. Gesù appare sempre molto attento alle folle e si prende a cuore la loro condizione. Già in 5,1 Matteo aveva ricordato che Gesù “vedendo le folle” era salito sul monte e, circondato dai suoi discepoli, si era messo ad insegnare, pronunciando il discorso detto appunto della montagna. In quell’occasione la vista delle folle aveva indotto Gesù a prendere l’iniziativa e a insegnare; qui, la vista delle folle commuove Gesù, lo induce dapprima a pronunciare ai discepoli le parole che stiamo analizzando e poi a inviare i Dodici. Le folle dunque sono da considerare come i destinatari dell’attività di Gesù e della missione dei Dodici. Queste folle non possono che essere il campo della messe di cui Gesù parla ai discepoli.
Perché Gesù ha compassione di loro? Il passo di 9,6 lo spiega bene: “erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore”. Si allude qui, con due verbi e un’immagine alla situazione delle folle. È bene approfondire il senso delle espressioni. Il primo verbo (skyllein) significa propriamente: dilanio, scortico, lacero, do pena, molesto. La forma verbale è quella del perfetto passivo: l’azione è dunque subita dal soggetto, ma soprattutto (questo è il senso del tempo perfetto nel greco: continuità tra azione passata e situazione presente) vi è qui l’idea che questa azione ha determinato la situazione ora riscontrabile. Il secondo verbo (riptein) ha qui il significato di gettare a terra; ricorre nella stessa forma del precedente e va quindi inteso nella medesima ottica. Le folle dunque hanno subito gli effetti di un’azione devastante e sono state ridotte ad una situazione miserevole.
Non è tuttavia chiaro come questo abbia potuto accadere e chi sia il responsabile di una simile situazione. L’immagine del gregge senza pastore consente di capire meglio. Più volte nell’Antico Testamento i profeti polemizzano contro i pastori inautentici e rimproverano coloro che hanno ricevuto dal Dio dell’alleanza il compito di guidare il gregge. Essi “pascono se stessi”(Ez 34,2), “non si prendono cura del gregge” (34,4); “per colpa del pastore le pecore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate” (34,5.8). Queste espressioni del profeta Ezechiele sono molto dure e fanno ben comprendere il punto essenziale: il popolo di Dio è divenuto una preda perché i pastori sono venuti meno alla loro missione, non sono stati vere guide, come da loro ci si attendeva.
È in questa luce che devono essere interpretate anche le parole di Gesù in Mt 9,36: la situazione delle folle è drammatica perché non esistono vere guide. Il gregge non trova pascolo e patisce la fame, viene attaccato dalle bestie feroci, si smarrisce ed è terrorizzato. La polemica contro gli scribi e i farisei nel Vangelo di Matteo non tocca forse questo aspetto? Essa prende le mosse dalla consapevolezza che costoro hanno ricevuto una particolare “vocazione” da Dio, che a loro fu affidata una precisa missione, quella appunto di porsi a capo del popolo per guidarlo e garantirne la vita. Che ne è stato di tutto questo? L’intero capitolo ventitreesimo di Matteo merita di essere letto per trovare l’amara risposta a questa domanda. L’Israele di Dio è stato abbandonato a se stesso: nel momento in cui Gesù si fa incontro al suo popolo, le folle non hanno veri pastori ma “guide cieche” (Mt 23,18).
La messe e gli operai
Veniamo così alle parole sulla messe e gli operai. L’immagine cambia, ma il senso è il medesimo. La messe è Israele, anzitutto, campo pronto per la mietitura. È infatti giunto il momento atteso, il Regno dei cieli si è avvicinato nella persona del Messia di Dio (Mt 4,17). Israele è chiamato a fargli corona, ad ascoltarlo, a seguirlo. Ma il popolo è prostrato a terra, è disorientato e smarrito, affamato dell’evangelo ma non preparato ad accoglierlo; coloro che avrebbero dovuto guidarlo non hanno assolto il loro compito e anche ora sono assenti; non collaborano in nessun modo con il Messia di Dio, anzi, in molti gli si oppongono.
Davvero mancano operai per raccogliere la messe di Dio in questo momento di grazia; i più non si dimostrano all’altezza del compito connesso con la loro posizione. Non sono stati essi chiamati? Non è forse una vocazione l’essere scriba o l’essere sacerdote? Certo, Dio non lascia il suo popolo senza maestri e sacerdoti e non smette di chiamare. Ma consideriamo la risposta a questa chiamata di Dio. Come si presentava nel momento in cui Gesù compiva il suo ministero nel territorio della Galilea e della Giudea il gruppo di coloro che avevano autorità tra il popolo? Molti avevano vestito l’abito del dottore della legge e del sacerdote del tempio, ma che ne era del vero spirito di questa vita, del compito connesso con questa autorità, della responsabilità nei confronti della gente comune, soprattutto nel momento in cui si stava compiendo l’evento decisivo? Non si doveva con tristezza riconoscere che non poche di queste persone chiamate guardavano a se stesse in modo errato, che di fatto erano ben lungi dal realizzare la missione loro affidata? Non erano veri operai nel campo di Dio pronto per la mietitura! Non agivano come servitori di Dio! Inviati per guidare il popolo all’incontro con il Messia e con il Regno, non avevano corrisposto al compito ricevuto. Gesù non aveva potuto contare su di loro nella sua opera di convocazione di Israele: per questo egli aveva inviato i suoi discepoli (Mt 10,5-6) ed aveva esortato le folle e venire da lui, pastore vero, mite e umile di cuore (Mt 11,28-30).
La dichiarazione che pochi sono gli operai per la messe preparata da Dio si riferisce appunto a questa mancata corrispondenza e in questo modo deve essere intesa. Il rammarico di Gesù deriva dalla costatazione che esiguo è il numero degli operai autentici, di quanti hanno accolto e attuata la vocazione ad essere vere guide per il popolo. Pochi sono i pastori secondo il cuore di Dio, le guide lungimiranti e sensibili all’avvento del Regno, in grado di preparare all’incontro con il Messia di Dio. Nel momento in cui il regno si avvicina, le folle sono totalmente abbandonate a se stesse.
Al contesto storico dell’Israele del tempo di Gesù possiamo però sostituire quello della Chiesa primitiva e poi della Chiesa attuale, giungendo così ad un’attualizzazione del messaggio. Il senso delle parole di Gesù può senza difficoltà estendersi ad abbracciarli entrambi. Ciò che importa è cogliere l’intento principale di queste parole. Possiamo dunque riassumerlo così: la considerazione che la messe è molta e gli operai sono pochi, come pure l’esortazione a pregare perché il padrone della messe mandi operai nella sua messe, non può significare che Dio dovrebbe chiamare un numero maggiore di persone. Anzitutto, sarebbe un grave torto fatto alla sua provvidenza amorevole pensare che egli non chiami in modo sufficiente. In secondo luogo, il testo stesso non avvallerebbe una simile interpretazione. Non si dice infatti: “Pregate il padrone della messe perché mandi più operai nella sua messe”! La preghiera che Gesù ci invita a fare, in altri termini, non tende ad auspicare semplicemente un incremento del numero delle vocazioni, come se il Signore potesse essere più generoso nel destinare al ministero e alla vita religiosa. Che Dio chiami continuamente per il bene di ciascuno della sua Chiesa non è infatti in discussione. Il come chiami e il quanto non sta a noi determinarlo: lui solo conosce le vere necessità della Chiesa, nelle sue varie fasi storiche, come pure lui solo conosce i cuori di tutti gli uomini.
Quale preghiera, allora?
La nostra preghiera si eleva perché per sua grazia vi sia piena adesione a lui sul versante dei chiamati, perché quanti sono eletti realizzino in pienezza quella vocazione, dimostrandosi, non senza il suo aiuto, veri operai per la messe di Dio. L’accento dunque non cade tanto sul numero delle vocazioni, ma, potremmo dire, sulla loro vera realizzazione. La preghiera mira a domandare che tutti coloro che Dio chiama (il loro numero è da lui solo determinato in funzione del bene ultimo della sua Chiesa nell’oggi) rispondano adeguatamente, divengano, secondo la sua stessa volontà, veri pastori, apostoli dell’evangelo, servitori e ambasciatori di Cristo. La preghiera per le vocazioni dovrà perciò essenzialmente domandare a Dio che ciascun chiamato corrisponda all’iniziativa di Dio in modo tale da trasformarsi, grazie alla potenza dello spirito divino, in un vero operaio per la messe di Dio. Una simile preghiera abbraccia tutto l’arco della vita del consacrato, poiché la corrispondenza alla vocazione riguarda certo il momento iniziale di accoglienza e di verifica della vocazione, ma anche quello, della sua attuazione fedele, dopo la decisione definitiva di farsi pastori del gregge.
In conclusione, la preghiera per le vocazioni, quale è prospettata dal passo di Mt 9,38, non può essere intesa come semplice richiesta di un numero maggiore di chiamati. Non siamo invitati a pregare affinché vi siano molti o più operai nella messe del Signore; dobbiamo piuttosto pregare affinché tutti quelli che il Signore chiama, quanti egli vuole e come egli sa, siano, con il suo aiuto, veri operai nella sua messe. Dobbiamo pregare affinché tali divengano e tali rimangano. Una simile preghiera mira ad ottenere da Padre che sta nei cieli il dono preziosissimo di veri pastori, autentici collaboratori di Cristo per la salvezza del mondo, persone capaci di porre in atto quelle indicazioni che Gesù stesso diede ai Dodici e ai settantadue quando li inviò avanti a sé per le strade della Galilea e della Giudea.