N.06
Novembre/Dicembre 1992

Un’autentica preghiera per le vocazioni nella comunità cristiana

Pregare per le vocazioni è diventata ormai una parola d’ordine, un pressante invito che risuona in tutti gli ambienti ecclesiastici e religiosi. Si tratta, infatti, di un bisogno primordiale.

 

 

Il “punto debole”

Le iniziative al riguardo sono molte e si cerca di impegnarvi le migliori forze; eppure sembra che da molti anni ormai si continui a seminare senza avere la gioia di raccogliere almeno il sufficiente per sopravvivere. È arido il terreno? Passano gli uccelli a rubare il seme? Rovi e sterpi soffocano i germogli? Cause tutte probabili, ma forse a compromettere il buon risultato della fatica apostolica non sono tanto le cause esterne quanto una condizione interna, un “punto debole” che sta alla radice stessa della vita delle comunità cristiane e dell’impegno per l’animazione vocazionale. Si tratta di una fede troppo esigua, cui consegue una non autentica e radicale attuazione del Vangelo. La legge della fecondità spirituale comporta che il seminatore getti nel solco la stessa propria vita, così come fece Gesù, perché abbia a fruttificare morendo.

 

 

I “punti forti”: fede e santità di vita

L’urgente bisogno di vocazioni sentito dai seminari e dagli istituti religiosi spinge a tentare sempre nuovi metodi di pastorale vocazionale e a presentare proposte che siano veramente attraenti. Ciò che può essere determinante per la risposta dei giovani alla chiamata divina è però anzitutto la testimonianza, è la convincente presenza di modelli di vita sacerdotale e religiosa. Non si può dire che non ve ne siano, ma è certo che ne occorrono di più.

Come non si può generare la vita fisica dell’uomo al modo di una produzione commerciale, con metodi tecnici, senza coinvolgervi se stessi, così non si può generare l’uomo alla vita spirituale senza offrire totalmente se stessi all’azione della grazia. Deve sempre rinnovarsi l’adsum – l’eccomi! – del Verbo divino che entra nel mondo quando, acconsentendo con il suo “fiat, la Vergine Maria diventa il suo primo punto di appoggio per l’inizio dell’opera della redenzione. Per mezzo di Gesù Cristo ogni uomo è richiamato alla vita. Ogni chiamato è una nuova creatura che deve crescere e moltiplicarsi. Entrare in questo mistero di vita soprannaturale accogliendo la fede e donandosi all’Amore significa perciò diventare strumenti idonei a condurre altri ad aprirsi al dono della grazia, al dono della vita in Cristo.

Oggi però si costata in molta gente – che pur continua ad essere praticante – proprio un indebolimento della fede con la conseguente minore radicalità nel vivere i valori essenziali del cristianesimo e tanta esitazione o persino paura a impegnare totalmente e definitivamente per Dio la propria esistenza. La cultura dell’egoismo e dell’egocentrismo, che caratterizza la società scristianizzata e idolatrica, si infiltra inesorabilmente anche nelle persone e negli ambienti che si professano ancora fedeli a Cristo. Questa mentalità appare nelle scelte quotidiane che scendono al compromesso e operano una sottile ma continua frode su ciò che è dovuto a Dio.

Abbiamo bisogno di comprendere che il pregare per le vocazioni non può ridursi al presentare a Dio le proprie richieste e aspettare, magari con animo dubbioso e impaziente, che egli le esaudisca, ma deve essere piuttosto un personale e comunitario coinvolgimento per rendere attuabile il disegno di Dio nella quotidianità della nostra vita. L’efficacia della preghiera dipende infatti dal vigore della fede e dall’ardore della carità di chi prega, vale a dire dalla santità (non è parola troppo spinta!) di chi si trova già impegnato in una specifica vocazione sacerdotale, religiosa o laicale.

In concreto, occorre che vi siano preti santi, religiosi e religiose contenti di vivere radicalmente il Vangelo, genitori, catechisti, animatori profondamente credenti e coerenti. Tutti in fervida collaborazione per creare e offrire ai ragazzi e ai giovani un ambiente in cui la fede e la pietà si respirano come l’aria, si mangiano come il pane.

 

 

Comunità in ascolto e in preghiera

Il luogo privilegiato per l’incontro determinante con il Signore Gesù è proprio la comunità in preghiera; la comunità che celebra l’Eucaristia, la Liturgia delle Ore, i Sacramenti; la comunità che ascolta la Parola, che medita, che adora, che pratica le beatitudini e il comandamento della carità. Tale incontro passa attraverso i segni sacramentali e le persone: perciò è molto importante avere la massima cura del servizio liturgico e far sì che tutte le persone addette al culto si distinguano per integrità, umiltà e spirito di fede e di pietà.

Ad un giovane che stava per entrare in seminario un giorno chiesi: “Che cosa ti spinge a fare questo passo?”. Dopo un attimo di esitazione rispose: “Gesù Cristo!. Come l’hai incontrato? Vedendo il ‘mio prete’, come è vissuto e come è morto…

L’amore di Cristo e al Cristo – motivazione fondamentale di ogni speciale vocazione – si accende e cresce in noi, si può dire, quasi per contagio. E poiché proprio soltanto l’amore può bastare a giustificare la scelta della vita consacrata e a sostenerla lungo tutto il cammino e a difenderla dalle molteplici insidie e imboscate che dovrà incontrare, è necessario trasmettere ai giovani quell’autentico “sensus fidei e sensus Ecclesiae che si traduce in un amore veramente maturo, oblativo. Senza maturità di fede e di amore non è assolutamente possibile vivere con autenticità e fedeltà i consigli evangelici – in particolare i voti di castità, povertà e obbedienza – né si può compiere un ministero sacerdotale che davvero consista nel fare di se stessi, con Gesù, l’offerta a Dio, gradita per tutto il popolo (cfr. Eb 7, 26-27).

Perciò educare alla fede e alla carità significa educare allo spirito di abnegazione e di sacrificio. Chiunque si senta chiamato a seguire più da vicino Gesù deve sentire direttamente rivolto a sé l’invito a portare la croce, e intuire proprio da questo la grandezza del dono che riceve, “perché – dice l’Apostolo – a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui (Fil 1,29). Se mancasse questo slancio di “amore più grande” che spinge anche ad abbracciare la croce, come sarebbe possibile “portare sempre e dovunque nel proprio corpo la morte di Gesù per manifestare in noi anche lo splendore della sua vita risorta? (cfr. 2 Cor 4,10).

Spesso i giovani hanno facili entusiasmi e sanno fare anche gesti generosi, ma non hanno la forza della costanza perché non sono stati allenati alla fatica e al sacrificio. Nella nostra società consumistica va sempre più scomparendo l’aspetto ascetico della vita. Ciò che la famiglia, la scuola, la società spesso non sanno più dare, i ragazzi e i giovani dovrebbero poterlo ricevere – nel modo più autentico e positivo, non moralistico – almeno nella Chiesa. L’ascesi quale espressione di generosità nel corrispondere all’amore gratuito di Dio è infatti il supporto indispensabile di ogni itinerario vocazionale, anche per i laici. L’educazione alla fede e alla pietà comporta necessariamente l’ascesi per condurre alla contemplazione.

 

 

Finezza di spirito e dignitoso contegno

Il primo frutto di tale formazione dovrebbe evidenziarsi in una particolare finezza di spirito, delicatezza di sentimenti, compostezza di comportamento. Come potrebbero essere compatibili con una vita “santa” certe volgarità e leggerezze? Senza cedere al formalismo, non bisognerebbe forse sentire l’urgenza di ricuperare almeno l’essenziale di quella riservatezza e serietà di contegno che si addice a persone la cui dignità si definisce con il nome di Cristo?

Nell’accompagnamento spirituale dei giovani – ministero indispensabile! – non sarebbe opportuno prevedere anche questa formazione di base umana e cristiana? Soprattutto in occasione di Ritiri – che dovrebbero forse essere più frequenti degli altri tipi di incontri – sarebbe ottima cosa dare più rilievo al silenzio quale disposizione all’ascolto profondo della Parola. Inoltre non dovrebbe sembrare trascurabile l’educazione al rispetto e alla riverenza verso il luogo del culto, le persone e le cose sacre, in particolare verso l’altare e il tabernacolo (quasi più nessuno vi bada!), verso il libro della S. Scrittura e tutti i libri liturgici, che spesso si vedono malmenati come rotocalchi…

La preghiera presuppone tutto questo; presuppone che l’orante sia davvero “tempio santo del Signore” (cfr. 1 Cor 6,19) e sappia lasciarsi guidare dallo Spirito, in quella vera libertà interiore che renda possibile la preghiera sempre, al di là dei mutevoli stati d’animo e delle circostanze esterne, perché allora davvero il pregare coincide semplicemente con il vivere.

 

 

Seminare con Cristo e attendere nella speranza

Non sarebbero questi, in definitiva, i punti fermi di una preghiera che possa essere veramente efficace e dare frutti di nuove vocazioni nella Chiesa, secondo i carismi che lo Spirito sempre le elargisce?

La Scrittura esorta con autorità: “Figlio, sin dalla giovinezza medita la disciplina, conseguirai la sapienza fino alla canizie. Accostati ad essa come chi ara e chi semina e attendi i suoi ottimi frutti…” (Sir 6,18-19). Arare e seminare è una dura fatica, ma non sarà mai vana se compiuta insieme con il Signore. La messe, poi, è del Signore: Lui stesso si prende cura di mandare i mietitori alla giusta stagione: “Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e ne raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro” (Gv 4,35-38).

Chi può conoscere pienamente questo mistero di grazia? Chiunque vi si trovi immerso e ne prenda coscienza non può fare altro che acconsentire, con tutto il proprio essere, e così attendere sperando contro ogni speranza, come Abramo, che la promessa si compia (cfr. Rm 4,18-21). Attendere esultando nello Spirito perché in Gesù – seme gettato nella terra dell’umanità – la promessa si è già compiuta.