Pregare per le vocazioni? L’esperienza di un santo
Da sempre sulla preghiera di petizione ci si pone la domanda: se Dio conosce ciò di cui abbiamo bisogno, è lecito domandare qualcosa? Non è andare contro l’abbandono alla Provvidenza mettersi a domandare l’esaudimento delle nostre richieste? Gesù dice: “Il Padre vostro celeste sa che cosa avete bisogno. Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,25-33). D’altra parte c’è nel Vangelo un incoraggiamento esplicito e straordinariamente favorevole a noi: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7, 7), soprattutto quando è chiesto nel suo nome (Gv 14,14).
I due punti di vista non sono in contraddizione. Pregare vuol dire domandare non le cose che ci servono, ma quelle che Dio sa che ci servono. Domandare è lecito, a patto che ci si sottometta alla Sua volontà e si abbia come orizzonte il Regno. Infondo l’attore vero della preghiera non è lo Spirito, che è in completa sintonia con il Padre? Fatti figli nel Figlio, chiediamo secondo Dio. Ma chiediamo.
Un’applicazione particolare del problema riguarda la preghiera per le vocazioni.
Se ci si mette nei panni di un fondatore, si capisce il suo imbarazzo. Se chiede vocazioni non può significare chiedere di essere glorificato, tradendo dunque la sequela del Cristo, che ha scelto la croce come testimonianza di un fallimento?
Per sciogliere il nodo è forse utile interrogare l’esperienza di un santo.
Vincenzo de’ Paoli (Depaul o de Paul, 1581-1660) non è solo un santo della carità, ma anche un uomo conquistato dall’umiltà. È questa virtù che spiega il suo essere catturato dai poveri che sono diventati suoi “signori e padroni”.
Il santo in questione ha fondato due comunità, una maschile, la Congregazione della Missione (dal 1625), e una femminile, la compagnia delle Figlie della Carità (dal 1633). Riflettendo davanti ai suoi discepoli ha più volte ripetuto di non essere lui il fondatore, di non averci infatti mai pensato, ma che tutto è opera del Signore.
Nei primi anni aveva una tale coscienza dell’opera di Dio da temere addirittura che il suo gruppo si ingrandisse troppo. Voleva in tal modo imitare (ma usava una parola seicentesca, cioè “onorare”) il “piccolo numero dei discepoli del suo figlio” (lettera del 16 ottobre 1635). Nove anni dopo ribadì lo stesso concetto: Non affanniamoci né per l’accrescimento della comunità, né per le apparenze esteriori” (lettera del 12 aprile 1644).
Il tempo passava. Le opere si ingrandivano. Giungevano lodi per l’operato dei suoi figli ma anche implorazioni d’aiuto. Il santo s’accorgeva che occorrevano persone. Per una ventina d’anni – lo confessò lui stesso in una lettera – non aveva osato chiedere nessun ingrandimento della sua comunità. Ma poi le parole del Vangelo sul dovere di chiedere operai per la messe lo avevano indotto a cambiare stile. Tuttavia senza mettersi a reclutare. Doveva essere opera sua chiedere nella preghiera delle vocazioni. Doveva essere opera di Dio mandargliele. Pertanto quando qualcuno veniva a fare un ritiro in una delle sue comunità per orientarsi nella scelta di vita, proibiva che si facesse propaganda. Per il santo una persona che si rivolgeva a lui esitante nella scelta della propria strada era segno che insieme dovevano cercare la volontà di Dio, e non che di per sé questa persona gli veniva affidata. Voleva che si giudicasse secondo i principi infallibili di Nostro Signore e non secondo quelli della prudenza umana. Ai suoi figli raccomandava di cooperare con la Provvidenza e non di scavalcarla. “Accontentiamoci delle vocazioni che il Signore ci manda. Se vediamo che qualcuno ha il pensiero di entrare in un’altra comunità, non impediamolo. Se agissimo altrimenti avremmo un serio motivo per temere che Dio non possa punire la nostra compagnia per aver voluto ciò che lui non vuole”.
Non solo voleva un completo disinteresse morale, ma proibiva che in qualche modo si parlasse della compagnia e dei suoi ministeri. Quando nel 1657 apparve un opuscolo che illustrava la sua opera, rimase dolorosamente colpito. Non perché la cosa era nata senza la sua approvazione, ma perché si mancava all’umiltà: “Se c’è del bene in noi o nel nostro modo di vivere, spetta a Dio e non a noi manifestarlo”.
Per questo non voleva che le splendide relazioni scritte dai missionari in terre lontane fossero di pubblico dominio. Acconsentì solo alla pubblicazione delle relazioni dei suoi figli nelle province devastate dalla guerra in Lorena, Piccardia, Champagne, alfine di poter infervorare il pubblico di Parigi a una più generosa raccolta di denaro per i poveri. Ma, come si vede, il centro non era più la sua comunità, ma i poveri, gli altri.
Si può dire che esempio dei santi, esempio impossibile? Che competere con i santi è competere col vento?
Non credo che quanto ha detto il santo sia esagerato. Non è il suo uno scrivere sulle righe. In fondo ci ricorda la centralità della vocazione, come sequela di Cristo, non come sequela del fondatore. Chi entra in una comunità o in un istituto di perfezione, è e deve essere uno che sceglie Cristo. L’informazione vocazionale può essere un utile richiamo a risvegliare le coscienze, un appello realistico rivolto a una persona, perché anche lui può seguire e servire. Ma il reclutamento è un confondere il fine con i mezzi, la meta suprema con le realizzazioni storiche; un pegno insomma pagato alla prudenza umana che nelle statistiche ha la verifica del successo. Ma la santità sfugge ai numeri.
Ben diversa è la preghiera per le vocazioni. Quando si prega in fondo, si prega nello Spirito, e lo Spirito ci apre sempre alla perenne Pentecoste di una Chiesa che non ha mai finito di nascere.