N.05
Settembre/Ottobre 2025

In attesa che si compia la beata speranza

Un passo sulla meta

I riti sanno che dovranno sparire, per questo sono necessari: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo Signore nostro» (Prefazio Comune IV).

L’escatologia non descrive la meta, che non è mai pienamente posseduta così come Dio non è «spiegabile» o posseduto. Ciò che sarà definitivo è intuito con uno sguardo d’insieme (con-appreso) e non spiegato (ex-plicato / spacchettato / analizzato), per questo esorta alla speranza, spinge a camminare, sperando nel compimento, per ora promesso. È anche vero, però, che ogni meta, che orienta i passi, ha necessariamente una partenza, un già avvenuto: l’evento definitivo ed escatologico della Pasqua di Cristo.

La liturgia non è didascalia, lezione concettuosa sul mistero pasquale, ma dice, attraverso la pluralità dei suoi linguaggi, che c’è già un definitivo disvelarsi di Dio, proprio dentro la nostra nemica: la morte. La croce del Figlio inizia il progressivo disvelarsi della verità tutta intera, verità non di concetti, ma di azioni, desideri, speranze che di gloria in gloria deificano l’uomo e riscattano, «rigenerano» il cosmo (cf. Mt 19, 28; Rm 8,19-20).

Si potrebbe affermare che il sistema del linguaggio della liturgia è un sistema escatologico. Infatti, i riti, i gesti, i simboli nelle loro diverse specificazioni di eventi, arredi, canti, musica, immagini, ecc., pur obbedendo a leggi che sono codificate per comunicare un messaggio specifico, sono tuttavia in grado di trascendere se stesse in funzione di un valore ultimo insito in esse. Ciascuno dei sistemi specifici della liturgia, dovrebbe essere analizzato per evidenziare le valenze escatologiche (valori e potenzialità).

Qui voglio soltanto invitare a riflettere su alcune dimensioni della ritualità che sono saldamente immanenti, storicizzate nel finito, «toccabili», ma che allo stesso tempo contengono, «sprigionano» il desiderio dell’infinito, non un infinito generico, ma il desiderio che il Regno venga e si compia. Inviterò a meditare su alcune dimensioni della ritualità che hanno «i piedi per terra», ma lo sguardo in alto, verso l’oltre: a) i riti, legati alla «carne» e al cosmo; b) l’assemblea celebrante, socialmente destrutturante le consuete istituzioni; c) l’aula ecclesiale, definita dal radunarsi di persone in carne e ossa che generano uno spazio «santo», ma falsamente definitivo; d) giorni e tempi liturgici, che necessariamente convocano l’assemblea in ritmi stabili e quasi ciclici che ritmano il tempo, ma con la pretesa di aprirsi all’oltre, al «compimento».

 

I linguaggi dei gesti del corpo e con le cose

I simboli e i segni rituali hanno la pesantezza della carne e invocano l’oltre, ma non senza la carne. Persino il neoplatonico Agostino è costretto a fare eccezioni al suo modello interpretativo del mondo e dell’uomo: il dualismo materia e spirito, anima e corpo. La dottrina biblica della creazione nobilita il cosmo che, sebbene caduco e ingannevole, è opera buona di Dio e, ugualmente, i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia – attraverso l’azione liturgica – prendono «elementi» della creazione e si trasformano in azioni di salvezza che hanno Dio e la sua Chiesa come coprotagonisti: «Accedit verbum ad elementum et fit sacramentum / la parola si accosta all’elemento e diventa sacramento». L’evento salvifico narrato dalla Parola riveste l’elemento naturale (acqua, pane, vino) e lo trasforma in azione di nuovo salvifica, dinamica.

Le azioni compiute da Dio nel passato, hanno pienezza in Cristo e la liturgia è la modalità attuale con la quale Dio agisce per la salvezza dell’uomo, per modellarlo come uomo nuovo. La liturgia ha lo spessore storico dell’azione, non come stasi, come orientamento, non come appagamento. Qualcosa avviene, Qualcuno interviene – come ha già fatto in passato –, modella il presente e prepara (invocandolo) il futuro:

 

«Dio, (…) quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto dallo Spirito Santo, ad annunziare la buona novella ai poveri (…). Infatti la sua umanità, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza (…). Quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell’Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore principalmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione (…).

Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo. Essi, predicando il Vangelo a tutti gli uomini, non dovevano limitarsi ad annunciare che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, bensì dovevano anche attuare l’opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica (…). 

Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria; ricordando con venerazione i santi, speriamo di aver parte con essi; aspettiamo come Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, egli che è la nostra vita, e noi saremo manifestati con lui nella gloria»

(Sacrosanctum Concilium, nn. 5-6.8 passim).

 

Ma i riti non si occupano di salvare l’anima nonostante il corpo? L’escatologia cristiana è sempre orientata da (o costretta tra?) due argini: l’immortalità dell’anima e la risurrezione finale. L’immortalità dell’anima porta con sé l’attenzione al proprio presente, perché il giudizio particolare è quasi decisivo come l’universale. La risurrezione della carne ci sposta invece a guardare il fine del cosmo e a «giudicare» il presente della storia e il suo dinamismo nell’ottica paolina: «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,22-23).

Alla teologia lasciamo il compito di tradurre attesa e speranza cristiana nella nostra cultura, di osare la speranza, di dare parole nuove e vere a omileti e catechisti. Ai poeti, invece, e ai linguaggi del rito consegniamo il compito di farci cantare il desiderio di un mondo nuovo, rigenerato dalla Pasqua, mentre celebriamo le nostre eucaristie e intoniamo, incessantemente e caparbiamente, nello scorrere delle ore del giorno, i salmi del pellegrino.

 

Rigenerare qui e ora l’umanità… nella speranza di una nuova città

I linguaggi dei riti, i sacramenti sono possibili, se sono linguaggi condivisi da un’assemblea che li mette in atto. Ogni volta che ci raduniamo, siamo convocati a contemplare una umanità che non esiste. Il linguaggio pomposo delle Scritture e del rito ci chiama popolo di Dio e Corpo «totale» di Cristo.

Il rito, infatti, ci costringe incessantemente a riunirci e scioglierci ogni domenica, almeno, e ogni volta che vogliamo pregare nel ritmo del tempo: all’alba, al tramonto, durante il giorno, nella notte. Però sono frammenti di umanità riconciliata: per pochi istanti non si odia, non si divide, non si frantuma. Poi, questa umanità viene ricacciata dalla luce al buio, dal cibarsi del pane degli angeli alla fame del camminare nel deserto della storia. Ma è solo così che nasce l’invocazione di poter contemplare un giorno una umanità non più lacerata, non più incancrenita nelle differenze, ma appagata dalla pluralità che crea comunione:

 

«La liturgia, infatti, mediante la quale, massimamente nel divino sacrificio dell’eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile, ma dotata di realtà invisibili (…). tutto questo in modo che quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati. In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella chiesa per farne un  tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio nello Spirito, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo in modo mirabile irrobustisce le loro forze per predicare il Cristo; e così a coloro che sono fuori mostra la Chiesa come segno innalzato sui popoli, sotto il quale i dispersi figli di Dio si raccolgono in unità, finché si faccia un solo ovile e un solo pastore» (Sacrosanctum Concilium, n. 2).

 

E a cosa serve l’iniziazione cristiana? A ricostruire costantemente nello scorrere delle generazioni il gruppo, la comunità dei discepoli e, quindi, a ricostruire l’assemblea liturgica.  I sacramenti medicinali della Penitenza e dell’Unzione la risanano, per preparare una sposa senza macchie e senza rughe. L’Ordine e il Matrimonio sembrano creare strutture permanenti, ma in realtà è uno solo il nostro Capo e Maestro e ci sarà un tempo nel quale non ci sarà più né uomo né donna.

Anche le scelte decisive dei consacrati, scaturite dal Battesimo, sembrano riempire di strutture stabili la vita della Chiesa. In realtà violentano la storia, ne denunciano la provvisorietà e allertano il corpo storico della comunità che i beni veri stanno altrove. All’ingresso nel catecumenato il celebrante chiede: «Che cosa domandi alla Chiesa di Dio?» e il catecumeno risponde: «La fede»; di nuovo chi presiede: «E la fede cosa ti dona?» e si risponde: «La vita eterna». Nel rito della professione religiosa risuona l’augurio: «Dio, che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porti a compimento fino al giorno di Cristo Signore (cf. Fil 1,6)».

 

Ritagliare uno «spazio» santo… in attesa della città senza tempio

Ogni gruppo umano che si raduna con continuità, prima o poi si ritaglia uno spazio dove incontrarsi, anche solo all’aperto. Pian piano lo recinta, poi ne fa un edificio stabile e sempre più bello. Le arti della propria cultura aiutano l’assemblea a trasformare quel luogo in simbolo e segno di se stessa e della sua fede e della sua missione nel mondo. Cosa c’è di più stabile delle nostre chiese, che in occidente hanno occupato e contrassegnato lo spazio e generato toponimi?

Eppure i riti di dedicazione di una chiesa, mentre ne marcano il simbolismo, spingono a non farsi illudere: questa è sempre una «tenda» per un popolo che matura camminando nel deserto; è sempre una dimora in attesa di quella «non fatta da mano d’uomo» (2Cor 5,1) nella quale è entrato il nostro sommo Sacerdote (cf. Eb 6,19-20). Così annota l’introduzione al rito della dedicazione di una chiesa al n. 28: «In quanto costruzione visibile, la chiesa-edificio è segno della Chiesa pellegrina sulla terra e immagine della Chiesa già beata nel cielo». Con maggiore lirismo il prefazio della dedicazione canta: «L’universo è tempio della tua santità e la creazione glorifica il tuo nome, ma tu non rifiuti che noi ti dedichiamo una dimora costruita dalle mani dell’uomo per la celebrazione dei santi misteri: segno del tuo santo tempio, immagine della celeste Gerusalemme».

La preghiera di dedicazione dell’altare rimarca la dimensione escatologica dell’edificio chiesa e del suo fulcro, l’altare, e si chiude con questa intercessione: «Sia il centro della nostra lode e del comune rendimento di grazie, finché nella patria eterna ti offriremo esultanti il sacrificio della lode perenne con Cristo, pontefice sommo e altare vivente».

Davvero belle le preghiere, le premesse ai riti che decantano il simbolismo e la dignità dell’edificio, ma, volutamente, le norme liturgiche ci ricordano: «La celebrazione dell’Eucaristia, nel luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, la croce e i candelabri» (Ordinamento generale del Messale Romano, n. 297), e ancora: «In ogni luogo, quando le circostanze lo esigono, i figli della Chiesa possono celebrare il memoriale di Cristo e appressarsi alla mensa del Signore» (Rito della dedicazione della chiesa e dell’altare, n. 155).

Nella tradizione cristiana il «mistero del tempio» vive profondamente di queste dinamiche. Tra il tempo paradisiaco e il tempo escatologico vi è il tempo della storia umana segnato dal tempio che è Cristo e dal suo prolungamento che è il corpo ecclesiale. Ma, a sua volta, il corpo ecclesiale trova la sua sacramentalità nella chiesa costruita da mani d’uomo che, in definitiva, diventa specchio della dimora celeste primordiale e finale.

Per questo «in ogni luogo i figli della Chiesa possono celebrare il memoriale di Cristo», infatti, il vero «spazio» sacro è l’assemblea dei «santi» (Rm 1,7), dei santificati (1Cor 1,2), dei chiamati e amati da Dio attraverso il Battesimo. E l’assemblea è transeunte, finché non si arriverà alla città che non ha alcun tempio (Ap 21,22). Scriveva molti anni fa padre Yves Marie Congar:

 

«Le chiese servono alla vita delle nostre anime in quanto templi spirituali poiché sono il luogo della preghiera; servono alla nostra unione in un corpo comunionale, poiché sono il luogo dell’assemblea cristiana. E, come l’eucaristia, anzi in modo ancora più ampio, assumono gli elementi del mondo ed il lavoro dell’uomo. Le chiese sono anch’esse primizie della creazione offerte a Dio ed attirate ad associarsi col corpo di Cristo, che tutte le riunirà e le consacrerà. Per questa ragione le ricche cattedrali e in modo meno solenne le chiese e le cappelle disperse sulla superficie del globo convocano gli elementi del mondo e raccolgono ogni vestigio di bellezza a lode del Creatore, mentre rappresentano pure il corteggio glorioso dei santi. Le chiese sono il segno e la promessa che tutto sarà riunito, il visibile e l’invisibile, il corporale e lo spirituale, nell’unico tempio di Dio e dell’Agnello» (Y.-M. Congar, Il mistero del tempio. L’economia della presenza di Dio dalla Genesi all’Apocalisse, Borla, Torino 1963, 285-286).

 

Scandire di feste i giorni… in attesa dell’oltre

Non c’è niente di più ripetitivo e rassicurante come la fissità delle sequenze rituali, della preghiera oraria, della ciclicità dell’anno liturgico. Non a caso è «rito». Così la Treccani spiega l’origine del vocabolo: «Dal latino ritus, -us, affine al greco ἀριϑμός (arithmòs) «numero» e al sanscrito ṛtá– «misurato» e come sostantivo neutro: ordine stabilito dagli dèi».

Le religioni sono abili nell’impadronirsi del tempo e a misurarlo coi momenti della preghiera, le feste, i giorni vacanti, svuotati dal tempo del denaro e riempiti dalla memoria del mito, degli eventi della salvezza, della memoria di vittorie o azioni memorabili che hanno costruito una nazione. Danno sicurezza, generano appartenenza, mantengono salde le radici. È così anche per i ritmi della liturgia cristiana che trapunta con la preghiera delle ore il percorso sempre uguale del quadrante dell’orologio e scandisce con le domeniche e i tempi liturgici i dodici mesi dell’anno. Riesce persino a ritmare il calendario, nonostante la nostra cultura sia secolarizzata e non ascolti le campane del mattino, del mezzogiorno e della sera.

Se è così, non c’è nulla di più immanente, di più ancorato al presente del tempo liturgico. È vero, questi ritmi per loro natura radicano nella sicurezza del già avvenuto, ritmano il tempo perché sia «memoriale» o come meglio dice il latino, perché possiamo vivere «memores», memoranti, la Pasqua: «Mémores ígitur mortis et resurrectiónis eius, tibi, Dómine, panem vitæ et cálicem salútis offérimus, grátias agéntes quia nos dignos habuísti astáre coram te et tibi ministráre / Perciò noi i ricordanti la sua morte e risurrezione, a te, Signore Dio, il pane della vita e il calice della salvezza offriamo, grati perché ci hai fatti degni di stare in piedi davanti a te e te servire come fanno i sacerdoti».

Ritmiamo il tempo, perché sia memoriale. La memoria è rassicurante, come lo era per Israele: «Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa (…). Ecco in quale modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la pasqua del Signore! (…). Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,2-3.11.14).

Da allora anche la liturgia cristiana è ricca di memoria delle opere di Dio, ma ci fa mangiare in piedi, in fretta, perché un Dio all’opera spinge sempre il suo popolo nel deserto, verso la terra della promessa. La Liturgia quotidiana delle Ore fa vegliare e pregare senza stancarci. La ciclicità dell’anno liturgico, prima di farci rivivere i misteri dell’incarnazione e della pasqua, ci fa alzare lo sguardo all’orizzonte e così canta l’antifona d’ingresso della prima domenica d’avvento: «A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido, che io non arrossisca e non si prendano gioco di me i miei nemici: infatti tutti quelli che ti aspettano non saranno confusi» (Sal 24,2-3). «Mostrami Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri». (Sal 24,4).

Anche nel cuore delle celebrazioni dell’incarnazione, dove Dio si fa solidale con la vita dell’uomo, e di quelle del mistero pasquale, dove Dio si fa solidale con la morte dell’uomo, i riti proclamano che quanto Dio ha fatto attende un compimento, è in costruzione nel dipanarsi della storia:

 

«Nel mistero adorabile del Natale egli, Verbo invisibile, apparve visibilmente nella nostra carne, per assumere in sé tutto il creato e sollevarlo dalla sua caduta. Generato prima dei secoli, cominciò a esistere nel tempo, per reintegrare l’universo nel tuo disegno, o Padre, e ricondurre a te l’umanità dispersa» (Prefazio del Natale II)

 

«O Dio, che nella passione del Cristo nostro Signore ci hai liberati dalla morte, eredità dell’antico peccato trasmessa a tutto il genere umano, rinnovaci a somiglianza del tuo Figlio; e come abbiamo portato in noi, per la nostra nascita, l’immagine dell’uomo terreno, così per l’azione del tuo Spirito, fa’ che portiamo l’immagine dell’uomo celeste» (Venerdì Santo, Passione del Signore, Orazione).

 

«Mediatore tra Dio e gli uomini, giudice del mondo e Signore dell’universo, ci ha preceduti nella dimora eterna non per separarsi dalla nostra condizione umana, ma per darci la serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria» (Prefazio dell’Ascensione I).

 

In piedi

Nel cuore della preghiera eucaristica, attuando il memoriale della Pasqua, l’assemblea si apre inequivocabilmente al futuro, alla parusia, alla venuta di Cristo mediante la quale il mondo sarà definitivamente trasformato: «Annunciamo (…) proclamiamo (…) nell’attesa della tua venuta». Infine, al vertice dell’eucaristia, la comunione con il corpo e il sangue di Cristo è il pegno «per la vita eterna»: spesso oggetto delle preghiere dopo la comunione.

L’orante, sia presidente sia assemblea, esprime queste realtà o con lo stare in piedi o con l’incedere. Nello stare in piedi, prescritto in molti momenti dei riti (ad es.: i monaci cantano in piedi anche i salmi della Liturgia delle Ore), c’è qualcosa di teso, di desto. Stare in piedi dice che si vive pienamente l’ora presente, ma si può anche rapidamente andare via, dice si possono attendere con forza le realtà ultime. Il massimo di questa tensione è espresso dagli oranti quando si rivolgono al Padre con la preghiera escatologica per eccellenza: il Padre nostro, in piedi, con le mani alzate. Tutto il corpo è eretto e in tensione, nella sua altezza massima, grida: «Venga il tuo regno», l’unico grande desiderio che si fa preghiera. Infine, lo stare in piedi nella celebrazione eucaristica, non è immobilismo. in sintonia con la natura escatologica dei riti di comunione, lo stare in piedi si risolve nell’incedere, nell’andare a ricevere la comunione:

 

«Camminare eretti significa essere uomini… Rigenerati da Dio ad una vita nuova, Cristo vive in noi, in maniera particolarmente profonda nel sacramento dell’altare… Cristo cresce in noi e noi cresciamo in lui, in tutte le dimensioni, fino a che abbiamo raggiunto la piena maturità di Cristo Gesù; fino a che egli non abbia preso forma in noi e pertanto tutto l’essere e l’agire» (R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1980, 145-146).

 

Nel desiderio di camminare c’è una carica di speranza. Si esce dalla celebrazione camminando. Forti del già donato e ricevuto, ci si apre al non-ancora che intride la storia. Del resto, fin dall’inizio della celebrazione un popolo in piedi (non prostrato) aveva già invocato il Kyrios, riconoscendo che tutta la storia e il suo oltre è governata da colui che ha la signoria sulla morte, perché definitivamente risorto.