N.03
Maggio/Giugno 2022

Riparare, sanare, vivere

La mia infelicità nel migliore dei casi è un’idiozia, quando rovine e polvere si aprono davanti agli occhi fuori dalla finestra”.

Auður Ava Ólafsdóttir, Hotel Silence, Einaudi

 

Si può riparare un’anima ristrutturando un edificio? Jonas ha smarrito i punti di riferimento della sua vita: non è più marito, non si sente più padre, non viene più riconosciuto dalla madre. Finisce per non riconoscersi neanche lui allo specchio: “C’è una lista di oggetti che si perdono facilmente: impermeabile, guanti, sciarpa, ombrello, occhiali, fede nuziale, passaporto, penna, cacciavite. Ma non c’è scritto nulla nel caso perdessimo noi stessi”. Così pensa che l’unica soluzione possibile sia farla finita: vende tutto e con un volo di sola andata lascia l’Islanda per un indefinito paese straniero che ai suoi occhi ha l’unico merito di essere lontano e appena uscito da una guerra sanguinosa. Ma dal momento in cui prende alloggio all’Hotel Silence, gestito da fratello e sorella poco più che ragazzi, costretti a crescere di colpo (“Lei ha l’età di mia figlia. – Sono più vecchia, – dice lei, – sono più vecchia anche di te. Ho duecento anni e ho visto di tutto”), dove l’elettricità funziona a malapena, l’acqua calda è un miraggio e tutto è in frantumi, si ricorda che l’unica cosa che gli è sempre riuscita bene è riparare le cose. Tira fuori il trapano dalla valigia e, un pezzo per volta, si mette a sistemare l’albergo. E la sua anima. Quel trapano portato con sé per fissare una corda al soffitto diventa lo strumento con cui Jonas ricostruisce le cose e sé stesso: “L’hai preso con te? Il trapano?” – chiede sgomenta la figlia al telefono -, “Sì. […] Sento che ho una responsabilità”. Jonas si fa carico suo malgrado anche di aggiustare altre vite, fantasmi sopravvissuti a mille orrori: “È possibile ridiventare esseri umani dopo essere stati bestie feroci?”. La guerra non è mai bella, anche e soprattutto perché fa male. E la conversione dello sguardo e del cuore arriva inesorabile. Quando ti trovi a guardare negli occhi chi ha perso tutto, come fai a dire che la tua vita non vale la pena? “Non posso dire a questa giovane donna che non possiede altro che la vita che io sono perso. O che la vita è diversa da come mi aspettavo. Se dicessi che io sono come tutti gli altri, amo, piango e soffro, allora probabilmente mi capirebbe e risponderebbe: so quello che intendi”. Dalle devastazioni ricostruite, dalle cicatrici sanate, dal dolore condiviso, rinasce l’uomo, l’umanità, quando il vivere e il morire riacquistano il loro senso: “Si cerca di fare del proprio meglio essendo esseri umani”.