Il coraggio di chi resta
“Perché vuoi stare qui se rimarremo senza lavoro, se non potremo più parlare tedesco, se distruggeranno il paese?
– Perché qui ci sono nato, Trina. Ci sono nati mio padre e mia madre, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro”.
Marco Balzano, Resto qui, Einaudi
Trina e Erich vivono a Curon, in Sud Tirolo. Un luogo destinato ad essere attraversato prepotentemente dalla Storia: prima il Fascismo, poi la guerra, poi la diga che sommergerà il paese. Trina ed Erich resistono restando dove sono, segnati dal dolore più grande: la scomparsa della figlia, fuggita di notte per seguire gli zii in Germania e mai più ritornata. Ormai anziana Trina, voce narrante del romanzo scritto sotto forma di diario, ripercorre la sua vita. Da ragazza cresce nella convinzione che solo la cultura possa renderla libera in un mondo contadino e isolato: “Io credevo che il sapere più grande, specie per una donna, fossero le parole. Credevo mi potessero salvare, le parole”. Così, insieme a Maja e Barbara, inseparabili amiche, studia per diventare maestra (“…ce l’avevamo davvero la vocazione a insegnare e non vedevamo l’ora di entrare in classe”). Quando all’arrivo del Fascismo che impone l’italiano come unica lingua, il parroco le convince a diventare maestre clandestine Trina accetta senza paura: in rifugi di fortuna, nuove catacombe, insegna ai bambini a leggere e scrivere in tedesco. È arrestata e minacciata, ma continua, fedele alla sua vocazione. Intanto sposa Erich e con lui, giorno dopo giorno, costruendo una vita insieme, nella durezza del lavoro quotidiano e nella gioia di due figli, Trina riscopre l’appartenenza, le radici. Voleva andar via da Curon e invece a Curon ha tutta la propria vita. Nel momento in cui è chiaro che la diga si farà senza riguardo per nessuno se non ai soldi, prende corpo la consapevolezza della sopraffazione in atto: dall’attaccamento alla propria terra, ancora una volta, nasce la resistenza disperata degli umili. Ma tutto è destinato ad essere perso. Non bastano le lettere al Papa, gli articoli scritti da Trina, la visita di Segni. Persino la fede è messa in dubbio: “La domenica siamo andati a sederci sulle panche della chiesa per l’ultima messa. […] È stata una messa che non ho ascoltato. Troppo presa a conciliare l’inconciliabile: Dio con l’incuria, Dio con l’indifferenza, Dio con la miseria della gente di Curon”. Derubati della propria identità, sradicati dal proprio vissuto, deportati dalle proprie case, alla fine tutti sono costretti ad andarsene. Di Curon oggi rimane la punta del campanile: custode silenzioso, memoria di chi voleva soltanto restare nella sua terra.