N.03
Maggio/Giugno 1991

La Comunità di Accoglienza tra passato e futuro

Una delle doti caratterizzanti il Popolo di Dio nel suo cammino lungo la storia è la sua capacità creativa, di dar vita cioè a nuove risposte adeguate alle nuove situazioni culturali, sociali, ecclesiali. È dovuto alla continua azione dello Spirito e alla genialità dell’uomo quando si lascia interpellare dalle molteplici espressioni della vita e dai segni dei tempi.

Tra queste risposte costruttive vanno collocate le “comunità di accoglienza vocazionale”. Esse hanno aperto nuove strade nell’ambito del ministero educativo della Chiesa, che, nella pastorale globale o specializzata, intende accompagnare le giovani generazioni nella scoperta della propria identità e della propria vocazione, ed hanno contribuito a mettere a fuoco le istituzioni educative precedenti e le stesse iniziative a carattere direttamente vocazionale.

Quali sono le circostanze in cui hanno avuto origine? Quale messaggio propongono? Quale il loro cammino e le prospettive che aprono?

 

 

All’origine

All’origine delle comunità di accoglienza troviamo l’esigenza di immersione nelle sorgenti della vita cristiana, per trarre da esse luce, orientamenti, energie per affrontare la nuova situazione epocale e, in essa, la realtà giovanile. All’origine vi è pertanto la riscoperta esistenziale dello spessore del “vieni e vedi unito al ritrovato valore della persona e al suo primato sulle istituzioni. Il fatto che le comunità di accoglienza siano sorte in un contesto di crisi, non sta a significare che vanno viste come nuove formule, forse più efficaci, ai fini del superamento del problema delle vocazioni.

È l’errore in cui non di rado si è caduti e che ha portato allo spegnimento di alcune di tali comunità. L’istanza che ha guidato la loro costituzione si può riassumere nella convinzione che solo offrendo ai giovani la mediazione, della testimonianza e della “esperienza” di Cristo Signore, essi maturano come persone e sono in grado di discernere, nei segni, il proprio nome, la propria vocazione nella Chiesa.

Aiutarli in una scelta motivata non dalle opere e nemmeno prioritariamente dal servizio, ma dall’accoglienza nella fede della persona di Cristo e dall’amore, che porta al dono di sé al Padre e ai fratelli. L’invio e le modalità del servizio hanno come origine la chiamata e lo stare con Lui (cfr. Mc 3,13),

In fondo sono le costanti presenti in ogni vocazione, da quella degli apostoli, a quella dei Fondatori e di quanti, con modalità diverse, si sono posti alla sua Sequela, mossi dallo Spirito. Al cuore delle comunità di accoglienza troviamo queste caratteristiche dinamiche.

Oggi forse emergono in maniera più nitida. Non sempre lo è stato nei cammini di questi anni. Il rischio a portata di mano è stato di chiamare con il nome di “comunità di accoglienza” realtà di fatto non modificate o rinnovate nello stile, nei contenuti, nella visione della pastorale delle vocazioni e nella formazione. È opportuno averlo presente nella valutazione. Non si tratta di cambiare il nome di un’Istituzione educativa, ma di un modo nuovo di accompagnare i giovani e le giovani nel loro itinerario di formazione cristiana, di ricerca e verifica vocazionale. Altri rischi corsi e sempre presenti sono quelli connaturali all’agire umano: la struttura, prima della persona, per cui i programmi più che essere di ausilio all’accompagnamento e alla formazione integrale, divengono fattori condizionanti e di pressione (anche sugli educatori stessi); la ricerca inquieta di vocazioni e di risultati immediati; il procedere “per tentativi”; un’insufficiente preparazione degli operatori pastorali; l’accento posto più sul discernimento della vocazione che sulla formazione cristiana e umana dei giovani, nel rispetto della gradualità del cammino personale e della comunità; dar vita ad una comunità di accoglienza a misura di noi adulti e della nostra visione dei giovani piuttosto che costruita per i giovani e con i giovani: la prima dà più sicurezza, la seconda sembra togliere ogni sicurezza.

 

 

Punti nodali

La saggezza nell’azione educativa della Chiesa è sempre stata la sua capacità di “trarre dallo scrigno”, come lo scriba del Vangelo, “le cose nuove e antiche” (cfr. Mt 13,52) per rispondere alle istanze di crescita, ai nuovi bisogni e collaborare con l’azione dello Spirito in ciascuno e nella comunità ecclesiale. Noi ci troviamo di fronte alla realtà dei giovani di oggi, profondamente differenziata, con potenzialità e risorse che chiedono un ambiente ed una dinamica relazionale in grado di facilitarne lo sviluppo e l’espressione. La fragilità dei modelli culturali rallenta o impedisce la conquista di ciò che la persona ha di più sacro: la sua identità, il suo vero nome, la sua collocazione da adulto corresponsabile nella società e nella Chiesa. La ricerca crescente di confronto con la Parola, di preghiera, di cammini spirituali che animino lo stesso impegno di servizio; la domanda di vita comunitaria, il bisogno di punti di riferimento garantiti e solidi, la domanda di esperienze autentiche e motivate, rientrano nel quadro delle realtà in grado di dare una risposta agli interrogativi esistenziali e di aiutare a definire se stessi.

L’adulto ha qui una continua sorgente di sfide, che lo interpellano nel suo modo di leggere il mondo dei giovani (“da adulti” e con le nostre sole categorie mentali?), di relazionarsi con loro e con la società, di accompagnare persone e gruppi; soprattutto, la sfida riguarda la sua vita, il suo credo, la risposta di fede e d’impegno nel quotidiano.

Tutto questo si ritrova in una comunità giovanile, quale è una comunità di accoglienza. Prima di misurare la solidità o le inconsistenze dei giovani, la dinamica comunitaria verifica noi adulti. E non può essere altrimenti, per la serietà dell’impegno educativo e la consapevolezza della gravità del momento attuale della storia (cfr., Redemptoris Missio, cap. IV).

La lettura contestuale dell’origine e dello sviluppo delle comunità di accoglienza vocazionale pone in rilievo alcuni filoni o punti nodali. È più utile, per la ricerca, il confronto e l’impegno operativo, fermare l’attenzione su questi, più che sui particolari.

 

 

Una mentalità nuova

Il primo riguarda noi come operatori: la comunità di accoglienza vocazionale chiede un cambio di prospettiva, in una chiara visione di fede e antropologica. Al centro viene posta la persona nella sua relazione con Dio, con gli altri e con il mondo. Viene riconosciuto il valore primario della comunità come luogo di relazioni, di scoperta e assimilazione dei valori, di esperienza autentica. L’uomo infatti scopre e ritrova se stesso nel rapporto con gli altri e nel dono di sé (cfr. GS 24,25); la carità, diffusa nei nostri cuori dallo Spirito, è il principio dinamico della crescita personale e sociale. “Il Verbo di Dio… ci insegna che la legge fondamentale dellumana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità (GS 38; cfr. n. 32).

La comunione tra fratelli all’interno della comunità concorre a sviluppare la propria identità; il frutto della vita della comunità vocazionale è l’uomo maturo capace di rispondere alle chiamate della vita, anche le più forti.

Evidentemente, entro un cammino che avrà di mira la formazione integrale e il discernimento. La maturazione della vocazione avviene infatti in un percorso di formazione integrale e nella crescente disponibilità e apertura ad una vocazione specifica, su cui, a poco a poco, si porta il discernimento.

 

 

Nuove metodologie educative

Un secondo punto nodale riguarda l’azione educativa. Se questa, in molti casi, segue lo schema di programmi sostanzialmente definiti, sempre più si nota l’esigenza di un nuovo modo di procedere, che garantisca la creatività, il coinvolgimento e la sintonia con l’effettiva situazione dei giovani vale a dire: si procede per obiettivi chiaramente definiti, in base a criteri che garantiscono una formazione integrale, e per itinerari. Il programma di conseguenza viene continuamente elaborato e verificato sul metro della persona, della sua esperienza umana e di fede, del suo mondo culturale, del suo inserimento ecclesiale. La persona è vista nella sua concretezza e originalità, e come membro della Chiesa, non solo come individuo in relazione.

 

 

Nel dinamismo della comunione

Il terzo punto nodale è costituito dalla capacità degli educatori di lavorare insieme, di seguire lo sviluppo sapendosi confrontare ed anche, sapendo deporre sofferte esperienze precedenti, pur convalidate. La realtà dei giovani può chiedere un’altra modalità di accompagnamento da quella fin qui sperimentata, altri linguaggi e itinerari.

Nelle fasi successive di formazione, quando cioè la persona è entrata in un cammino di formazione specifica, il cammino educativo può essere più lineare ed organico. In questa fase, nella quale si è in stretto contatto con l’evolversi della gioventù e si costata l’incidenza della cultura del “post-moderno”, si richiede agli operatori e agli animatori vocazionali molta scioltezza, dinamicità, senso chiaro delle priorità e degli agenti della formazione (lo Spirito di Cristo, la persona, la Chiesa, la comunità), chiarezza di obiettivi, possesso dei criteri d’impostazione di un itinerario e di un programma formativo. Tutto questo non si può fare da soli; c’è bisogno di collaborazione tra educatori, di competenza e di sostegno. Iniziative in questo ambito e a questo livello vanno promosse come appuntamenti normali e regolari.