N.03
Maggio/Giugno 1991

Comunità di Accoglienza e discernimento vocazionale alla vita religiosa maschile

Da diversi anni, ormai, la pastorale vocazionale sta subendo una evoluzione: non più solo e semplicemente affidata alle fatiche di qualche “cireneo”, ma assunta in proprio da una comunità e dallintera Provincia. Ci siamo accorti che tali comunità del “vieni e vedi”, offrono un servizio prezioso a chi è in cerca della sua vocazione: servizio di orientamento e accompagnamento lungo il cammino, a volte difficile, della scoperta della chiamata.

Un aiuto importante e indispensabile e che, proprio per questo, non si improvvisa né può essere gestito da una comunità qualsiasi, senza preparazione o senza che si verifichino determinate condizioni.

Vorremmo considerare alcune condizioni essenziali che fanno di una comunità di consacrati una comunità vocazionale, in grado di garantire al giovane in ricerca una esperienza autentica di scoperta della propria vocazione dentro uno specifico progetto carismatico.

 

 

Prima condizione: la comunità di accoglienza non deve essere allorigine della vocazione, ma un momento allinterno di un cammino spirituale e vocazionale.

Quando parliamo di comunità di accoglienza in rapporto alla pastorale vocazionale, è necessario collocarla nel contesto giusto, cioè nella fase di accompagnamento vocazionale (Documento Conclusivo II Congresso Internazionale per le Vocazioni, n. 52; Piano Pastorale per le Vocazioni, n. 50). La comunità di accoglienza vocazionale ha infatti lo scopo di aiutare e sostenere il giovane a crescere, a prendere chiara coscienza di sé, del suo avvenire, a giungere ad una presa di posizione personale e responsabile nellorientamento da dare alla propria vita.

Ma per accompagnare, guidare, prendere per mano il giovane per condurlo verso una scelta vocazionale, è necessario conoscere il cammino che il giovane ha fatto, perché sulla base del tipo di cammino fatto si decide spesso la sorte di una esperienza vera allinterno di una comunità di accoglienza.

Questo servizio educativo nella fase di orientamento del giovane che si è reso disponibile a Dio e alla vocazione non si improvvisa, né può essere ridotto ad una iniziativa “una tantum”, ma si inserisce e presuppone un certo cammino spirituale e vocazionale che ad un certo punto fa nascere il desiderio e il bisogno di fare una esperienza concreta di vita. Nel cammino che va dalla percezione alla decisione vocazionale, l’inserimento del giovane in una comunità di consacrati che insieme accoglie, e insieme si assume la responsabilità educativa e formativa, offre al giovane in ricerca vocazionale, la possibilità di fare un’autentica esperienza di vita in vista di una decisione definitiva.

Questa comunità aiuterà il discernimento alla vocazione religiosa, proponendo al giovane il dono di sé, la possibilità concreta di amare donandosi, uscendo fuori di sé incontro all’altro. Sarà, inoltre, un luogo esistenziale in cui l’esercizio della carità acquista concretezza di modalità e di attuazione.

Un secondo apporto al discernimento, è offerto dalla comunità di accoglienza in quanto luogo della presenza del Cristo risorto, che chiama a seguirlo e che costruisce la comunità. La riscoperta di Cristo, il suo messaggio, tutta la sua verità, l’incontro profondo con Lui, fa balzare in primo piano i passi avanti da compiere, i difetti da eliminare, le scelte da operare. La vocazione religiosa non è prima di tutto un modo di operare nella Chiesa, ma un modo di essere della chiesa; non ha lo scopo di “rappresentare” Cristo che compie certi gesti di salvezza, ma quello di “ripresentare” Cristo nel suo modo storico di vivere, nel suo essere “luogo” personale di incarnazione della salvezza.

 

 

Seconda condizione: la qualità dell’esperienza che la comunità consente al giovane in ricerca.

Deve trattarsi di un’esperienza proporzionata alla reale situazione esistenziale del giovane, alla sua maturità di fede, al suo cammino di ricerca vocazionale. La comunità di accoglienza non può imporre a tutti lo stesso cammino e le stesse richieste, ma deve esprimere attenzione alla persona come scelta prioritaria, una attenzione libera dalla preoccupazione della vocazione per il proprio Istituto. Le persone impegnate nella comunità di accoglienza, devono avere ben chiara la consapevolezza di avere di fronte un “mistero”: quello di un figlio di Dio che, nel suo rapporto con Dio, ha percepito determinati aspetti e chiede aiuto per una maggiore comprensione. Questa opera di mediazione per il discernimento deve portare a chiarificare meglio il progetto di vita religioso che trascende la persona e la trasferisce, immergendovela totalmente, nei valori delle “cose” del regno. Una chiamata, dunque, che non ha come scopo immediato quello dell’autorealizzazione, bensì quello dell’autotrascendimento, non quello di ricercare per sé, ma quello di darsi e darsi a tal punto e così incondizionatamente da rinunciare in partenza alla possibilità di riprendersi in mano la propria vita e a qualunque pretesa di volersela gestire, nemmeno con l’intenzione di servire il Regno. Deve essere un’esperienza guidata da uno o più fratelli che si pongono accanto al giovane per aiutarlo nella fatica della ricerca. Il giovane deve essere accolto così com’è ed essere aiutato a mettere in cantiere le esperienze, gli approfondimenti, un tipo di vita per cui, alla fine, può arrivare alla maturazione. Dobbiamo partire dall’assunto che non c’è nessuna certezza; c’è la percezione, ci sono cose da fare ci sono esperienze da attuare perché si possa arrivare a capire se davvero Dio chiama a seguirlo più da vicino. Non è fruttuoso l’atteggiamento di lasciare il giovane solo con se stesso a fare le sue giornate di deserto in compagnia delle sue contraddizioni e illusioni, delle sue paure e pretese, senza un aiuto specifico. In questo modo, anziché discernere più profondamente la propria vocazione, il giovane si ritroverà con la sua incertezza e con una frustrazione in più. Devo proporre, infine, un’esperienza specifica perché legata ad un carisma, ad uno stile e ad un modo di vivere i valori evangelici della sequela. Non quindi una esperienza generica, astratta e nemmeno una esperienza troppo idealizzata. Il giovane non viene a fare un corso di esercizi spirituali, neppure viene semplicemente a provare come si sta in comunità per fare esperienza di un carisma verso il quale sente una certa attrazione, ma che ancora non conosce dal di dentro e nelle sue componenti. E necessario, allora, che la comunità di accoglienza viva e renda visibile, attraverso l’esistenza concreta, quel carisma, poiché una testimonianza convinta e specifica può risultare attraente; una testimonianza generica e superficiale può non suscitare adesione o chiarimento.

 

 

Terza condizione: la comunità di accoglienza si pone allinterno di un progetto complessivo di pastorale vocazionale.

Le comunità di accoglienza nascono all’interno di un Istituto religioso che, in tutte le sue componenti, è accogliente. Non può trattarsi di una “nuova strategia” per avere delle vocazioni. É, invece, una scelta di fondo, è una scelta di amore e di servizio che deve essere fatta da un Istituto o da una Provincia e che, per questo, presuppone un progetto comune. 

Nei confronti del giovane in ricerca vocazionale, l’Istituto aiuta a fare un cammino di verifica e mette a disposizione la vita concreta di una comunità perché il giovane possa arrivare a capire se questa è la sua strada.

Non comunità ideali, ma comunità di persone che, umilmente e insieme, si sforzano di vivere la propria vocazione.

Il primo inserimento del giovane, deve avvenire in una comunità “normale” e non contraffatta o idealizzata. Certamente la prima caratteristica, vera e propria condizione irrinunciabile, riguarda le persone che compongono la comunità di accoglienza. Nessuno può pretendere che siano sante e perfette, ma che siano sufficientemente mature, serene, positive. La presenza di religiosi di età diverse, di mentalità diversa, di sensibilità diversa, ma che sono disponibili all’accoglienza e nell’offrire il loro contributo a coloro che lo chiedono e in armonia con il progetto stabilito, arricchisce la comunità e la rende più vera, anche di fronte ai giovani. I quali non cercano “santi”, ma persone che si sforzano, camminano, magari a fatica, verso la santità, verso il compimento della volontà del Padre celeste.

Un altro aspetto che mi sembra importante, sono le attenzioni formative di verifica vocazionale. Attenzioni formative vuol dire grande rispetto per una maturità complessiva della persona. Nelle nostre comunità di accoglienza dovremmo preoccuparci che, durante l’accompagnamento vocazionale, maturi e cresca tutta la persona. La comunità di vita provoca nella persona la necessità di fare crescere tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti che aiuteranno la persona nella scelta definitiva. Un itinerario di accompagnamento i cui contenuti o dimensioni principali devono riguardare la formazione umana (la persona in se stessa), la formazione apostolica (il suo agire).

La comunità di accoglienza mette la persona nella condizione di capire se sta rispondendo o no alla complessità delle esigenze vocazionali e aiuta a verificarle nella comunità.

Infine, la comunità di accoglienza dovrebbe essere presente in ogni Provincia, perché non deve essere una specie di “scardinamento” o “disincarnazione” della persona dai contesti di vita normale, perché comunità di accoglienza significa offrire ad una persona questo particolare tipo di esperienza, ma restando ancorato alla sua vita, in modo che la sua decisione possa risultare libera e serena.

Certo, non tutti decideranno di entrare in convento dopo un periodo di prova, ma se l’esperienza è stata valida, nessuno giovane in ricerca, alla fine, dovrebbe trovarsi ancora con i suoi dubbi e ognuno, comunque, dovrebbe trarne vantaggio.