N.03
Maggio/Giugno 1991

La Comunità di Accoglienza è fatta da persone accoglienti

Quello che dovrebbe essere una Comunità di Accoglienza non è mai totalmente definito a priori, ma è, come ogni cammino cristiano, un qualcosa che si costruisce piano piano, camminando passo dopo passo, lasciandosi interpellare dalla Parola di Dio, dalla parola scritta che la Chiesa quotidianamente ci sbriciola e dalla parola che Dio ci fa giungere attraverso le persone, i fatti, gli avvenimenti, la realtà. Anche la Comunità di Accoglienza è un po’ come la vocazione: si fa luce e si costruisce piano piano, sì dopo sì, nella novità e nella trascendenza che ogni sì comporta.

Ma ci sono alcune condizioni, alcune attenzioni previe, perché la Comunità possa camminare in questo senso e possa portare frutto. La prima attenzione riguarda senz’altro le persone.

La Comunità deve essere formata da persone capaci di farsi attente a questa novità che continuamente Dio semina sul loro cammino e capaci di far germogliare e fruttificare, in sé prima di tutto, questo seme.

È necessaria la profonda coscienza di non essere mai arrivate, di essere sempre in ricerca, in ricerca di un di più che ci supera e che ci sta oltre, una disponibilità a lasciarsi sempre mettere in discussione e a lasciare le proprie posizioni.

È necessario “liberare” la propria umanità, esprimere l’intuizione, la finezza, il calore del proprio essere donna, prendere coscienza della propria “maternità” e quindi farsi carico della vita anche nella sua espressione vocazionale. Un cuore così dilatato è capace di cogliere i germi di vita presenti in ogni persona, coltivarli e portarli a maturazione.

Se una persona umanamente ricca è un terreno ben predisposto, è indispensabile tuttavia un’accurata e approfondita preparazione culturale.

Animatrici vocazionali non ci si improvvisa, è un’arte che va appresa e coltivata. È questo un campo immenso e smisurato perché tocca un’infinità di dimensioni: dall’aspetto teologico – biblico – liturgico – spirituale all’aspetto antropologico – psicologico – sociologico, dalle dinamiche intrapersonali alle dinamiche interpersonali e di gruppo, dall’educare alla preghiera all’educare alla decisione e al dono.

Tutto questo va integrato in una persona “impastata” della spiritualità della propria famiglia religiosa e profondamente innamorata del Signore della vita, di colui che per primo l’ha amata e l’ha scelta per essere suo prolungamento tra i fratelli.

È solo a partire da lui e per lui, dalla coscienza di essere strumento suo, che si impone dal di dentro l’obbligo di una autoformazione e di una crescita umana e spirituale per poter essere di aiuto a quanti serviamo.

Da persone consapevoli della propria missione e sempre bisognose di conversione ne scaturisce una comunità (la comunità di accoglienza) che non si pone come “maestra”, ma sa mettersi a fianco alle giovani e camminare con loro, ricercare con loro; sa guardare queste giovani con occhi misericordiosi e cuore ospitale, capace di far suscitare dal loro interno la domanda: ma io che ne faccio della mia vita? Come voglio realizzarla?

Mi scriveva una giovane: “Quando ti trovi davanti persone così, che vivono con la gioia di essere dono, di aiutare gli altri a camminare, e tutto questo nella massima semplicità e umiltà, non resti indifferente, ti senti chiamata anche tu a cercare la Fonte di tanta serenità e di tanto amore…”.

Una proposta che va fatta sì con le parole quando è necessario e a tempo opportuno, ma che è preceduta e preparata da una testimonianza concreta di vita.

Porsi accanto alle giovani come strumento di discernimento alla vita religiosa è innanzitutto far loro “gustare” la bellezza e il sapore di una vita evangelicamente vissuta nella comunione e nel dono. È questo il senso del “venite e vedete”.

Come ogni valore, anche la vita religiosa si trasmette per “contagio”. Solo l’impatto con persone che trovano la loro serenità e la loro realizzazione nel fare di tutta la loro vita un dono agli altri può suscitare nel cuore di una giovane l’innamoramento per questo stile di vita e per Colui che ne è la fonte.

La giovane quindi deve anche “vedere” che una vita così vissuta ha le sue radici altrove, ai piedi di una croce e di un tabernacolo; che si alimenta di una preghiera comunitaria profonda e di una intensa preghiera personale fatta nel segreto della propria cella o nel cuore della notte; che è configurazione a un modello ben preciso: Cristo “preso e mangiato”; che la Parola di Dio vi è familiarmente di casa ed è continuamente spezzata per sé e per gli altri, perché tutti ne trovino luce e alimento.

Il “venite e vedete” però è solo il primo passo, resterebbe sterile se non ci fosse poi un “andate”. Del resto queste sono state anche le tappe che Gesù ha realizzato con i suoi discepoli.

Ma mentre la prima tappa è un impatto quasi immediato e spontaneo, la seconda implica “l’abilitazione” ad andare che si acquisisce solo con un paziente e costante cammino di formazione secondo degli itinerari chiari, precisi e puntuali.

È questo secondo me lo scoglio più difficoltoso, perché più difficile da individuare e da personalizzare, ma senza il quale ogni proposta resterebbe vaga e generica e con il rischio di non far mai approdare la giovane a qualche decisione.

È qui che la singola religiosa e la comunità nel suo insieme mette in gioco la sua capacità non più di generare, ma di educare e far maturare la vita.

Ed infine un altro aspetto ritengo importante. Tutto questo deve avere orizzonti ampi: è un fatto d’Istituto ed è un fatto di Chiesa. La Comunità di Accoglienza deve sentirsi espressione del proprio Istituto e l’Istituto riconoscersi nella comunità; il discernimento vocazionale alla vita religiosa non è una delega agli addetti ai lavori ma va di pari passo con la crescita e la vitalità di ogni suo membro.

È un fatto di Chiesa. Ogni vocazione è partorita in seno alla Chiesa ed è per la Chiesa, per cui ogni sua fase di crescita deve essere avvolta e respirare questa atmosfera ecclesiale, pena l’autenticità della sua origine e della sua realizzazione.

È stato in questa esperienza che io ho vissuto la più profonda e affascinante avventura della mia vita religiosa; questa semplice testimonianza vuole essere un grazie riconoscente al Signore per quanto mi ha dato di crescere e maturare, di gioire e soffrire in questa realtà e un piccolo contributo a chi, innamorato del Regno, si lascia prendere dalla passione per l’uomo e per il giovane in particolare.