Percorsi pedagogici per liberare la speranza
La speranza è la cenerentola tra le virtù cardinali, ma è molto gradita a Dio se è vero quel che dice Peguy o che Peguy fa dire a Dio: “La fede che preferisco è la speranza”. Ed è anche virtù molto di casa nei nostri Convegni di animazione vocazionale, molto familiare a chi lavora nel settore, in questi tempi di scarsi raccolti, se non vuol farsi prendere dalla “disperazione vocazionale”, che è una brutta malattia, anche un po’ contagiosa (cioè con sempre più “vocazioni”)… In realtà tutta la nostra vita quaggiù è avvolta dalla speranza: in questa terra non si appartiene a Cristo se non nella speranza. Perciò è nell’educazione alla speranza che si penetra l’esperienza della redenzione.
In questa relazione vorremmo proprio parlare dell’aspetto pedagogico di questa virtù teologale: come si diventa uomini di speranza e che aiutano a sperare. Poiché pensiamo che la speranza stessa sia una componente vocazionale fondamentale, ovvero, riteniamo che nessuno possa sentirsi chiamato e decidere di accogliere la chiamata e realizzare la sequela se non nella speranza.
Se la speranza è già virtù modesta e discreta, va detto che anche la pedagogia non è certamente al centro dell’attenzione nel panorama delle scienze moderne. Le due cose, allora, si sposano bene tra di loro, come una specie di alleanza tra parenti poveri, dunque; anche se il matrimonio non sembra frequente, nel senso che non abbondano certo gli studi sull’argomento. Un motivo in più per cercare di riflettere e dire qualcosa, senza grandi pretese.
Dividerò la relazione in quattro parti: nella prima cercherò di cogliere gli elementi costitutivi della speranza da un punto di vista psicopedagogico. Nella seconda vedremo di precisare alcune strategie generali educative, deducendole direttamente dagli elementi costitutivi; nella terza cercheremo di cogliere l’aspet-to psicodinamico dello sperare. Nella quarta passeremo esplicitamente all’indi-cazione dei percorsi pedagogici per liberare la speranza. Stando al titolo, infatti, sembra che la speranza non se la passi tanto bene, se ha bisogno addirittura d’esser liberata… Chi è stato a incatenarla?
La speranza da un punto di vista psico-pedagogico: elementi costitutivi
Non ha certo bisogno d’essere spiegato e definito quanto fa parte dell’esperienza di tutti, o quanto tutti, più o meno, abbiamo conosciuto e sperimentato in alcuni momenti della vita. E tutti abbiamo sperato e speriamo… Ma può essere utile, per la nostra analisi, cercare di vedere da vicino, ovvero da diversi punti di vista, le componenti d’un atteggiamento che è molto più centrale e decisivo di quanto pensiamo[1].
Oggetto sperato
Sperare significa soprattutto desiderare qualcosa di significativo e centrale o importante per la propria identità. Si spera e si desidera, fondamentalmente, d’esser se stessi nella verità; e quel che si spera, direttamente o indirettamente, è sempre in relazione con quel che si è e si desidera essere e diventare. La verità, dunque, e più precisamente la possibilità di scoprirla, è fondamentale per poter sperare e per definire la speranza.
Ciò sta a dire che normalmente si spera qualcosa di nuovo e di grande, non le cose normali e di facile accesso, più o meno scontate o ciò che si è abituati ad avere senza guastarsi il fegato né pagare un certo prezzo. Kierkegaard definisce la speranza “la passione per ciò che è possibile”, ma mettendo in particolare l’accento sull’elemento del pathos, di quell’amore doloroso e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. Il teologo della speranza, Jürgen Moltmann, ha definito la speranza, agli inizi degli anni Sessanta, come “l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce”, evidenziando come vivere la speranza significhi “tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo”[2].
Lo sperare, insomma, implica la coscienza più o meno sofferta di qualcosa o qualcuno che ora non c’è, e lo sento, mi manca. Si sperano, infatti, non solo cose o situazioni, ma anche persone, la loro presenza, la loro parola, con la luce che ne viene per la propria vita. Com’è evidente nel caso della speranza cristiana (“O Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua… Nel mio giaciglio di te mi ricordo, penso a te nelle veglie notturne”, Sal 62,2.7). La speranza cristiana assume e supera da tutte le parti la speranza naturale.
Sperare non può esser la stessa cosa, dunque, del semplice prevedere, così come si prevede che domani faccia bel tempo, e neppure del solo calcolare, in modo da non lasciar più alcun dubbio alla programmazione della vita e alcuno spazio al suo mistero. In tal senso stiamo attenti ad un uso troppo disinvolto e fatalistico delle previsioni statistiche, come fossero un’anticipazione definitiva e al di sopra d’ogni dubbio del futuro. Va bene premunirsi realisticamente e intuire dove ci sta portando una certa tendenza (ad es. circa il calo vocazionale), ma senza attribuire al calcolo statistico il valore d’una sentenza finale e d’un processo inarrestabile, per non cadere nel tranello di “pensare con chiarezza e non sperare più”, come già ammoniva Camus.
Soggetto sperante
La realizzazione della speranza è legata alla propria iniziativa, certamente, suppone ed esprime dunque un atteggiamento di fiducia verso di sé, pur nella coscienza realista dei propri limiti. In certo senso il soggetto spera in se stesso, confida di poter ottenere l’oggetto sperato o di poter realizzare quanto spera.
Al tempo stesso, però, e forse ancor più, sperare significa esser consapevoli anche della propria impotenza, ammettere lucidamente che non tutto dipende dalla propria persona e dalle proprie forze, ma è legato ad altri fattori ed eventualità, ad altre persone, a qualcosa che il soggetto non può controllare pienamente, alla libertà d’altri[3].
La speranza mette insieme le due cose apparentemente contraddittorie: la fiducia in sé e il senso della propria impotenza. Il che non elimina, anzi comporta per natura sua un certo rischio, una qualche incertezza.
Fondamento della speranza
Tale rischio e incertezza sono risolti o almeno ben affrontati a partire dalla fiducia che la persona accorda all’altro, a un altro, sperando in lui. Diciamo che tale atto di fiducia o di affidamento viene abbastanza naturale all’essere umano, il quale deciderà in libertà, ovviamente, a chi affidarsi o di chi fidarsi, ma di fatto non potrà esimersi dal farlo, e finirà in ogni caso per fidarsi di qualcuno, o per consegnarsi a qualcuno, anche quando non se ne rende conto o lo esclude addirittura. Converrà, allora, star bene attento a chi ciascuno si consegni, implicitamente o esplicitamente. È importante sapere “in chi” si è posta la fiducia.
La saldezza della fiducia, e dunque la serietà e consistenza del fondamento, di colui in cui s’è riposta la fiducia, dà forza alla speranza. Ancora una volta, questo è quanto mai vero per la speranza cristiana: “essa non è più un’attività promanante da me, una semplicità di adesione alla mia origine, da me stesso ottenuta; non è una mia iniziativa di cammino verso l’in-finito, non più uno slancio fiero e forte di me stesso, per evadere dal mio limite presente. Questa speranza mi viene da fuori di me, me la trovo all’esterno e mi penetra dentro, mi riecheggia all’orecchio, anche se mi colpisce il cuore, mi condiziona di fuori e libera dentro”[4]. È lo sperare “in” Dio[5]. Al punto di identificare Dio con la speranza stessa: “Sei tu, Signore, la mia speranza”. (Sal 71,5; cfr. Ger 14, 8; 17,13-14).
Facoltà sperante
Sperare nasce dal desiderare, è voce del verbo desiderare, lo esprime al punto quasi d’identificarsi con esso, fluisce dal desiderio e ne ha la forza; chi desidera poco, infatti, spera poco. La speranza è desiderio che diventa coraggioso e paziente, tenace nell’attendere e nel tener fisso lo sguardo verso l’oggetto sperato e resistente alla tentazione d’accontentarsi di qualcosa d’inferiore ad esso o alla persona attesa. Vedi, ad es., Charles de Foucauld coi suoi 15 anni di deserto, “deserto” in tutti i sensi, aspettando un amico che s’unisca a lui e che non verrà, e ponendo le basi per un annuncio dell’evangelo in un ambiente ostile, che non sarà lui a realizzare e di cui, tanto meno, sarà lui a cogliere i frutti; anzi, lui morirà colpito da questa ostilità, ma senza rinunciare alla speranza, morirà sperando[6].
La speranza che desidera e attende diventa atteggiamento interiore che coinvolge l’intera sensibilità, che è presente in ogni decisione, ma si ritrova anche nel modo d’immaginare il futuro, nella fantasia. Ci si potrebbe chiedere: se la mente crede, il cuore ama e la volontà decide, qual è la facoltà che spera? La risposta è che tutt’e tre le facoltà sperano… Sperare è attività o facoltà cumulativa, riassume e dice tutto l’essere umano, in un’attività che è tipicamente umana.
Così anche dal punto di vista del tempo: la speranza è ciò che scandisce il tempo, quasi potremmo dire che non avremmo il senso del tempo senza la capacità di sperare. La vita dell’uomo è un continuo sperare qualcosa (qualcuno) che ancora non c’è e di cui si soffre l’assenza (al presente); significa godere di qualcosa (qualcuno) finalmente presente dopo averlo lungamente atteso e proprio perché lo si è lungamente atteso (nel passato), o godere perché si scorge qualche segnale della sua presenza, che aumenta ancor più la speranza; e vuol dire infine disporsi nei confronti del futuro rassicurati in qualche modo dal passato, con la certezza che l’atteso …verrà ancora o il desiderio sarà soddisfatto, come una continua dialettica tra speranza appagata e inappagata, che aumenta e purifica il desiderio stesso. È il mistero della speranza!
Una realtà culturale del “tutto e subito”, che non ammette alcuna dilazione dei desideri, non conosce nemmeno alcuna speranza e vanifica pure l’idea di futuro.
Realtà circostante
Al tempo stesso la speranza implica la consapevolezza che è possibile sperare, confidare che le cose andranno meglio, scommettere su un futuro migliore… Sperare è credere che la realtà non è ostile, la vita non è nemica, l’altro mi può aiutare ed esser propizio, Dio mi ascolta…
In questo senso la speranza si porta con sé un certo ottimismo o nasce da una presunzione ottimistica nei confronti della realtà in generale, conduce ad una fiducia verso di essa, ad un pregiudizio positivo, amicale verso colui in cui s’è riposta fiducia. La speranza è l’ottimismo della fede. Assieme, però, uno che spera esprime una prospettiva diversa da quella innescata dagli eventi, o per lo meno non del tutto logica, né prevedibile e scontata, che va oltre la realtà circostante. È ancora la natura complessa della speranza, il suo mistero!
Quando non c’è comunque questo atteggiamento di fondo ottimistico l’individuo può certo continuare ad attendersi grandi cose dalla vita, ma non più con l’atteggiamento speranzoso di chi ha fiducia nella vita e negli altri, bensì con l’affanno e la tensione di chi deve lottare e strappare coi denti le sue proprie conquiste, magari in conflitto con gli altri e con la vita stessa, e sempre col dubbio più o meno angosciante di non riuscirvi.
Strategie dell’educazione alla speranza
Intendiamo per strategie educative gli orientamenti generali pedagogici, come delle grandi opzioni educative che deduciamo direttamente dagli elementi costitutivi ora visti, come un fattore intermedio prima di vedere le proposte pedagogiche vere e proprie. Ad ogni elemento costitutivo corrisponde in sostanza una strategia educativa. Seguiamo lo stesso ordine col quale abbiamo presentato quei cinque elementi.
Fiducia nella verità
È la strategia corrispondente all’oggetto sperato e che dovrebbe consentire al giovane di apprendere a sperare, o di mettersi nelle condizioni adeguate per aprirsi alla vita e al suo futuro con atteggiamento speranzoso. È fondamentale, per questo, offrire al giovane una certezza di cui ha estremo bisogno, la certezza che esiste la verità, e non solo, ma è possibile accostarsi ad essa, poiché tale verità è …buona e amica dell’uomo, si lascia sentire, toccare, vedere…, manda messaggi, non è inaccessibile, ama svelarsi ed entrare in relazione con chi la cerca. Al di fuori di questa certezza nessuno apprende a sperare né di fatto spera. Se sperare vuol dire sognare qualcosa d’importante per la propria identità, se la speranza nasce dal desiderio di esser se stessi nella verità, non è possibile sperare se tale verità non c’è o è praticamente inaccessibile.
Forse, paradossalmente, più importante ancora del contenuto di questa verità è la certezza che tale verità esiste e ci si può metter in cammino per riconoscerla.
Spiritualità dell’esodo
Chi spera, abbiamo detto, mostra d’aver fiducia in se stesso, è disposto in qualche modo a scommettere su se stesso. Di conseguenza occorrerà programmare una strategia educativa volta a rinforzare la sua stima di sé. Al punto che il soggetto possa rischiare di uscire dalle proprie sicurezze e tendere verso una realizzazione inedita di sé, non s’accontenti di ripetersi, ma volga il suo sguardo verso ciò che ancora non ha compiuto di sé e che avverte come qualcosa che l’attira e affascina.
Potremmo dire che la strategia educativa dell’atteggiamento speranzoso è la spiritualità dell’esodo, o del pellegrinaggio. Provoca ad uscire da sé per ritrovarsi, poiché impara a sperare solo chi si distacca da se stesso (dall’io attuale) per accedere alla vera sua identità (all’io ideale). In tal senso è molto vero quanto ci ricorda André Gide: “non si possono scoprire nuovi orizzonti se non si accetta di perdere di vista la riva per un periodo molto lungo”[7].
Si tratta, dunque, di educare al coraggio di accettare il punto di non ritorno, il momento di rottura con un certo passato, con i pensieri oramai addomesticati…, momento duro ma indispensabile, senza il quale nessun viaggio mai prenderebbe corpo, nemmeno quello immaginario, e soprattutto senza il quale nessun essere umano apprenderebbe mai a sperare. La speranza chiede di fare quel viaggio interiore che è come una morte a se stessi, all’immagine che ognuno s’è fatto di sé, alle maschere che ha indossato di fronte agli altri.
Fondamento pasquale
Si spera nella misura in cui si è trovato un punto di riferimento solido, su cui poggiare la propria speranza, o che consenta qualsiasi tipo di viaggio verso il futuro. Da questo punto di vista nessuno ha un fondamento stabile e forte come il cristiano, credente in Colui che con la sua morte e resurrezione ha sconfitto ogni disperazione e aperto la strada alla speranza, persino alla speranza di sconfiggere la morte, di vivere per sempre.
Chi altri può giungere fino a questa speranza? Ma sarà necessario un impianto pedagogico costruito rigorosamente sul fondamento pasquale, in cui ogni attesa e apertura sul futuro ponga lì le sue radici. Per aumentare sempre più nel credente la consapevolezza dell’affidabilità del suo punto d’appoggio (“so a chi ho creduto”, 2 Tim 1,12), e di conseguenza la sua libertà di abbandonarvisi. Al di là d’ogni presunzione autocentrica.
Il contrario della speranza, infatti, non è la disperazione, ma l’autoaffermazione, il porsi al centro della vita.
Esercizio della capacità di desiderare
La facoltà “titolare” della speranza, abbiamo detto, è la capacità di desiderare, che in un senso rappresenta un’attitudine naturale nell’essere umano, ma d’altra parte è anche qualcosa che va educato perché ognuno impari a desiderare ciò che è degno d’esser desiderato, e lo desideri intensamente.
Desiderare significa, in buona sostanza, concentrare la propria energia nella tensione verso un oggetto considerato significativo o centrale per la propria identità, la cui conquista implica una certa fatica personale e un certo spazio d’attesa, resistendo alla tentazione di accontentarsi di qualcosa di meno, ad esso inferiore. La speranza si pone in questa linea, o rappresenta sul piano spirituale quello che i desideri significano a livello psicologico.
È importante notare che il tempo dell’attesa, o della non gratificazione dei desideri è un tempo pedagogico quanto mai prezioso, poiché in esso avvengono due fenomeni molto importanti: la purificazione e l’intensificazione dei desideri stessi. Da un lato, infatti, il tempo dell’intervallo (come lo chiama Godin[8]) purifica il desiderio, o costringe in qualche modo il soggetto a interrogarsi sulla qualità dei suoi desideri, o a chiedersi quale sia in realtà il desiderio, la domanda, l’attesa che è alla radice della sua tensione desiderante. D’altro canto il tempo della non gratificazione aumenta ancor più l’attesa del desiderio, lo rinforza, lo rende ancor più desiderato o ne fa sentir ancor più la mancanza. Proprio per questo, forse, Dio normalmente non gratifica immediatamente le nostre richieste, particolarmente la nostra attesa di lui, di veder il suo volto[9].
Mentre, al contrario, un’esperienza infantile di gratificazione regolare, da parte dei genitori, dei desideri del figlio finisce per “derubarlo” della capacità di desiderare e sperare. Una perfetta diseducazione.
Integrazione del vissuto
Abbiamo sottolineato che la speranza ha molto in comune con un certo ottimismo nei confronti della realtà. Tale atteggiamento non è semplicemente qualcosa di istintivo, come una dote di carattere, più o meno ereditaria, ma è anch’esso frutto di attenzione pedagogica, almeno in parte. Particolarmente, frutto di un lavoro paziente che ogni educatore dovrebbe fare con il giovane: l’integrazione del vissuto, della storia personale, per cogliere in essa i segni dell’amore dell’Eterno. Quando il giovane fa questa operazione, in modo il più possibile preciso e storicamente circostanziato, non può non guardare al proprio futuro con serena speranza. Il suo passato, infatti, gli mette tra le mani una verità consolantissima: Dio è Padre e Madre, lo è stato nella tua vita trascorsa, lo sarà per sempre!
La speranza, abbiamo sottolineato, non è previsione né calcolo, è invece la certezza, trasmessa dal passato, che Dio continuerà ad essermi Padre e Madre nel futuro. Come dire: la speranza si protende naturalmente verso il futuro, ma nasce nel passato. Questa sarebbe la vera riconciliazione con la propria storia.
Psicodinamica della speranza
Cerchiamo ora di vedere alcuni elementi circa la genesi e il dinamismo della speranza, in particolare quelli maggiormente in relazione con l’aspetto pedagogico che a noi ora interessa.
Dalla fede alla speranza, dalla speranza alla fede
La speranza non è attività che ha in sé le sue proprie origini, non si autogenera, ma nasce altrove, nasce dalle convinzioni di base della persona, dalla sua fede, di qualsiasi tipo essa sia. O, più semplicemente, dallo stile di vita della persona; in definitiva, uno spera in base a come vive. Di conseguenza, potrebbe anche non sperare niente e, invece di sperare, riempire cuore e mente di tensioni e preoccupazioni eccessive, di affanni e paure per il futuro; oppure sperare poco o in modo banale e appiattito, o ripetitivo e incolore, o sperare quel che sperano tutti o entro orizzonti molto meschini, o in base ad una logica solo umana e commisurata a sé, ai propri sforzi o alle proprie conquiste…
L’autentica speranza nasce da una convinzione forte, verace, kerigmatica, da un’adesione convinta della mente e del cuore e della volontà; è possibile a partire dalla fede, per intenderci, ma non si ferma lì, si spinge oltre, molto oltre. Sperare non è solo confidare che si realizzi quel che si crede, ma prender posizione rispetto ad esso e dunque dargli in qualche modo una configurazione personale e originale, vuol dire compromettersi con esso al punto di fare delle scelte conseguenti; così, se credo nella vita eterna, ad es., spero in essa quando faccio una opzione di vita, di stile di vita (di vocazione), che esprime concretamente una scelta di campo corrispondente, in cui cioè le cose di quaggiù (la mia fama, il mio benessere psicologico o materiale, il mio successo, ecc.) non rappresentano più ciò che è più importante e decisivo per la mia identità e per la mia felicità.
In altre parole, la fede è la certezza di poter scalare la montagna della vita, rappresenta l’attrezzatura adeguata, come il campo-base d’una spedizione d’alta montagna, mentre la speranza è la certezza che partorisce il coraggio di scalare effettivamente la montagna fino alla vetta, nonostante le difficoltà oggettive; coraggio più forte della paura di non farcela, e forza di spingersi al di là del teoricamente creduto, ma partendo sempre da lì, in forza dell’atto di fede.
La speranza è la fede personalizzata e creativa, anzi è la fantasia della fede, e d’una fede coniugata al futuro e protesa in avanti, è il suo ottimismo; ma soprattutto è una fede sempre più sicura di sé, perché sono sempre più chiari il suo fondamento e le sue radici…
La follia della speranza
Per questo la speranza, come già accennato, ha in sé qualcosa di meno logico, quasi di folle, o – ancora in relazione con la fede – è il suo versante illogico, irrazionale o, meglio, superrazionale, e tanto più rispetto alla ragione e logica semplicemente umane. E sempre per questo la speranza, oggi in modo particolare, è soprattutto ribellione ad un clima troppo appiattito sul momento presente; quasi potremmo dire che è guerriglia e resistenza contro un potere ideologico presuntuosamente tanto pessimistico quanto invadente.
In tal senso i nostri padri nella fede sperarono “contro ogni speranza” (cfr. Rm 4,18), ma anche certi testimoni moderni, come il già citato b. Charles de Foucauld, “folle” nella sua speranza di annunciare Cristo tra i musulmani e assieme profeta nell’indicare un problema che sta divenendo centrale e nel segnalare pure uno stile, un modo autenticamente cristiano d’affrontarlo[10] Frère Roger, che così diceva del progetto di Taizé: “Chi siamo noi? Una comunità fragile, appesa ad una speranza folle: la riconciliazione dei cristiani e di tutti gli uomini”. Così è per ogni giovane chiamato: accogliere una parola misteriosa come quella di Dio vuol dire sperare qualcosa di folle. Nell’autentica vocazione c’è sempre un po’ di follia, la follia di sperare qualcosa di più grande di sé.
Speranza e disperazione
E non solo questo; sempre in tal senso, forse, si potrebbe dire che non c’è opposizione assoluta tra speranza e disperazione, anzi, la speranza nasce nel momento e nel punto preciso in cui potrebbe nascere anche la disperazione, e la disperazione potrebbe diventare una tappa nel cammino verso la speranza.
Significativo in tal senso l’avvenimento di Pietro sul lago (cfr. Mt 14,28-33). Finché Pietro guarda fisso Gesù, crede in lui e non bada a se stesso, né calcola quel che fa in base alle sue forze …sta a galla, ovvero la sua fede innesca la speranza quasi automaticamente, senza intervalli di sorta, e la speranza stessa attua la fede; in qualche modo, realizza ciò che crede, si trova nell’orbita di quella forza che emana da Cristo. Poi, quando la tensione della sua fiducia cede, affiora la coscienza umana con tutta la corte delle sue paure, sensazioni, senso del limite, timore di fidarsi dell’altro, prudenza e realismo e quant’altro di politically correct, ed egli fatalmente soggiace alle forze umane: e allora Pietro ode ruggire la tempesta, sente fluttuare le onde, la speranza viene meno. Non incrocia più lo sguardo del Maestro, poiché guarda angosciato il lago, che lo sta effettivamente inghiottendo.
Ma proprio nella situazione di estremo disagio e paura, dalla fede debole ma sincera, o dal residuo di fede rimasta al capo degli Apostoli, a colui che dovrà confermare la fede dei fratelli, sale il grido supremo: “Signore salvami!”. Commenta Bianchi: “La fede, anche se esigua, anche la minima ipotizzabile, anche se ridotta alle dimensioni d’un granello di senapa, racchiude sempre in sé una potenza straordinaria…”. E dove e come si manifesta questa potenza straordinaria? Nella speranza, la quale, da questo punto di vista, è espressione della potenza della fede; la speranza di Pietro in questo momento è tutta riposta in Gesù, solo da lui in tale frangente drammatico si può attendere la salvezza. Per altro, continua Bianchi: “La vera icona del credente non è quella che raffigura Pietro che cammina sulle acque verso Gesù, ma quella in cui Pietro sta per affondare, gridando al Signore: Salvami, e il Signore lo afferra”[11].
Ma allora, alla luce di questo episodio evangelico, vi sono due cammini di nascita o di crescita della speranza cristiana:
– il primo sarebbe quello più …normale, quando la fede non incontra particolari difficoltà perché il Signore sembra rispondere alle attese, e la vita scorre secondo una certa logica (anche “religiosa”), a conferma dell’immagine che ci siamo fatta di Dio. È come se Dio ci consentisse …di camminare sulle acque, anche se noi forse non ci rendiamo del tutto conto della straordinarietà del dono che ci fa, e in ogni caso non ci chiede, così almeno ci pare, di prender posizione o di fare scelte decisive e particolarmente impegnative in riferimento alla fede stessa. In questi momenti non è difficile credere, e neppure sperare, ma forse la speranza non è grande cosa o non speriamo granché nei momenti in cui tutto va bene e ci sentiamo già sazi.
– Il secondo lo vediamo raffigurato in Pietro che sta andando sotto. E in Pietro che va sotto proprio perché è venuta meno la sua fede nel Maestro. In Pietro che è disperato di fronte alla prospettiva della sua fine. Ecco il paradosso: dalla disperazione può venire la speranza, ovvero, la speranza nasce nel momento stesso in cui potrebbe nascere la disperazione, o ancora, la speranza non è mai così forte come quando è passata attraverso il buio della disperazione, come quando il Signore, in altre parole, è l’unica salvezza, l’unica speranza. Così come la fede suppone o sopporta l’oscurità del dubbio. È un punto fondamentale per lo sviluppo pedagogico del discorso.
Speranza e vocazione
Come abbiamo intravisto, c’è un legame molto chiaro tra speranza e vocazione. Vocazione vuol dire qualcosa che resta sempre da realizzare; è la vocazione che disegna il futuro d’una persona, dandogli una configurazione precisa, e dunque la vocazione, il fatto d’esser chiamato, è anche vissuta inevitabilmente con più o meno speranza o apprensione. Spesso è proprio questo atteggiamento pregiudiziale, speranzoso o meno, a decidere in partenza d’una scelta in tal senso. Crisi vocazionale è sempre anche crisi di speranza, in una sorta di influsso reciproco tra le due crisi. E questo è piuttosto inquietante, poiché è fin troppo evidente la poca speranza che c’è in giro oggi, specie a livello giovanile. Ma è possibile vedere il legame tra speranza e vocazione osservando come poi vive di fatto la speranza il chiamato, dai diversi punti di vista del suo essere chiamato.
Colui che è chiamato dal Signore è pure chiamato a sperare, ovvero a lasciare la propria vita nelle mani dell’Eterno, è non preoccuparsi troppo di sé, della propria immagine, figura, risultati, carriera, promozioni…, di quel che mangerà e vestirà. La speranza del chiamato è abbandono totale, consegna di sé radicale, fiducia piena in Colui che ha promesso il centuplo già in questa vita. Il chiamato si gioca la vita su questa promessa, ci crede perdutamente e scommette di trovare ogni giorno questo centuplo promesso da Gesù, e ha gli occhi per scoprirlo e il cuore per gustarlo. Ci crede fino al punto di non preoccuparsi nemmeno della sua propria realizzazione affettiva; è sicuro che il suo vuoto affettivo sarà riempito, riempito da Dio. Quella speranza certa è già come un innamoramento, o conduce comunque in quella direzione, perché è già segno d’amore, di volontà d’amare e di libertà di lasciarsi amare. Per altro l’innamoramento di Dio da parte del vergine è qualcosa che su questa terra potrà esser vissuto solo nella speranza, non come possesso definitivo e un pochino presuntuoso, ma come attesa di Colui che non è ancora venuto, come nostalgia d’un amore grande, come rimpianto forse d’averlo qualche volta tradito, come tensione mai appagata, come fiducia che s’avveri quel desiderio che si porta in cuore, ciò in cui fermamente crede, come speranza.
Così potremmo dire di altre figure di chiamati, sempre nella prospettiva credente. Il martire, ad esempio, spera che la vita gli sarà ridonata in pienezza, sempre dall’Eterno, e che il suo sangue sarà seme fecondo. O il mistico–contemplativo spera di vedere, per dono di grazia, quel volto di Dio di cui ora intravede qualche lineamento. O l’apostolo spera che la sua debolezza o il suo fallimento saranno manifestazione di grazia; o l’annunciatore dell’evangelo spera che la Parola che annuncia è attesa, al di là dell’apparenza, e troverà posto nel cuore di chi ascolta… Senza speranza non c’è vita né vocazione cristiana!
Alcuni percorsi pedagogici
Vediamo infine alcune modalità educative, attraverso le quali educare alla speranza, e alla speranza vocazionale. Se c’è una speranza incatenata, come dice il nostro titolo e come probabilmente ognuno di noi potrebbe sottoscrivere, essa va liberata nella cultura di oggi e particolarmente nel giovane d’oggi. Nella certezza “…che questo nostro tempo ha una grande nostalgia di speranza, anche per i rischi insiti nelle rapide trasformazioni culturali, in particolare per la deriva individualistica, per la negazione della capacità di verità da parte della ragione, per l’offuscamento del senso morale”[12].
L’educatore, uomo di speranza
Anzitutto una condizione di base assolutamente imprescindibile: è indispensabile che l’educatore sia uomo di speranza. Per poter esercitare la speranza nei confronti dei giovani, prima di tutto, e assumere uno stile conseguente, speranzoso, nell’interazione educativa.
“L’amore educativo è sempre provocato dalla sfida della speranza”[13]. Ovvero, è necessario che l’educatore sia uno che crede nei giovani sinceramente; evitando la retorica, sovente confinante con l’ipocrisia, di chi chiama i giovani “la speranza del domani” e poi lui personalmente non ci scommetterebbe un euro su questa generazione di giovani.
Forse in questo oggi ci è richiesta una conversione nel modo di percepire i giovani, di valutarli, di apprezzarli (o meno), di comprenderli… Spesso noi adulti (e noi preti in particolare) abbiamo su questo delle precomprensioni. E quando parliamo dei giovani d’oggi ricorriamo a categorie interpretative negative e pessimiste, della serie: questa è una generazione ormai perduta, non è più come una volta, come ai miei tempi, è finita la generazione dei generosi e degl’intrepidi… Non è difficile immaginare quanto questo possa essere nocivo e micidiale nella pastorale giovanile e vocazionale: se io parto con una concezione negativa dei giovani d’oggi, o con la convinzione previa d’un disinteresse generale da parte loro nei confronti della prospettiva vocazionale, è chiaro che non mi ci metto nemmeno a fare animazione vocazionale, o la farò con scarsa convinzione, e non sarò per nulla credibile e convincente. Ma non per colpa loro… Forse è anche per questo vuoto di speranza che oggi l’operatore pastorale, prete o consa-crato/a, è meno educatore d’un tempo, o sente meno la sensibilità e la vocazione dell’educatore giovanile.
Chi vuole, invece, proporre percorsi educativi per liberare la speranza nei giovani deve prima di tutto “credere nei giovani, ossia stimarli, volergli sinceramente bene, sapersi adattare al loro passo, ma anche precederli quel tanto che basta per provocarli a camminare, non farsi prender dalla mania d’esser a tutti i costi come loro, ma esser così appassionato da farli innamorare di ciò che è vero e bello; cercare di capirli al di là delle stranezze e contraddizioni, ma anche scuoterli nella loro mediocrità e povertà di desideri, per ravvivare quella ricerca di autenticità che abita il loro io più segreto, anche se non lo sanno…
Se uno crede poco in questo ministero o nel mondo giovanile è cordialmente pregato di lasciar perdere, non si metta a far l’animatore, perché sarebbe un perfetto disanimatore”[14]. Al contrario, “un prete capace di infondere speranza è una grazia per la sua comunità”, e sarà anche genuino educatore-animatore[15].
Sperare è stimare l’altro
Quanto detto è importante non solo su un piano generale, ma soprattutto a livello del rapporto col singolo, spesso imprigionato proprio dall’educatore in uno schema percettivo-interpretativo chiuso e rigido, e quasi “costretto”, per quanto dipende dall’educatore stesso, a confermare l’idea che l’adulto s’è fatta di lui. Ecco ciò che va poi a incatenare la speranza.
Sappiamo bene, dalla psicologia della percezione, come l’idea che io mi faccio dell’altro condizioni inevitabilmente poi l’altro ad agire in modo tale da confermare l’idea che mi son fatto di lui[16]. Se voglio, dunque, che l’altro cambi, devo cominciare io a esser disposto a cambiare l’idea che ho di lui, ed esser capace di percepire in lui quell’amabilità oggettiva che è presente nelle profondità del suo io, e che permane al di là d’ogni condotta scorretta e d’ogni fragilità e peccato. Un’utopia ragionata è alla base di ogni cambiamento umano, d’ogni crescita. Ecco “perché la speranza è fondamentale: anzitutto perché consente di offrire fiducia ai ragazzi, confidando che essi possano perseguire il bene nonostante i tanti condizionamenti interni ed esterni – e Dio sa quanto questo atteggiamento di confidenza sia importante quando bisogna ripartire con slancio dopo un errore o un fallimento! – inoltre perché dona agli educatori un entusiasmo e un vigore operativo che qualificano il loro modo di essere e di agire”[17]. Sperare è credere e mandare all’altro il messaggio che potrà esser sempre più secondo quell’immagine ideale che si porta dentro in ogni caso. “Ciascuno cresce solo se è sognato”, dice il poeta Danilo Dolci[18].
Gesù con l’adultera è l’esempio concreto di come tale amabilità possa esser percepita, al di là delle trasgressioni e delle precomprensioni sociali (cfr. Gv 8,1-11). Un altro bell’esempio dei giorni nostri è stato proprio l’atteggiamento di Giovanni Paolo II nei confronti dei giovani: in tempi in cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo sull’attuale generazione giovanile ha inventato la Giornata Mondiale della Gioventù, riuscendo a stabilire un rapporto d’incredibile fiducia e intesa con gli stessi, con i risultati che sappiamo.
Ha una certa verità l’affermazione un po’ paradossale secondo la quale l’altro è come io lo percepisco. Se la speranza è anzitutto esperienza di accoglienza della propria persona, e fiducia-di-base, è fondamentale – specie per alcuni giovani che non hanno sperimentato abbastanza questa fiducia – vivere una relazione di profonda e incondizionata accoglienza con l’educatore.
“Giovane, chi t’ha scippato la speranza?”
Un punto fondamentale in questo percorso educativo verso la speranza è la presa di coscienza non solo della poca speranza oggi in circolazione (poca anche, e particolarmente, nel cuore dei giovani), ma soprattutto dei percorsi perversi che conducono alla perdita della speranza, o dei cattivi maestri in tal senso, più o meno riconoscibili come tali, o invisibili o travestiti.
Credo che sia molto importante provocare i nostri giovani ad aprire gli occhi, a rendersi conto di chi gli sta sottilmente scippando il bello della vita, di chi li sta portando pian piano alla sottile disperazione, quella elegante, da salotto, culturale o culturalmente corretta, presuntuosamente pessimista, come fosse un vanto, magari velata all’esterno da un atteggiamento d’indifferenza, di sufficienza, quasi di superiorità nei confronti di chi ancora s’illude e spera…
È la pazzia lucida del clima culturale odierno, non più arrembante e intraprendente, o proteso a difendere posizioni o a conquistare adepti, ma semplicemente indifferente, anemico, freddo, disilluso, malinconicamente mediocre, senza più fremiti e nostalgie, anzi irrisorio nei confronti di chi ancora crede che ci sia una verità e sogna di scoprirla. L’ideale etico supremo di questa pseudocultura, infatti, è l’imperturbabilità di fronte alla cosa e all’avvenimento, l’indifferenza dinanzi alla vita e alla morte, il rifiuto del passato e la tendenza a dimenticare, il non coinvolgimento nei confronti dell’altro e della storia, l’equidistanza e sostanziale non scelta davanti alle alternative della vita per illudersi d’evitarne il dramma[19], come una neutralità che si vanta d’esser moderna e tollerante, e in realtà dice solo la confusione della mente e conduce all’inerzia del cuore, alla morte d’ogni passione, d’ogni desiderio, d’ogni relazione, d’ogni speranza. “Il saggio non piange e non ride”, diceva infatti Spinoza; esattamente il contrario di quanto afferma Agostino: “Chi crede in Dio, …piange e ride”[20].
Quest’atmosfera culturale, stoico-nihilista-radicale, o postcristiana-postilluminista-postmarxista persino, sta facendo danni incredibili alla mente e al cuore della gioventù odierna. Potremmo dire: sta uccidendo la speranza. Che sembra sparita anche nel linguaggio e nella dialettica giovanile. È proprio esagerato dire che non solo la foca monaca o una certa specie di tartarughe oceaniche, ma pure la specie “giovani”, in tal modo, rischia di sparire?
Verrebbe da dire e da gridare: “Giovane, attento a chi ti sta scippando la speranza…, attento perché se ci riesce ti sottrae la vita, ti toglie il gusto di vivere, ti rende la vita grigia e incolore, ti uccide con una morte lenta e indolore…, attento perché tale cultura si diffonde ovunque, penetra dappertutto, come un virus maligno; questi falsi maestri potrebbero esser molto vicini a te, ed esser riconoscibili non solo in personaggi che esplicitamente diffondono la brutta notizia, l’antievangelo della disperazione come modo normale di vivere, ma potresti anche ritrovarli in chi ti sta accanto, nell’insegnante, nell’amico, in discoteca, nel computer, nel messaggino, nel cantante un po’ suonato e nel programma televisivo imbecille (“l’isola dei disperati”), nel vicino di casa, nella persona in autorità, nel collega di lavoro, persino nei genitori, addirittura nell’educatore, financo nel prete… Certo, anche nel prete quando non è contento della sua vita e non sa più vivere con entusiasmo e creatività la sua propria vocazione; quando gode solo se è al centro dell’attenzione e va in crisi se nessuno, come dice lui, lo considera e apprezza; quando non ha più fiducia nella gente (e forse neanche nella grazia) e sembra trovar gusto a delineare tempi di sventura (“dove andremo a finire di questo passo?”); quando si rassegna a gestire l’esistente e sembra chiudersi nel tempio, tutto compito e solenne nelle sue liturgie, ma senza più il senso vivo e palpitante del mistero che annuncia, nella speranza, “cieli nuovi e terre nuove”; quando non ha più il coraggio della profezia e diventa l’uomo dei compromessi, che confida negli appoggi umani, mostrando di cercare soprattutto il proprio benessere e una vita comoda; quando diventa troppo prudente e timoroso di rischiare e si lascia dominare dalla paura dei propri limiti e dell’insuccesso; quando si ritrova spesso sulla bocca quella parola orribile per un credente: “ormai”, che suona come una parolaccia (o bestemmia), e ritiene “ormai” d’aver fatto tutto il possibile e l’impossibile; quando nella parrocchia tutto sembra funzionare in maniera fin troppo normale, ma la Parola è rara e il Pastore non ha più visioni, anzi, manco s’accorge che 99 pecore se ne sono andate e n’è rimasta solo una…
Non voglio esser pessimista (non sarebbe proprio il caso in questo contesto), ma solo richiamare un po’ provocatoriamente alla terribile ma reale possibilità di divenire anche noi voce di questa cultura della disperazione. E, al contrario, indicare, come efficace percorso pedagogico per liberare la speranza, proprio il richiamo ai nostri giovani ad aprire gli occhi e drizzare le antenne per rico-noscere attorno a sé i vari profeti di sventura che vorrebbero incatenare la loro speranza e i loro sogni. Una cosa è certa: che il giovane non può restare insensibile di fronte a questa eventualità, si ribella con tutto se stesso di fronte al fatto che altri gli possano sottrarre la libertà di costruirsi il suo futuro.
Cammino della fede in Gesù Risorto e crescita della speranza
Se la speranza viene dalla fede, si cresce nella speranza nella misura in cui si matura nella fede, nell’adesione al progetto di Dio. Dunque la normale vita cristiana dovrebbe essere cammino di maturazione nella fede e, proprio per questo, anche nella speranza. Per questo dovrebbe esser maggiormente esplicitata la dimensione della speranza fondata sulla certezza pasquale, nella celebrazione, nella liturgia, nella catechesi, nella testimonianza, ecc… Per ribadire che una fede che non spera non è fede cristiana, ma semplice ideologia, più o meno spendibile; così come una speranza che non crede o che non crede sufficientemente, non è speranza cristiana, è debole perché non è fondata sulla morte e resurrezione di Gesù, e finisce per essere stranamente simile (e pronta ad esser contraddetta) alle previsioni del tempo o, ad un livello inferiore, ai tarocchi della cartomante.
Fu interessante qualche decennio fa, in tal senso, il grido accorato del giornalista e uomo-di-fede Accattoli: “Chiesa, uomini di Chiesa, diteci e annunciate più spesso e con più vigore che Cristo è risorto dai morti, e noi siamo chiamati a risorgere con lui!”[21]. Forse è un grido ancora attuale. Il cristiano è un “narratore della speranza”[22], uno che sente l’esigenza di rendere ragione della speranza che è in lui e che non viene da lui (cfr. 1 Pt 3,15), ma da Gesù risorto o che è Gesù risorto, speranza del mondo “in questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena”[23]; il cristiano è uno che cresce nella fede nella misura in cui racconta tale speranza, infondendola negli altri. Per questo dev’essere anche consapevole che solo il cristiano può dare un messaggio di speranza all’umanità, solo il credente in Gesù risorto può dire che la morte non ha l’ultima parola sulla vita dell’uomo, solo lui può annunciare la speranza di non morire, che è in realtà l’unica, vera speranza che c’è nel cuore di ogni uomo, la speranza che tutti coltivano dentro di sé, anche chi la nega o la irride.
Proprio per questo la prospettiva della speranza era uno degli elementi più significativi e intensamente vissuti nella Chiesa degl’inizi. Non può assolutamente passar in second’ordine oggi, nella banale, illusoria e confusionaria pretesa che “le religioni son tutte uguali”…. Occorre inventare e reinventare una pastorale della speranza cristiana, quale vera e propria speranza umana! Per questo oggi viviamo tempi di grazia, non si stanca di sottolineare Marco Guzzi[24].
Riconoscere la voce che chi-ama
La vita dell’essere umano è una Voce che chiama, anzi che chi-ama. Dio mi ha chiamato dal nulla, in tal senso. Fra miliardi di essere possibili, egli ha scelto e chiamato me, preferendomi alla non esistenza. La mia vita è costituita da quella chiamata. La mia vita continua perché egli continua a chiamarmi, impedendomi di ricadere nel silenzio del nulla da cui fui tratto.
Questa educazione a riconoscere Dio come voce chi-amante è fondamentale in un contesto culturale-sociale sempre più segnato da un certo orfanaggio, a causa di genitori assenti, poco significativi, spariti, mai stati presenti…, oppure fin troppo presenti e supergratificanti, quasi ossessivi o possessivi, ma sostanzialmente incapaci di “chiamare”. Chiamare significa far sentire all’altro (al chiamato) la sua propria dignità e importanza, per affidargli un compito all’interno d’una relazione; vuol dire riconoscergli una singolarità e irripetibilità uniche, un ruolo e un qualcosa che solo lui potrà fare. È metter insieme l’affetto e la stima, che sono i due ingredienti della vocazione. Se nessuno ti chiama vuol dire che non conti niente per nessuno. Oggi sembra che vi siano più genitori (o educatori) in grado di rispondere ai loro figli più che di “chiamarli”; più propensi a soddisfarli che non a provocarli; quanto mai disinvolti nel concedergli quel che vogliono e per nulla impegnati a far loro comprendere la dignità e positività che si nasconde dietro la responsabilità.
Ecco perché diventa indispensabile, ancorché a volte possa risultare faticoso e complesso proprio a causa di queste esperienze familiari, recuperare la percezione di Dio come dell’Eternamente Chi-amante, e della sua chiamata come del gesto che più d’ogni altro esprime l’amore di cui il chiamato, il giovane, è oggetto. E di fatto chiamare il giovane con lo stesso stile di Dio, provocandolo a vivere con responsabilità il suo essere credente, ad assumersi impegni nei confronti della comunità, a giocare i suoi talenti per la crescita degli altri, a non restare chiuso in quell’individualità narcisista e autospeculare che è sorda ad ogni voce e ad ogni vocazione. Non c’è modo migliore di preparare un giovane a lasciarsi chiamare da Dio e a riconoscere la divina voce chiamante del chiamarlo di fatto, o frequentemente, a svolgere un compito, piccolo o grande che sia, in forza della sua fede. La vocazione non è forse “la risposta di ciascun mattino ad un appello sempre nuovo”? [25].
Offrire nella catechesi e nel cammino di fede, personale e comunitario, la possibilità di fare quest’esperienza significa aiutare il credente a sperare, ad aver cioè la certezza che questo Dio, se mi ha chi-amato dal nulla e ha continuato a chi-amarmi ogni giorno della vita, continuerà a chi-amarmi per sempre, cioè a prendersi cura di me, a ritenermi prezioso ai suoi occhi, figlio pre-diletto, essere unico-singolo-irripetibile…, e la certezza, pure, che solo nella risposta e nell’accoglienza della sua chiamata potrò trovare la mia piena realizzazione, la vera felicità, l’autentica libertà.
Sperare contro ogni speranza
La speranza, dunque, è espressione di fiducia, fondamentalmente viene dall’esperienza dell’essere stato amato. Che non crea solo certezza di poter ancora contare sull’amore, ma cambia il criterio d’approccio alla vita, all’altro, alla relazione in genere, alle decisioni, piccole o grandi… Tale criterio non sarà più dettato unicamente o prevalentemente dalla ragione, dal buonsenso, dal rigore logico o dal calcolo realistico delle proprie capacità.
S’impara a sperare uscendo, in forza della certezza d’un amore, dallo schema puramente razionale, ed entrando in quello della fiducia, dell’abbandono, che porta a fidarsi anche contro l’evidenza. Solo questa catechesi introduce nella dimensione vocazionale della vita. E di questa catechesi ha bisogno il giovane d’oggi. In questi anni abbiamo molto insistito sull’idea di vocazione come qualcosa di naturale, perché fondato su una concezione elementare della vita, come dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato[26]. Ma è anche vero che questa disposizione “naturale” non viene tanto …naturale al giovane d’oggi, nella cultura odierna. Va messa davanti e dimostrata, sollecitata e provocata, va provocata esattamente con un’educazione a …sperare contro ogni speranza, al di là della logica solo umana, rassicurativa e in realtà traditrice.
La potremmo chiamare la catechesi evangelica del “gettare le reti sulla sua parola” (Lc 5,5). È una catechesi che non è solo catechesi, poiché significa provocare a metter in atto gesti, a fare decisioni sulla falsariga dell’atteggiamento del pescatore Pietro, dopo una notte fallimentare di pesca. È il passaggio dalla preoccupazione di garantirsi e cautelarsi, o dalla pretesa di fare solo scelte assolutamente sicure e solo quelle che porteranno infallibilmente all’obiettivo inteso, al coraggio di buttarsi o di avventurarsi in imprese anche un po’ ardite e forse “impossibili”, in cui più che la certezza della propria capacità vincente c’è la sicurezza del punto d’approdo, di qualcuno che m’attende e m’attira, dandomi di camminare verso di lui, di gettarmi nel vuoto solo sperando di finire tra le sue braccia. Come racconta questo episodio.
Un bambino si ritrova solo in una casa ai piani alti d’un edificio mentre, all’improvviso, scoppia un violento incendio; dall’esterno la madre angosciata grida al piccolo di buttarsi dalla finestra nel telone prontamente steso dai pompieri: il piccolo, terrorizzato, sente la voce della madre, ma non riuscendo a vedere tra il fumo la madre non ha il coraggio di decidersi e buttarsi. Finché l’istinto materno non suggerisce alla donna le parole giuste: al bambino che oppone ancora un sempre più disperato “mamma, non ti vedo, dove sei?”, la madre grida: “ma ti vedo io…”. E il piccolo si butta, a occhi chiusi, rassicurato dalla certezza dello sguardo materno, come se questo sguardo lo pilotasse e proteggesse, impedendogli di sfracellarsi al suolo, e si salva….
Viene spontaneo accostare a questo episodio il commento di Kierkegaard: “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una Voce che grida: Gèttati, ti prenderò io tra le mie braccia!”, con il suggestivo commento di Forte: “è sull’orlo di questo abisso che si affacciano le domande inquietanti: e se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio del nulla? Credere, e sperare, è resistere e sopportare sotto il peso di queste domande; non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile Amante che chiama”[27].
La speranza è uno di questi segni, forse il più chiaro segno d’amore, poiché espressione della fiducia piena accordata a un Altro, all’amato, una fiducia così grande che può generare la forza di sperare contro ogni speranza, ovvero di muoversi in una logica superrazionale, oltre i calcoli e le paure, che producono solo scelte minimali e riduttive. Cosa diventa la vita dell’uomo se non impara mai a saltare la misura razionale? Quale futuro si offre a un giovane che non viene mai provocato ad andare al di là del calcolo umano, apparentemente prudente, in realtà pauroso? O che fa le scelte solo in base alle sue attitudini (e relativi tests attitudinali), o in base ai gusti soggettivi o alle pressioni sociali o alle tendenze della cultura o addirittura del mercato?
È importante allora far capire al giovane quanta miseria ci sia in una vita che s’abbandona al calcolo e non alla speranza; o che si preoccupa di difendersi invece d’espandersi; che s’accontenta di ripetersi invece di scoprire le enormi risorse che possiede…
“Chi non perde la testa per amore, non ha la testa(e neanche il cuore)”
No, non l’ho trovato scritto in una confezione di baci Perugina. In fondo la speranza è espressione d’amore. E non esiste miglior percorso pedagogico per liberare la speranza al di fuori d’un cammino di libertà affettiva, con le sue fasi canoniche di “liberazione da” e di “libertà per”. Non mi posso dilungare su questo, ma vorrei almeno sottolineare un fenomeno strano, oggi sempre più mestamente frequente: il fenomeno di ragazzi incapaci di innamorarsi, ovvero che s’innamorano solo apparentemente, magari perdutamente, per quel che sentono dentro e fan vedere all’esterno, ma non sono poi capaci di restare nell’amore.
Innamorarsi significa amare senza condizioni e restrizioni, nemmeno di tempo; accogliere incondizionatamente l’altro, non per un calcolo interessato, ma attratti dalla bellezza totale del tu, una bellezza che non è solo esteriore, e un’attrazione che non è solo dei sensi, ma di tutto l’essere, misteriosa, che determina la consegna totale di sé nelle mani dell’altro, e che avrà bisogno d’un tempo lungo, d’una vita intera per manifestarsi in tutta la sua fecondità. È il mistero dell’innamoramento, come d’un colpo di testa intelligente o un perder la testa per amore, che ti fa vivere una delle cose più belle della natura umana; o la condizione perché esploda la bellezza di quel che siamo, ciò che ci rende simili a Dio, l’Innamorato per eccellenza, il Creatore che ha perso la testa per la creatura.
Ma l’innamoramento potrebbe anche svanire nel nulla, esser solo un colpo di testa, senza seguito, senza libertà di perdersi nell’altro, senza coraggio di scrutare il mistero (del tu e dell’amore), senza pazienza e costanza in questo cammino, senza speranza! Eccoli, infatti, questi adolescenti “dalle braghe basse” diventare specialisti in relazioni mordi e fuggi, in rapporti precoci, in amori subito bruciati, in grandi quanto labili trasporti emotivi, in passioni virtuali, in dipendenze reciproche e alla lunga asfissianti, in legami inconsistenti perché costruiti sulle cosiddette aspettative irrealistiche, ovvero sulla pretesa che l’altro “debba” soddisfare pienamente le mie esigenze d’affetto, “debba” sapermi riempire…, oppure legami futili perché costruiti sulla semplice ricerca del piacere, magari senza trovarlo perché senza nessun disegno sul futuro, e ancora una volta senza speranza[28]… È mai possibile che due ragazzi vivano il tempo dello scambio d’affetto, della scelta d’amore, della vita di coppia, del fidanzamento chiusi in se stessi, senza altro ideale che quello di implodere su di sé, di annoiarsi appiccicati l’uno sull’altra, di essere sempre (s)vestiti come impone la moda, cercando di autoconvincersi che …mostrare l’ombelico sia operazione di alto estetismo o dia sensazione di chissà quale emancipazione, o preoccupati di raccontare conquiste, magari fasulle, o di farsi vedere, pensando d’esser interessanti?
Se lo chiedeva anche mons. Sigalini in una catechesi durante l’ultima GMG a Colonia, aggiungendo: “Essere la generazione dei pantaloni bassi non significa che non possiate inventare un nuovo modo di costruire famiglie fondate sull’amore di Dio espresso dal sacramento del matrimonio, della grazia per sempre, o che non sappiate vivere una castità nuova, inusitata, ma tanto delicata e bella, perché è una forza interiore che vi dona equilibrio di corpo e di spirito, serenità di rapporto; forza di progettazione del vostro futuro e non solo preoccupazione di strappare soddisfazioni al presente; gusto di preparare una vita a due, fatta di tappe progressive in cui anche il rapporto sessuale si trova a un certo punto del cammino, è anch’esso oggetto di speranza, di qualcosa che va preparato con cura e atteso con trepidazione… Il divertimento, il tempo libero, la propria bellezza, la propria corporeità, il gusto delle cose, dei contatti, della festa…, tutto ciò è da recuperare, ogni giorno, facendo in modo che diventi espressione della propria persona e, in particolare, della propria disponibilità ad amare”, del desiderio di aprirsi alla bellezza dell’altro accogliendola in sé, per stabilire un rapporto duraturo, per sempre, anche quando questa bellezza avrà perduto i connotati esteriori, nella speranza che allora potrà meglio emergere la bellezza interiore, quella che nessuna età o vecchiaia o malattia potrà mai portare via. I veri adoratori del Dio di Gesù Cristo sono quelli che recuperano fiducia in se stessi, nel futuro, nella vita. Uniscono la mente al corpo, la speranza al presente, il desiderio alla realtà. Sanno credere e trasformare la vita in quello in cui credono. Hanno il coraggio di rifiutare le banalità, di non fare più le cose che non soddisfano sino in fondo”[29].
Perché poi è questo il problema: ritrovarsi inappagati e traditi, o incapaci di godere e bisognosi di ulteriori e stravaganti eccitazioni. Un tempo la Chiesa tuonava contro i divertimenti illeciti: così ci raccontano cronache di vecchi parroci e delle loro prediche furenti. Oggi dovremmo denunciare il contrario: il non divertimento o i divertimenti imbecilli, ovvero l’incapacità di divertirsi davvero, l’appiattimento dei desideri, la povertà dei gusti, la pochezza cerebrale dei tanti forzati del divertimento massificato e massificante, che non hanno mai sperimentato l’autentica gioia che appaga il cuore, e alla fine sono stanchi e arrabbiati o finiscono per divenire come “pappagalli spaventati a morte di non esser tutti eguali” (Jewett). È solo l’amore fedele e pieno di speranza per il tu, per un tu che non cambieresti con nessun altro, che gratifica in profondità l’essere umano e libera in lui la speranza, dandogli il coraggio di osare e fare grandi scelte.
Potrà sembrare strano a qualcuno, ma il cammino della maturazione affettiva, dell’educazione al colpo di testa, è anche cammino autenticamente vocazionale.
Sperare in tempi di disperazione
Come abbiamo accennato più sopra, la speranza non nasce solo come conseguenza immediata e spontanea della fede, ma anche, e forse soprattutto, quando la fede e la vita si trovano dinanzi al fallimento, alla crisi, all’asimmetria, alla sensazione d’una non corrispondenza tra ciò che si crede e ciò che sta accadendo… Un po’ come successe a Pietro quella volta sul lago, mentre andava sotto. Ebbene, la mia ipotesi è questa: la speranza nasce nel momento stesso e nel medesimo punto in cui potrebbe nascere la disperazione.
Dunque il momento o i momenti in cui la fede viene meno e con essa la speranza, per i più svariati motivi, per le nostre paure o per l’influsso della cultura circostante, possono diventare momenti pedagogici, germinativi e fecondi, situazioni di sviluppo della speranza stessa. Quando l’essere umano si trova dinanzi alla disperazione, o sente salire dentro di sé il grido disperato, quello potrebbe essere anche il grido della speranza, il momento di nascita della speranza, e dunque momento provvidenziale, da interpretare con intelligenza da parte dell’educatore, con tatto e discrezione, ma anche sapendo che mai come in quell’istante la persona è disponibile ad aprirsi a una speranza, perché ne ha bisogno estremo; perché le si sta spalancando davanti l’abisso del niente, del vuoto, della fine, della morte, del non senso, dell’insuccesso, della sconfitta, della sofferenza, dell’ingiustizia, della morte… Mai la domanda di senso e la ricerca di speranza sale imperiosa nel cuore umano come in queste circostanze!
Non facciamo mancare, allora, la nostra presenza in quei momenti terribili. Nei nostri tanti ministeri, attenti alle più svariate necessità, che non manchi il ministero della consolazione, o della speranza. Non commettiamo l’errore di tanti operatori pastorali che hanno paura di affrontare le persone in questi momenti, o che hanno solo parole di circostanza in questi frangenti, che non conoscono, molto probabilmente, quella speranza che può nascere solo dal suo contrario, o che ha il coraggio di confrontarsi con esso, con la disperazione!
Se dunque oggi viviamo in una cultura della disperazione, questo potrebbe essere addirittura un vantaggio, o costituire un terreno che attende con ansia e impazienza il seme della speranza, quel seme che può far nascere in cuore anche una disponibilità vocazionale, la speranza di esser finalmente se stessi, secondo il progetto e la speranza di Dio!
Sperare ove e quando la vita è fragile
Il documento della CEI indica alcuni ambiti della vita umana ove la testimonianza della speranza cristiana si rende particolarmente importante. Uno di questi è costituito dalle forme e dalle condizioni di esistenza in cui emerge la fragilità umana. L’apparentemente onnipotente (come vorrebbe farci credere qualcuno) società tecnologica non elimina la fragilità, ma la nasconde o tenta di nasconderla, ignorandone sia il peso di sofferenza che il valore e la dignità. Invece “la speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei casi di fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, cammino della vita”[30].
Sarà dunque indispensabile educare a questa attenzione, a questa mentalità, perché divenga vera e propria cultura rispettosa dell’umano, sensibilità generale illuminata dalla speranza cristiana, stile di vita verso il proprio essere creatura fragile e nei rapporti con ogni creatura segnata dalla medesima fragilità. In concreto “solo una cultura che sa dar conto di tutti gli aspetti dell’esistenza è una cultura davvero a misura d’uomo. Insegnando e praticando l’accoglienza del nascituro e del bambino, la cura del malato, il soccorso al povero, l’ospitalità dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, la protezione dell’anziano, la Chiesa è davvero maestra d’umanità”[31] e segno di speranza, terreno fecondo ove possono fiorire vocazioni aperte alla speranza.
Abbiamo detto che questo nostro tempo ha una grande nostalgia di speranza. Aggiungiamo ora che oggi c’è molta più domanda e attesa di Dio di quante siano le possibilità di trovare risposta[32]. Crediamolo al di là dell’apparenza contraria, perché tocca proprio al seguace di Gesù Risorto riconoscere nostalgia, domanda e attesa, perché trovino risposta in Gesù Risorto, speranza del mondo! Molto meglio, alla fine, esser derisi con la nostra speranza e per la nostra speranza, che esser accolti ed elogiati dalla cultura che gioca ancora col fuoco del nichilismo e della dissacrazione, accodandoci al generale e squallido disincanto.
Note
[1] Interessante quanto dice sull’argomento, da un punto di vista pedagogico, M. PACUCCI, nel suo Dizionario dell’educazione, Bologna 2005, pp. 401-402; 666; 911-912.
[2] Dall’Introduzione di mons. B. FORTE al Convegno Diocesano della chiesa di Chieti-Vasto del gennaio 2006.
[3] Anche Dio, se spera, spera proprio in tal senso. Spera la nostra salvezza, e la sua speranza è legata alla nostra libertà; proprio perché siamo liberi la nostra redenzione non è una certezza, per quanto dipende da noi, ma una speranza per Dio. Il quale pure si abbandona alla nostra libertà, e confida che ci lasceremo voler bene e redimere.
[4] L. GIUSSANI, Dalla speranza alla pienezza della gioia, in idem, Porta la speranza. Primi scritti, Genova 1997, p.160.
[5] Sono tantissime in tal senso le invocazioni nei Salmi. Ad es. 22,5; 25,3; 25,5; 27,14; 31,25; 33,18; 33,22; 37,7: 37,9; 37,34; 38,15…
[6] O è il caso, da un punto di vista vocazionale, dei primi membri della mia Congregazione (i Figli della Carità Canossiani), i quali, per una serie singolare di circostanze, non arrivarono mai, per circa un secolo, a superare il numero fatidico di due; finché non rimase uno da solo, e sembrò la fine. E fu invece l’inizio della ripresa… Grazie al coraggio di sperare contro ogni speranza di questi fratelli! Una bella lezione per chi oggi non sa leggere da credente la crisi vocazionale.
[7] O “se il cervello si è troppo abituato a considerare stabile ogni spazio circostante” (G. PRESSBURGER).
[8] Cfr. A. GODIN, Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Brescia 1983, pp.181-193.
[9] “Il vero desiderio – dice Lévinas – è quello che il Desiderato non sazia ma rende più profondo” (E. LÉVINAS, La traccia dell’altro).
[10] “Ecco 11 anni e mezzo che sono qui, solo francese, solo cristiano, in un eremo a 400 o 500 metri da un raggruppamento tuareg circondato da qualche coltivazione… Come passo il tempo? A pregare il buon Dio; a creare relazioni e far progredire materialmente, intellettualmente i miei vicini; a fare dizionari, grammatiche, raccolte di testi di lingua tuareg che permetteranno ai francesi , missionari, militari, civili, laici d’intrattenere rapporti facili con la popolazione tuareg. Non faccio nessun discorso, nessuna predica, nessuna scuola; non parlo che a tu per tu; consiglio a tu per tu, dando a ciascuno quello che credo sia capace di ricevere, ad alcuni senza consigliare niente e accontentandomi di fare elemosine; non è la semina del Vangelo, è il dissodamento preparatorio. I miei giorni passano in fretta, sono molto felice…” (CH. DE FOUCAULD, all’amico Louis-Joseph del Balthasar, 7/III/1916, in “Notizie delle Fraternità”, delle Piccole sorelle di Gesù, suppl. al n.13 del 2005, p.60).
11)
[11] E. BIANCHI, L’incredulità del credente, in “La Rivista del clero italiano”,2(1993) pp. 114-117.
[12] CEI, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, Roma 2005, 13.
[13] PANUCCI, Dizionario, voce “sperare”, 666.
[14] A. CENCINI, Vangelo giovane 2. Compendio di animazione giovanile e vocazionale, Roma 2005, pp. 49-50.
[15] S. PAGANI, Tra Gesù e la gente. Il prete, uomo per questo tempo, Milano 2005, p. 22.
[16] Cfr. A. CENCINI-A. MANENTI, Psicologia e formazione. Strutture e dinamismi, Bologna 2002, pp. 176-180.
[17] PANUCCI, Dizionario, 666.
[18] Citato in F. SCAPARRO, Dieci sogni per un futuro possibile, in “Avvenire” 31/XII/2005, p. 29.
[19] Cfr. CEI, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, 8.
[20] S. AGOSTINO, Esposizione sul Salmo 93, 2.
[21] Cfr. L. ACCATTOLI, La speranza di non morire, Milano 1988.
[22] Ibidem, 10, p.31.
[23] PAOLO VI, Testamento.
[24] Cfr., tra i vari suoi testi, M. GUZZI, Cristo e la Nuova Era, Milano 2000, e Darsi pace. Un manuale di liberazione interiore, Milano 2004.
[25] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 26a.
[26]Ibidem, 36b.
[27] B. FORTE, Piccola introduzione alla fede, Cinisello B. 1992, pp.18-19.
[28] È il caso di quel giovane che cercò con insistenza un colloquio psicoterapeutico per problemi d’impotenza con la sua ragazza. Ragazza, appurai già nel primo colloquio, che aveva solo conosciuto poco tempo prima in discoteca, della quale conosceva solo il numero telefonico, di cui ignorava tanti aspetti pure significativi (gusti, convinzioni, interessi, visione della vita…), e certamente lui non aveva alcuna intenzione di stabilire alcun rapporto serio e definitivo con lei, nessuna prospettiva aperta al domani; semplicemente era una “che ci stava”, e lui ne approfittava. Non mi fu difficile fargli notare che su queste basi è piuttosto difficile allacciare una relazione, e una relazione che pretende andar subito al rapporto sessuale, rapporto che ha le sue leggi ed esigenze. E che forse la sua impotenza era come una reazione o una sorta di vendetta del suo organismo psicofisico che si rifiutava di prender parte a un rapporto in cui l’altro non era considerato nella sua propria dignità, un rapporto più simile a un monologo che ignorava l’altro e lo usava semplicemente, senz’alcuna visione sul futuro né intenzione di “restare nell’amore”! (cfr. CENCINI, Vangelo giovane2, pp. 75-80).
[29] D. SIGALINI, Seguire la stella, anche sulla strada del ritorno, in “Avvenire” 19/VII/2005, p.18.
[30] CEI, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, 15c.
[31] Ivi
[32] Cfr. SIGALINI, Seguire.