Evangelizzazione e Comunità
Ci introduciamo con una considerazione sul Documento preparatorio per il prossimo Sinodo, che aiuta ad entrare direttamente nel tema che ci è stato affidato: «Varie ricerche mostrano come i giovani sentano il bisogno di figure di riferimento vicine, credibili, coerenti e oneste, oltre che di luoghi e occasioni in cui mettere alla prova la capacità di relazione con gli altri (sia adulti, sia coetanei) e affrontare le dinamiche affettive. Cercano figure in grado di esprimere sintonia e offrire sostegno, incoraggiamento e aiuto a riconoscere i limiti, senza far pesare il giudizio» (I,2). Quasi a voler dare corpo a questo rilievo, il Documento, quando parla delle “figure di riferimento”, sostiene che «il ruolo di adulti degni di fede, con cui entrare in positiva alleanza, è fondamentale in ogni percorso di maturazione umana e di discernimento vocazionale. Servono credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vigorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimento» (II,2).
La descrizione fatta possiede alcune importanti indicazioni per entrare più direttamente nel tema dell’accompagnamento; soprattutto perché è richiesto che in questa fase «si tratta di favorire la relazione tra la persona e il Signore, collaborando a rimuovere ciò che la ostacola» (II,4). La prospettiva di questo accompagnamento diventa ancora più impegnativa nel momento in cui la si col loca nell’orizzonte dell’evangelizzazione, che costituisce la missione peculiare della Chiesa e ne determina la sua stessa natura.
La Chiesa vive con l’impegno quotidiano dell’evangelizzazione; se non fosse così verrebbe meno nella sua stessa essenza e priverebbe il mondo della parola di amore e speranza che il Vangelo comporta.
Accompagnare, tra l’altro, richiede un’attenzione del tutto particolare alla persona con cui si fa un tratto di strada insieme. Richiede l’ascolto e quindi il silenzio necessario perché l’ascolto possa cogliere l’intimo e la profondità di chi parla. In questo contesto è importante possedere la consapevolezza che quando si cammina insieme ci si accompagna reciprocamente e il movimento, pertanto, non è mai a senso unico. Papa Francesco nella Evangelii gaudium dà un’indicazione importante in proposito, quando scrive: «Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada» (EG 46).
Insomma, chi accompagna è anche accompagnato dalla persona che accompagna; e non potrebbe essere altrimenti. Il cammino lo si compie insieme, oppure è destinato ad essere inefficace. Accompagnare nel processo di evangelizzazione, inoltre, pone in primo piano la categoria di testimonianza con tutta la sua valenza significativa. Tornano quasi spontanee alla mente le parole di Paolo VI nella Evangelii nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (EN 41).
Insomma, accompagnare non è un percorso a senso unico; esso comporta la saggezza di chi sa di avere una responsabilità per condurre una persona verso la libertà. Ciò significa rendersi partecipe di un movimento dinamico che permette di coniugare la verità del Vangelo con l’esigenza profonda racchiusa nell’intimo di ogni persona.
In altre parole, accompagnare equivale a condurre la persona nel più profondo della propria esistenza, per scoprire la presenza di una chiamata alla verità, chiave di volta per realizzare la libertà, che permette di andare oltre noi stessi per affidarsi pienamente a un piano misterioso di Dio che porta senso e significato all’esistenza personale. Alla fine, siamo posti dinanzi alla scoperta di una vocazione vera, genuina, che spalanca gli orizzonti perché permette di scoprire qualcosa che, rinchiusi in se stessi, non si sarebbe mai neppure immaginato di poter realizzare.
1. Due icone bibliche
Tra i tanti testi con cui il Nuovo Testamento esprime l’esigenza di trovare persone capaci di accompagnare nella strada dell’annuncio del Vangelo, mi soffermo su due in modo particolare. Più di altri, forse, possono aiutare a comprendere uno stile, tra i tanti proposti, con cui siamo chiamati ad accompagnare in modo significativo i giovani oggi. La scelta della Parola di Dio mi è di particolare aiuto nel trattare questa tematica, soprattutto per sfuggire alle necessarie distinzioni che un tema come questo prevede e impone. Penso, più direttamente, alle condizioni ecclesiali, culturali, sociali che determinano la differenza degli approcci, mentre la Parola di Dio consente di avere un orizzonte propositivo che va oltre questi schemi, perché tocca ognuno nel profondo del proprio cuore e si presenta come un’esperienza universale.
1. Il primo testo ci riporta alla Lettera agli Ebrei. L’autore sacro ha un’espressione lapidaria che soprattutto dinanzi al tema della “nuova evangelizzazione” non dovrebbe mai coglierci impreparati. Egli scrive: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). L’annuncio del Vangelo non cambia con il passare dei tempi e delle generazioni. È sempre lo stesso, come ai primordi della Chiesa. E, tuttavia, l’autore sacro fa precedere a questa espressione un testo estremamente significativo: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede» (Eb 13,7). Non siamo lontani dall’interpretazione coerente del testo se lo applichiamo a quanti svolgono il ministero dell’accompagnamento. Chi lo compie, di fatto, possiede un’autorevolezza che viene riconosciuta, e per questo è abilitato ad essere accompagnatore.
A un giovane oggi si potrebbe riferire questo stesso invito che viene dall’autore della Lettera: ricordati di chi ti accompagna! Prima di entrare nel merito del testo, è interessante osservare che il termine “capi” ha un significato particolare in questo specifico versetto. In tutta la Lettera, l’autore sacro fa riferimento ai “capi” chiamandoli normalmente “sacerdoti” o “vescovi”; qui, invece, usa il termine “egoumenoi”. Per comprendere il significato di questo termine è necessario tornare al Vangelo di Luca, in cui Gesù, in risposta alla discussione tra i discepoli su chi fosse il “più grande”, dice: «Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve… io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,26-27). Il senso fondativo di chi è “capo” è quello di essere al servizio; ogni altra logica porterebbe fuori dall’orizzonte dell’insegnamento di Gesù. Il primo “servizio” che viene svolto da questi “capi”, comunque, è il ministero della Parola: «Vi hanno predicato la parola di Dio». Il servizio dell’accompagnamento, quindi, è in primo luogo quello di portare la persona all’incontro vivo con la Parola di Dio viva nella vita della Chiesa.
La predicazione non è un fenomeno statico, ma dinamico. Essa fa riferimento alla parola che permane come espressione dell’interpellare, del provocare, del narrare, del sostenere, del consolare… insomma, la parola per sua stessa natura è dinamica. Anche quando si trasmette la Parola che era “fin dal principio”, essa è ancorata al Logos, cioè alla persona del Figlio di Dio che attraversa i tempi e le culture per entrare in relazione personale con chiunque, nessuno escluso.
Il secondo tratto che emerge dal testo è la considerazione circa lo “stile di vita” dei “capi”. Il loro comportamento (anastojh) è coerente con l’annuncio della Parola; non solo per un momento della vita, ma fino alla fine. C’è un’arte dell’accompagnamento che è scolpita nello stile di vita di chi accompagna. L’accompagnatore, quindi, deve essere espressione di vita all’ombra della Parola di Dio, perché segna la sua esistenza come spazio vivo che crea la forma del discepolato. L’esempio di passare lungo tempo nell’ascolto, nella meditazione, nello studio della parola di Dio non è un esercizio transitorio, ma impegno di vita che modella l’esistenza fino a renderla trasparente nell’azione dell’esistenza quotidiana.
Se quanto detto finora tocca in modo speciale la persona dell’accompagnatore, un altro versetto di questo stesso capitolo della Lettera agli Ebrei, fa emergere in maniera forte lo stile di chi è accompagnato: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi. Ciò non sarebbe di vantaggio per voi» (Eb 13,17). Obbedire ed essere sottomessi non è un’azione passiva del giovane che viene accompagnato, ma un esercizio di libertà. All’autorevolezza che accompagna chi guida, corrisponde l’obbedienza di chi si affida. È interessante osservare che la stessa espressione viene usata da Luca quando parla di Gesù dodicenne che, dopo essersi sottratto per tre giorni a Giuseppe e Maria, tornò a Nazareth e «stava loro sottomesso» (Lc 2,51). L’obbedienza cristiana non trova altro fondamento se non nell’obbedienza di Cristo. Il comportamento di Gesù è fatto di ascolto e obbedienza docile e convinta al Padre. Questa è normativa per ogni altra forma di obbedienza che è richiesta nella Chiesa. Gesù non obbedisce alla sua “coscienza” né alle sue “convinzioni”, come facilmente obiettiamo noi oggi. L’obbedienza del Figlio di Dio è frutto dell’amore e sua conseguenza. Non si dimentichi, tuttavia, che per gli scritti neotestamentari l’obbedienza è rivolta alla verità; ciò che si richiede, pertanto, è l’obbedienza al Vangelo che è parola di verità. Non ci si allontana molto, affermando questo, da quanto si è precedentemente detto circa l’incontro con la Parola di Dio. L’obbedienza a chi accompagna è solo una mediazione, perché di fatto è obbedienza alla Parola di Dio e sottomissione alla sua volontà. Non si potrebbe comprendere tutta questa tematica fuori dall’orizzonte dell’amore: «Non c’è assolutamente nulla nella Chiesa – nemmeno il rapporto tra comando e obbedienza – che possa svolgersi fuori dall’amore» (H.U. von Balthasar, “Cristologia e obbedienza ecclesiale”, Saggi IV, 129). L’obbedienza come espressione della responsabilità personale di chi sa rinunciare a qualcosa in vista della libertà, è la condizione della crescita personale nella fede e nella vita del discepolato. Ecco perché chi guida dovrà essere capace di vigilare; cioè di seguire in modo discreto e nel rispetto delle scelte che vengono compiute per essere sempre capace di un accompagnamento frutto dell’amore che educa, più che di un geloso possesso delle proprie convinzioni e della persona che è sempre posta dinanzi a Cristo e a nessun altro.
La preghiera rimane, a questo punto, il richiamo decisivo perché le due persone in gioco possano essere consapevoli del grande dono che viene reciprocamente fatto nell’orizzonte dello Spirito che guida i passi di ambedue.
2. Il secondo testo fa riferimento all’apostolo Paolo quando scrive: «Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori! Per questo vi ho mandato Timòteo, che è mio figlio carissimo e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo, come insegno dappertutto in ogni Chiesa» (1Cor 4,14-17). Nel suo dialogo con i cristiani di Corinto, Paolo traccia le linee costitutive dell’evangelizzatore: è un imitatore di Cristo. Una persona al servizio di Cristo perché la comunità possa nascere e crescere. Ciò che i Corinzi fanno di richiamarsi a un apostolo o all’altro non ha senso (cf 1,12); non ha neppure senso voler rincorrere i carismi per avere più autorità sugli altri (cf 12-13). Ciò che conta, invece, è assumere su di sé la logica della croce che esula da ogni forma di autoesaltazione per rinviare ognuno al mistero della propria chiamata. La categoria dell’imitazione non è affatto frequente nel Nuovo Testamento; appartiene molto di più alla tradizione greco-romana. Delle sole sei volte in cui il termine “imitatore” si incontra (cf Ef 5,1; Fil 3,17; 1Ts 2,14; Eb 6,12), cinque sono presenti in Paolo. In questa stessa lettera egli ripeterà con altrettanta forza: «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (11,1). Come dire: io, l’apostolo, sono solo una copia di Cristo, il vero prototipo a cui guardare e su cui coniugare tutta l’esistenza è solo Gesù. E, comunque, l’apostolo fa riferimento al suo stile di vita: «Il mio modo di vivere». La cosa non è priva di significato soprattutto per il nostro tema. La vita di fede è appunto una “vita” che è caratterizzata dall’incontro con il Signore, dall’essere attratti dal suo amore e dal divenire giorno dopo giorno suoi discepoli. In questa visione della vita, con ragione potrà dire Paolo in Galati: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Certo, l’esempio di Paolo è sconvolgente. Riprendere tra le mani il suo testamento fa toccare con mano la sua convinzione che nonostante l’esistenza contraddittoria, Dio aveva scelto proprio lui: «Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù… (egli) è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1Tm 1,12-16). Permettere di cogliere la “magnanimità” di Dio, cioè la sua straordinaria generosità nei miei confronti, perché nonostante la mia debolezza e contraddizione ha scelto me per annunciare il suo Vangelo».
L’orizzonte vocazionale, pertanto, rimane come lo sfondo su cui agire per verificare la grandezza di un percorso verso il quale incamminarsi per raggiungere l’obiettivo della conquista. È ciò che permette di scoprire che Dio ha bisogno di me. La vocazione, dopotutto, non si fonda previamente sulle qualità che si possiedono; forse si dovrebbe dire proprio il contrario: la corrispondenza alla vocazione consente di dare valore e sostegno a quanto si è. Aiutare a scoprire il primato di Dio nella nostra vita e la forza della sua grazia diventano lo strumento mediante il quale giungere con consapevolezza a orientare la propria esistenza. Una vocazione, dopotutto, non è mai un’improvvisazione; essa, piuttosto, è la scoperta di un progetto che viene da lontano e del quale, forse, per distrazione non ero ancora consapevole. Dovremmo ripetere con Paolo: «Quando Dio, che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia» (Gal 1,15).
Cogliere la presenza perenne e costante di Dio nella mia vita è il servizio basilare che chi accompagna deve ritenere come sua responsabilità personale. Tu fai parte di un progetto di Dio all’interno del quale scopri la tua dignità personale per la realizzazione della tua esistenza.
Conclusione
Le considerazioni fatte portano di nuovo al Documento preparatorio, che può a buon diritto essere assunto come conclusione: l’annuncio del Vangelo richiede la capacità di farlo entrare nella cultura, veicolo essenziale per comunicare. Esiste una “cultura giovanile” che ha bisogno di essere evangelizzata (cf III,1), attraverso l’entusiasmo di quanti sono chiamati a far emergere nel cuore dei giovani il desiderio dell’incontro con Gesù Cristo e la forza dell’amore che trasforma.