Alla radice della teologia della vocazione: l’amore elettivo di Dio
Amati amiamo: è il titolo di un capitoletto della Regola di vita del SerMiG, di Torino, scritta dal fondatore, E. Olivero, che sto “centellinando” in questi giorni, mentre – tra un frammento di tempo e l’altro – sono impegnato a stendere questo articolo, per il quale mi debbo misurare con la fatica di concentrare le 2906 pagine della Bibbia TOB, i 2865 numeri del Catechismo della Chiesa Cattolica e le 15166 parole della Deus caritas est; e il tutto, in non più di 9000 caratteri! In questo disperato tentativo, mi faccio aiutare da due termini, che brillano come due perle ed in cui si condensa tutta la teologia della vocazione.
AMATI
Non si può cominciare che da lì. La prima voce di un dizionario teologico sulla vocazione è d’obbligo: è la parola più tenera e forte, più luminosa e ardente: “amore”. Non solo per ovvie ragioni alfabetiche e lessicali (almeno per la lingua greca, latina e per le lingue neolatine) e neanche solo per ragioni statistiche (in effetti è una delle voci più ricorrenti di tutte le sante Scritture), ma soprattutto perché “amore” dice il tutto della vocazione cristiana: ne dice il principio e il fondamento, la meta e la strada, la trama e l’ordito, l’insieme e i particolari. Ne dice il cuore, la storia,… in una parola: l’essenza. “Amore” è parola divina – Dio è amore! – e parola umana: chi non si sente amato e non ama, è morto: non sente alcuna chiamata e non pronuncia alcuna risposta. Amore, perciò, è parola bilingue, divino-umana: vedi alla voce “Gesù Cristo”, amore divino dell’uomo e amore umano di Dio. Ma tutto questo non lo dice anche ogni religione, ogni teologia, anzi ogni filosofia su Dio?
In effetti Aristotele chiama Dio “amore”: egli lo considera il grande Motore Immobile dell’universo, che “muove tutto in quanto amato”, ma lo intende appunto come un amore che è o deve essere amato. Mai e poi mai, secondo lo Stagirita, questo amore può “abbassarsi” ad amare tutto ciò che non è Dio: finirebbe per “sdivinizzarsi”, per autodistruggersi. Dunque noi lo dobbiamo amare, lui però – ma è veramente un “lui”? – può amare solo se stesso. Viene da chiedersi: questo amore dell’amore non rischia di sconfinare nel più morboso narcisismo? Non è così il Dio di Muhammad, il Profeta. Ogni fedele lo invoca più volte al giorno, con la prima “sura” del Corano: “Nel nome di Dio, Misericordioso e Compassionevole”. Allah ha cento nomi: è Grande, Onnipotente, Eterno, Immenso, ecc., ma il nucleo dei suoi attributi è costituito proprio dai due aggettivi “misericordioso” e “compassionevole”. Allah riversa la sua clementissima misericordia su tutte le sue creature, anche le più piccole e umili: “In una notte nera – recita un detto musulmano – su una pietra nera, una formica nera, Dio la vede e la ama”. Si può parlare allora di un rapporto d’amore tra Dio e l’uomo? Certamente, da parte dell’uomo è più corretto parlare non di amore, ma di “sottomissione”: questo significa la parola araba “islàm”. E da parte di Dio? Se facciamo il confronto con il Dio di Gesù Cristo, tra le non poche differenze balzano evidenti queste due: Allah ama solo i suoi “fedeli”, mentre predestina gli infedeli alla dannazione eterna; il Padre di Gesù non fa preferenze di persone, ma vuole che tutti gli uomini siano salvi. Inoltre ad Allah manca la capacità di amare in modo umano, perché può amare in modo umano solo un Dio incarnato, cosa che l’islamismo ritiene assurda. Ma può un Dio amare veramente gli uomini senza amarli in modo effettivamente umano? E come può un Dio amare in modo umano senza un cuore “carnalmente” umano? Questo non significa pensare all’Incarnazione come ad un evento “dovuto”: essa è e resta una grazia, evento assolutamente gratuito, del tutto imprevedibile e non programmabile. Ma la differenza cristiana è data proprio dalla fede in quell’evento: “la Parola di Dio si è fatta carne”, che è come dire: l’Amore di Dio si è fatto cuore di carne.
Interessante anche un confronto con il buddismo. È stato Henri de Lubac il primo a stabilire un audace parallelo tra Cristo e Budda. Ecco la sua conclusione: «Il fallimento di questa immensa avventura, il naufragio di questa “zattera” gigante, che ha imbarcato per la liberazione mezza umanità, deriva dal fatto che Budda non ha saputo scoprire il volto del Dio-Amore. Non per questo siamo severi con lui. Budda ha forse impersonato più di qualsiasi altro uomo il problema del destino umano. Più di qualsiasi altro ha portato a buon fine tutta una pars purificans, per la quale gli stessi cristiani gli possono essere riconoscenti. Ha evitato le vie ingannevoli e sempre -della superstizione, dell’ascesi meccanica e della gnosi. Ha visto la necessità dello spogliamento spirituale, al di là della morte dei sensi. Ma ha indubbiamente mancato il suo scopo. Senza il “pieno” della carità, nessuno realizzerà mai il “vuoto” del distacco. Senza il sì, che può essere soltanto una risposta, non è possibile pronunciare definitivamente il no indispensabile».
CHIAMATI
Nelle ultime righe del passo di de Lubac appena citato, troviamo l’essenza del cristianesimo, il DNA della vocazione cristiana: da esse possiamo ricavare gli attributi originali e caratterizzanti del Dio di Gesù Cristo, sette “note” dell’Amore, che è all’origine di ogni chiamata.
Innanzitutto la pre-venienza: l’assoluta precedenza dell’amore, che è il principio di ogni storia e di ogni vocazione. “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Dio che ha amato noi, e ci ha amati per primo” (1Gv 4,10.19). È Dio che ha chiamato Abramo, ha scelto Israele, ha preferito Davide ai suoi fratelli. E il motivo non si trova mai nella persona prescelta o nel popolo eletto: anzi, Israele è il più piccolo tra tutti i popoli (Dt 7,7ss) e Davide è il più piccolo tra i figli di Jesse (1Sam 16,11). “Considerate la vostra vocazione”, esorta Paolo, parlando ai suoi cristiani di Corinto: Dio preferisce ciò che è stolto, ciò che è debole, ciò che è ignobile, ciò che è nulla (cfr. 1Cor 1,26ss).
La prevenienza si esprime nella gratuità: Dio chiama l’uomo perché lo ama, e lo ama perché è amore, non perché l’uomo sia amabile. Potrebbe il sole non illuminare o il fuoco non bruciare? Chi contempla il Crocifisso scorge un amore tanto gratuito e sconfinato da apparire incredibile: così Dio ha amato il mondo! Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino all’estremo (Gv 13,1). Davvero una carità eccedente: smisurata, smodata, sproporzionata! La gratuità si consolida in fedeltà: la promessa è mantenuta, l’amore dato una volta è dato per sempre. Fedeltà non è abitudine stanca e annoiata: l’amore di Dio non si ripete, si rinnova. Il Calvario non è un vulcano spento. Cristo non si pente delle sue chiamate, neanche di quella di Giuda.
La fedeltà si traduce in tenerezza: non si indurisce per ostinata volontà di autocoerenza e non si raffredda nella pura correttezza formale, ma si porge nei gesti caldi della più premurosa e affettuosa delicatezza. Cosa c’è di più tenero di Cristo che si china a lavare i piedi dei discepoli? Il “chiamato” deve esporsi all’amore del Maestro e deve lasciarsi amare: è lui che ama per primo! La tenerezza s’incarna nella concretezza: l’amore si fa gesto e storia, non si affida a parole vuote o ad atteggiamenti sdolcinati, ma raggiunge il chiamato nella irripetibilità della sua persona, nella singolarità della sua situazione, nella interezza delle sue relazioni con gli altri uomini e con il mondo. La concretezza sfocia nella misericordia: l’amore è veramente concreto, perché non giudica e non condanna. Perché tutto scusa e tutto sopporta. Non si arresta di fronte alla miseria dell’amato, non vince soltanto il tempo, vince nemici ancora più accaniti: la colpa, l’incorrispondenza e l’infedeltà.
La misericordia declina – scandalosamente! – nella gelosia: non scade mai nel buonismo peloso o nel morboso sentimentalismo. L’amore di Dio è geloso, non nel senso che egli sia invidioso della nostra felicità – questo è piuttosto il sentimento che rode eternamente Satana – ma piuttosto perché è preoccupato, come l’amore materno, del benessere delle sue creature. Per questo è un amore esigente: si dà tutto e chiede tutto – tutto il cuore e tutta la vita – altrimenti ne scapiterebbe il carattere adulto dell’amore, la serietà della sua risposta, il rispetto della sua dignità.
AMIAMO E ANDIAMO…
Da quanto detto è possibile ricavare quattro leggi che regolano la risposta alla chiamata:
– La legge della verticalità. Tante volte si mette in guardia dal pericolo dell’orizzontalismo. Il cristianesimo – si dice – non si può ridurre al comandamento dell’amore del prossimo, ed è giusto: prima viene il comandamento dell’amore per Dio. Ma prima ancora del primo comandamento viene l’evento: Dio ci ha amati per primo! Dunque la dimensione verticale precede e fonda quella orizzontale. Ma si tratta di una verticalità discendente: non siamo stati noi a salire verso Dio, ma è Dio che si è abbassato fino a noi. La vocazione è un dono che viene dall’alto: come si nasce dall’alto e non da carne e sangue, ma dall’acqua e dallo Spirito, così all’origine di ogni vocazione c’è Dio Padre che ci ama e ci chiama. E come nessuno si può autogenerare, così nessuno si può autochiamare.
– La legge dell’indicativo. Nella vita cristiana l’indicativo precede l’imperativo: sei amato e dunque amerai! La fede fonda la carità; la chiamata precede la risposta; il kerygma genera l’etica. Lo diceva un maestro del sospetto, ma in questo diceva il vero: “Bisogna aver conosciuto l’amore, prima della morale; altrimenti è lo strazio” (Sartre).
– La legge della missione. Dio sceglie un popolo (Israele), ma per portare la luce a tutti i popoli. Sceglie una persona, ma per la salvezza di tutto il popolo di Dio. Il suo, infatti, è un amore elettivo, ma non selettivo o discriminante, perché l’amore non può mai fare preferenze di persone. Il chiamato, quindi, è messo di fronte alla sua responsabilità: deve sapere e deve ricordarsi sempre che Dio lo ha scelto per farne uno strumento di salvezza a favore di “molti”. Nel momento in cui il chiamato dimenticasse di essere un povero strumento – di per sé assolutamente inadatto e inadeguato – e si illudesse di essere lui la causa o il protagonista della propria ed altrui salvezza, finirebbe per distruggere ogni possibilità di autentica realizzazione di sé e di vera grazia per altri.
– La legge della croce: come per Cristo, così per ogni cristiano, rispondere alla chiamata del Padre significa scegliere di perdere la vita per amore. Non si può seguire la via crucis, se non si è sinceramente, concretamente e definitivamente disposti a rinnegare il proprio io e ad inchiodarlo sulla croce. Altrimenti prima o poi ci inchioderemo qualcun altro…
Lo sappiamo: la vocazione è tutta questione d’amore.