I dieci lebbrosi e la “grammatica del ritorno”
Dare un perché al proprio viaggio verso casa
«E la fine di tutto il nostro esplorare
sarà arrivare dove siamo partiti
e conoscere il luogo per la prima volta»
S. Eliot, Quattro quartetti
Ogni pellegrinaggio implica un ritorno a casa, luogo del paragone tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati, nel quale fare concretamente i conti con il nostro cambiamento. Di fatto, però, l’esperienza del ritorno ci risulta a tratti traumatica, soprattutto se, come spesso accade, ciò che abbiamo lasciato ci appare molto meno allettante di ciò che troviamo al termine del nostro itinerario. Come allora motivare il nostro cammino verso casa? Il Vangelo di Luca ci suggerisce alcuni interessanti spunti attraverso il racconto della guarigione dei dieci lebbrosi (Lc 17, 11-19), che sembra proprio gravitare attorno al “perché” di questo viaggio inverso che ci riconduce al punto di partenza, fornendoci quella che potremmo definire una “grammatica del ritorno”.
Il testo che abbiamo scelto non descrive semplicemente un miracolo come altri, facilmente reperibili all’interno del variegato panorama evangelico, ma si sviluppa soprattutto su ciò che accade all’interno della guarigione. Il processo, cioè, che attraversa il cammino del lebbroso samaritano e che motiva la sua reazione. Potremmo definirlo un “miracolo in movimento”, perché a differenza della maggior parte dei miracoli non accade nell’immediato, ma si sviluppa nell’andare (v.14: ἐν τῷ ὑπάγειν) dei lebbrosi. È come se questo breve racconto voglia ammaestrarci riguardo la potenza salvifica che si rivela all’ombra di ogni nostro primo passo. Ognuno di noi può essere testimone di questa “salvezza itinerante”: spesso, infatti, non è tagliare la linea del traguardo a operare in noi un cambiamento, quanto l’intero percorso che ci ha condotti fin lì. La fatica e la precarietà del cammino educano lentamente il nostro cuore, affrancandolo dalle catene della sedentarietà e dell’isolamento. Ogni uomo che si mette in viaggio sa che dovrà inevitabilmente fidarsi di ciò che potrebbe accadergli. Potremmo dire che il vocabolario di ogni pellegrinaggio è, per gran parte, un libro ancora da scrivere. Per questo motivo, non ci si può avventurare per un nuovo viaggio senza aver prima rispolverato una consapevolezza che, inavvertitamente, tendiamo spesso a dimenticare, ovvero che noi non bastiamo a noi stessi. È questo sentimento quasi primordiale che spinge i dieci lebbrosi a fidarsi delle parole di Colui che loro stessi avevano definito un “maestro”[1]. Essi intercettano Gesù che è “in cammino verso Gerusalemme” (v.11), un itinerario che occupa la parte centrale del Vangelo di Luca (9, 51-18, 14) e che, adesso, volge lentamente verso la sua conclusione. In questo crocevia di destini, i passi dei deboli si intrecciano con quelli del Maestro, trovando senso e compimento in una promessa che regala un futuro inedito ed è, dunque, già di per sé una guarigione.
Eppure, il racconto non si conclude soltanto nel “miracolo in movimento”, che abbiamo appena accennato. Uno dei dieci lebbrosi, vedendosi guarito, decide di tornare da Gesù, glorificando Dio ad alta voce e prostrandosi ai piedi del maestro (vv. 15-16). Un comportamento fuori dal tipico cliché letterario delle narrazioni bibliche, per il quale, ad un comando da parte di Dio, fa seguito il suo fedele adempimento da parte del protagonista di turno. Non solo, questo atteggiamento contraddice persino le indicazioni alle quali Gesù stesso si attiene, contenute nel Libro del Levitico (Lev 13-14). Il lebbroso, ci dice il Vangelo, si vide “guarito” (v.15), termine diverso da quello utilizzato in precedenza in cui si afferma che i lebbrosi furono “purificati” (v. 14). Un’accezione meno cultuale di quanto accaduto, che ci suggerisce una prospettiva che potremmo definire, a tutti gli effetti, fuori dagli schemi. Al centro del racconto non c’è un’insufficienza rituale da sanare andando al tempio e rivolgendosi ai sacerdoti, ma una ferita che si rimargina. È come se questo piccolo dettaglio volesse farci transitare dal “reame dell’inchiostro”, fatto di norme e reati, obbedienze e defezioni, a quello della carne e del sangue in cui il dolore mendica salvezza. Torna a Dio soltanto chi ha uno sguardo che oltrepassa le rigidità, uno sguardo, appunto, fuori dagli schemi, che non si sofferma più soltanto sulle inadempienze da correggere, ma sulle ferite in cerca di guarigione.
C’è un ulteriore dettaglio che Luca pone volutamente alla fine della parte di testo che abbiamo appena commentato: il lebbroso ormai guarito era un Samaritano. Questa aggiunta conclusiva ricopre, in realtà, un ruolo importante nella narrazione, cogliendo alla sprovvista il lettore, il quale non si sarebbe mai aspettato che un pagano potesse comportarsi in modo così pio e devoto[2]. Il Maestro stesso nelle ultime battute di questo racconto lo definisce uno “straniero” (v.18). Ora, questo termine riveste un ruolo simbolico molto importante. Il sostantivo “straniero” (ἀλλογενὴς), infatti, ricorre soltanto qui all’interno dei Vangelo, ma è diffusamente attestato nell’Antico Testamento, nel quale questa parola assume spesso toni molto negativi, che incitano all’esclusione, alla violenza e, spesso, alla condanna a morte di ogni straniero che avesse osato entrare in contatto illecitamente con il culto d’Israele[3]. A conferma di quanto appena detto, è opportuno citare un’iscrizione presente sul Soreg del Secondo Tempio di Gerusalemme, il muro che separava il Cortile dei Gentili dalla parte più interna del santuario, nella quale soltanto i Giudei erano ammessi. La breve epigrafe riporta: “È vietato ad ogni straniero (ἀλλογενῆ) di attraversare il portale e il recinto che circonda il tempio. Chiunque sarà catturato, sarà lui stesso responsabile della morte che ne seguirà”[4]. Di questo medesimo muro di separazione parla anche Paolo nella Lettera agli Efesini, identificandolo come un segno di “inimicizia”, tra giudei e pagani abbattuto definitivamente per mezzo della carne di Cristo, che ha trasformato le due controparti in un “solo uomo nuovo” (Ef 2, 14). Per il lebbroso Samaritano rivolgersi a Dio significa fare innanzitutto esperienza di questa radicale pacificazione, che non tiene conto della nostra presunta o reale inadeguatezza, annuncia, invece, che il nostro vero volto ci attende oltre le distanze, alle quali abbiamo concesso di definirci. Forse è questo il segreto paradossale di ogni ritorno: tornare a ciò che siamo sempre stati, eppure scoprirci per la prima volta.
[1] Il termine “maestro” (Gr: ἐπιστάτης) è usato soltanto in Luca e, in tutte le altre ricorrenze, è posto sempre sulle labbra dei discepoli. L’utilizzo di questo sostantivo nel racconto che abbiamo preso in considerazione potrebbe indicare implicitamente che esso non si concentri soltanto su di una guarigione, ma anche sulla natura stessa del discepolato, chiarendo cosa sia realmente un cammino di fede.
[2] A proposito, già all’inizio del cammino di Gesù (9, 51-56) i Samaritani si rivelano ostili nei confronti di Gesù, decidendo di non accoglierlo nel proprio paese, perché era diretto verso Gerusalemme. Anche la scelta del protagonista della famosa parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37), risulta essere paradossale, proprio in virtù di questo astio ben noto alla comunità giudaica e cristiana.
[3] Alcuni esempi: Es 12, 43; 29, 33; 30, 33; Lev 22, 10; Nm 1, 51; 3, 10.38; 18, 7; Ger 28, 51; Ez 44, 7-9.
[4] OGIS 598; Si veda anche Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche 193.