Oltre il male, ritorno alla vita
Con 'Elisa' Leonardo Di Costanzo racconta la storia di una caduta e il tortuoso cammino di riparazione. Premio Signis alla Mostra del Cinema di Venezia
Una delle altezze più vertiginose della fede cristiana si percepisce quando ci si trova a considerare il tema della vita che rimane a una persona che ha commesso un male estremo. Si può ancora parlare di vocazione, di progetto di vita? Il tempo del carcere come si inserisce nel cammino di liberazione della meraviglia di ogni essere umano? Elisa, l’ultimo film di Leonardo Di Costanzo presentato in concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, interpella lo sguardo dello spettatore proprio in questa direzione: la protagonista (Barbara Ronchi), trentacinque anni, è in carcere da dieci tra i boschi dell’Alto Adige, condannata per avere ucciso la sorella maggiore e averne bruciato il cadavere, senza motivi apparenti. Elisa ha sempre detto di ricordare poco o quasi nulla, ma quando accetta di incontrare il criminologo Alaoui (Roschdy Zem) e partecipa alle sue ricerche, qualcosa in lei si sblocca in un faticoso duello tra rifiuto e abbandono alla verità sepolta nella complessità della psiche umana. In questa vicenda disorientante e dolorosa, il padre non la abbandonerà mai, dipingendo così in parallelo anche il tema della vocazione per i “cari” che rimangono fuori dal carcere.
È ancora zoom sulla pena e sul suo istituto per Di Costanzo: pur mantenendo, infatti, il medesimo sfondo di reclusione Elisa si può considerare un film più respingente di Ariaferma (2021) eppure altrettanto prezioso, coraggioso e anche creativo nel suo costruire futuro e sanare il passato. Di Costanzo evita ogni scorciatoia e guarda in faccia la parte oscura, mostruosa e dimentica del male, dell’odio che si sviluppa silenziosamente dentro di noi, dell’altro sé che soggiace timidamente finché il fiume della repressione non tracima, per poi volare al comando all’improvviso. Lo psicanalista e psichiatra Vittorio Lingiardi, scrivendo di Elisa, l’ha definito proprio «il falso sé».
Il film sta, perfettamente a suo agio, in quella zona grigia dove il mostro racconta una volta, due volte, tre volte… la propria storia a qualcuno, finché un giorno scopre disgraziatamente i vizi di forma di quella “favola”. La vera prigione, da questo momento in poi, allora non sarà più il recinto nel bosco, ma proprio la disgrazia di ricordare che mette dietro le sbarre, per un tempo irrisolto, la nostra speranza di riuscire a stare al cospetto del (nostro) male supremo.
Il film prende spunto dal saggio di criminologia Io volevo ucciderla di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (2022) e si inserisce in quella scia filmica che affronta la possibilità virtuosa della giustizia riparativa, quella che aggiusta le persone, i legami, le storie, i traumi, le coscienze. Quella che va oltre la verità processuale e che si prende in carico tutti quei sentimenti più o meno rimossi che non trovano compensazione nella pena o nel senso di colpa. È quel passo in più che prova a fare anche il cinema, quella strada che tenta in primis il cristianesimo.
Schermi paralleli: Caduta, smarrimento, ma anche riscatto. È quello che propone la miniserie Noi del rione Sanità diretta da Luca Miniero (6 episodi, RaiPlay) con Carmine Recano. Sul tracciato dell’impegno di don Antonio Loffredo nel quartiere Sanità a Napoli, un racconto sociale vibrante dove cultura e fede giocano un ruolo chiave nel recupero di una comunità, di un territorio, rassegnato. Una storia (vera) di speranza.