Itinerari religioso-spirituali per una crescita della cultura vocazionale
Quando la Chiesa svolge la pastorale universitaria, costruisce progetti pastorali, che le permettono di uscire fuori da logiche di occasionalità e precarietà, per trovare le adeguate linee di azione, capaci di dare il senso della sua stessa azione pastorale. All’interno di questa, la Chiesa individua percorsi, di natura squisitamente religioso-spirituale, pensati per favorire una reale crescita della cultura vocazionale.
Molti, è ovvio, sono gli “strumenti”[1] necessari per l’articolazione di questi itinerari religioso-spirituali. Si pensi, ad esempio, alla preghiera, alla catechesi, al dialogo interpersonale, etc. Tra questi quello che oggi risulta centrale è la lectio divina[2]. Il presente articolo si soffermerà su di essa non solo per il valore che riveste come pratica ecclesiale, ma anche per la forza paradigmatica che esprime nei confronti di altre analoghe pratiche. Farà, poi, attenzione a quelle dimensioni religioso-spirituale-educative, ritenute necessarie per la messa a punto di ogni progetto ecclesiale di accompagnamento alla fede dei giovani universitari.
La lectio divina
La lectio divina influisce positivamente dentro la pastorale universitaria per la messa in gioco di tre fattori importanti, che essa comporta.
Il primo fattore è inerente alla stessa struttura della lectio. Essa, infatti, può essere benissimo intesa come un fecondo incontro tra intelligenza del testo sacro e preghiera, che si attua nel grande contesto della relazione con Dio.
Le prime due fasi della lectio, e cioè la lectio e la meditatio, non sono altro che un modo di dare concretezza all’esigenza di comprensione intellettuale/esistenziale della S. Scrittura. Questa esigenza è imprescindibile perché si dia un giusto ed equilibrato rapporto con la Bibbia, che non scada mai in mero intellettualismo, ma non pecchi, per converso, in facile e superficiale lettura esistenziale, sganciata dalla concreta esistenza oggettiva del testo biblico. In queste prime due fasi, infatti, viene dato consistente spazio – e doverosamente – allo studio del brano biblico, perché si comprendano correttamente le istanze esegetiche più importanti dello stesso e si sia capaci di fare correlazione con la più ampia memoria biblica. Perché non si caschi nell’intellettualismo e non si faccia soltanto esegesi biblica, la lectio divina prevede le ultime due fasi, la oratio e la contemplatio, che permettono al brano, studiato e compreso nella memoria biblica, di essere interiorizzato nella preghiera e nella contemplazione (che secondo San Bernardo è la visita gratuita del Verbo in noi). Bisognerà qui fare attenzione a che i partecipanti alla lectio non intendano l’oratio come un tempo in cui si può dare libero sfogo all’espressività orante dei partecipanti, sganciata da un effettivo legame con il testo studiato. Solo attraverso, quindi, il concreto svolgimento di queste due fasi è possibile comprendere pienamente il brano. Questa peculiarità della lectio è molto importante da un punto di vista pedagogico, perché aiuta a fare unità tra “mente” e “cuore”, tra “anima” e “corpo”, tra grazia di Dio e collaborazione dell’uomo, evitando tutti quei dualismi antropologici e teologici, che sono nocivi per una corretta impostazione di antropologia cristiana. Si evita, così, di prestare il fianco ad obsolete impostazioni vocazionali, che ancor oggi oppongono la volontà di Dio alla concreta struttura antropologico-esistenziale della singola persona. Il credente svolge questo percorso interiore, che la lectio gli fa compiere, nella coscienza di non essere mai solo, ma sempre in stretta relazione con Dio attraverso il suo Santo Spirito. L’epiclesi, che all’inizio della lectio viene pregata, sottolinea con forza che quanto verrà in seguito svolto, e cioè i quattro momenti della stessa lectio – lectio, oratio, meditatio, contemplatio –, sono frutto di questa relazione con Dio, da sempre cercata dal credente, perché immessa nel suo cuore dal dono dello Spirito.
Il secondo fattore è legato al processo interpretativo-ermeneutico. Praticare la lectio divina comporta un grande e costante lavoro di interpretazione ermeneutica, grazie alla quale ci si rende conto che il processo interpretativo è continuo, si svolge per tutto il corso della vita, e che non ci sarà mai un tempo o una fase della vita in cui si finirà d’interpretare. Non sempre tutto ciò è chiaro nell’ambito della pastorale del cattolicesimo contemporaneo. Ci sono, anzi, molte istanze di gruppi e singoli, che chiedono certezze interpretative a carattere permanente. La lectio abitua, invece, a saper rivedere anno dopo anno la propria interpretazione dei vari brani biblici, ad ascoltare altre interpretazioni dello stesso brano che vengono offerte dagli altri fratelli e sorelle nel tempo della collatio (nella lectio divina comunitaria è all’interno della meditatio).
Questa pratica di ascolto apre la mente e il cuore di chiunque partecipi alla lectio, abituandolo ad una cultura di tolleranza, di non integralismo. Si scopre così la pluriforme ricchezza del volto di Dio. Quest’altra caratteristica della lectio permette agli universitari, sia docenti che non docenti che studenti, di sentirla vicina alla stessa ricerca universitaria e di non considerare né la Scrittura, né – a maggior ragione – la Chiesa come una sorta di monoliti integralisti ed intolleranti. L’esercizio cosciente di questo fattore ermeneutico evita così ogni deriva fondamentalistica sia evangelica che ecclesiale. Permette, ancora, di saper affidare la propria vita all’oggi dell’ascolto di Dio (cfr. Salmo 95), senza cedere alla tentazione di volere ingabbiare il futuro per soddisfare le proprie insicurezze esistenziali, rivestendole di ideologie colorate di emozioni, che vengono sovente scambiate per convinzioni di fede. La fede, invece, legata alla lectio mostra il proprio intrinseco carattere abramico: l’itineranza e la possibilità reale dell’errore fanno sempre capolino e anche se si raggiunge un’età veneranda si è disposti ad essere destrutturati e ristrutturati dalla Parola del Signore.
Se si ritengono centrali “la domanda di senso e il desiderio di verità”, che sono “il terreno sul quale si pone la ricerca vocazionale” (Giovanni Paolo II), questi non possono essere intesi come una sorta di preliminari antropologico-esistenziali, che concludono la loro ragion d’essere nel momento in cui si è risposto di sì alla chiamata del Signore, ma piuttosto come fattori permanenti ed ineliminabili di un dinamismo vocazionale che attraversa come continuum tutte le diverse fasi della vita di fede, permettendo al singolo credente di poter dire di sì al proprio Dio, nella pienezza della capacità personale di scelta, senza dare nulla per scontato e senza ripetere meccanicamente gli ormai conosciuti copioni di vita.
Il terzo fattore è correlato all’esistenza di fatto della comunità cristiana, che trae il suo alimento e, nella fede, la sua stessa costituzione dalla Parola. Il legame, infatti, tra Parola e comunità è intimo ed intrinseco e anche se concretamente non si desse il caso di essere in presenza di una ben costituita comunità cristiana, sarà la stessa Parola a costituire la comunità cristiana. La lectio divina, di cui si sta parlando, è in effetti la lectio divina comunitaria[3]. Sembra, pertanto, molto pertinente la denuncia dell’“assenza di contesto comunitario” come una situazione grave e patologica per il cristianesimo contemporaneo. Si ha l’impressione che si stenti parecchio a trovare una corrispondenza equilibrata tra la lettura del testo e la sua trasposizione nell’ambito esistenziale. Ed io penso che uno dei motivi essenziali di questa situazione è l’assenza di contesto comunitario, che è il cardine proprio nel seno del quale ogni lectio divina potrebbe e dovrebbe prodursi. Non è che all’interno di una reale esperienza ecclesiale, comunitaria, che la Scrittura può essere letta e vivificata e risorgere come una parola vivente di Dio per l’oggi storico dei credenti. Il contesto comunitario ha una portata ermeneutica fondamentale per la Scrittura[4].
L’esistenza della comunità è, allora, il frutto della Parola, letta, amata e pregata nella lectio, ma è anche il presupposto per una corretta lettura della stessa Parola. Ci si trova di fronte ad un prezioso circolo, che evitando ogni pericoloso meccanicismo, mostra l’importanza della comunità in ogni fase dell’esistenza cristiana. La lectio aiuta e sostiene il processo di formazione comunitaria. Tutto ciò è estremamente prezioso per la pastorale universitaria, che è alla continua ricerca di un autentico vissuto comunitario.
Le dimensioni religioso-spirituale-educative necessarie per la messa a punto di ogni progetto di accompagnamento vocazionale della fede
La corretta cura alla processualità tipica della lectio e alle sue numerose ricadute positive, impone, però, che si presti attenzione – seppur breve, quasi a modo di flash, considerato lo spazio del presente articolo – ad alcune dimensioni religioso-spirituale-educative, necessarie perché la stessa lectio – e con essa ogni altra pratica ecclesiale – ottenga i suoi effetti.
La prima dimensione è data dal silenzio. Questi non è affatto un preliminare disciplinare all’ascolto della Parola di Dio. Il silenzio è, invece, la capacità di creare spazio per l’accoglienza dell’altro sia che si tratti dell’interiorità che abita in noi (1Pt 3,4: “l’uomo nascosto del cuore”) che della Parola di Dio che della parola del fratello. In questo senso il silenzio coincide con la scelta consapevole di essere disponibili e attenti all’altro. Il silenzio è custode dell’interiorità. Certo, si tratta di un silenzio definito sì negativamente come sobrietà e disciplina nel parlare e perfino come astensione da parole, ma che da questo primo momento passa ad una dimensione interiore: cioè al far tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni, i giudizi, le mormorazioni che nascono nel cuore. Infatti è “dal di dentro, cioè dal cuore umano, che escono i pensieri malvagi” (Mc 7,21). È il difficile silenzio interiore, quello che si gioca nel cuore, luogo della lotta spirituale. Ma proprio questo silenzio profondo genera la carità, l’attenzione all’altro, l’accoglienza dell’altro, l’empatia nei confronti dell’altro. Sì, il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’Altro, per farvi rimanere la sua Parola, per radicare in noi l’amore per il Signore; al tempo stesso, e in connessione a ciò, esso ci dispone all’ascolto intelligente, alla parola misurata, al discernimento del cuore dell’altro, di ciò che gli brucia nell’intimo e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole[5].
La seconda dimensione consiste nella capacità di accogliere la vita con il senso del dono. Si tratta, infatti, di passare dalla fatica della ricerca di senso, ancora fortemente legata al protagonismo antropologico, alla scoperta/stupore del senso donato. Tutti sappiamo dell’estrema importanza e necessità della mentalità della ricerca di senso, che ben contraddistingue il cammino esistenziale di ogni uomo. Il problema sorge quando questa mentalità pone troppo al centro il proprio io e si verificano, da un lato, tutta una serie di avviluppamenti esistenziali, in cui il soggetto si trova dentro una situazione di perenne crisi e di implosione, e, dall’altro lato, chiusure verso il contributo altrui e verso il dato della realtà che s’impone come dono. La fatica di chi accompagna questi cammini è, allora, tutta tesa verso la capacità di aprire i giovani a considerare che la realtà è più vasta del loro essere soggetti e che si può e si deve coltivare un’apertura della propria sensibilità personale allo stupore e alla meraviglia, senza pensare che tutto vada compreso solo dentro il binomio diritti-doveri.
La terza dimensione è la capacità d’inserire il senso della morte dentro la ricerca del senso della vita. È da tempo ormai chiaro che la nostra cultura è in una situazione di conflittualità e, qualche volta, di esorcismo nei confronti della morte. Si fa di tutto per non pensarci. Si attiva ogni iniziativa per sentirsi sempre vitali, giovani. Eppure una vera ricerca del senso della vita è radicalmente legata al senso che ogni uomo dà alla propria morte. Così è successo a Gesù di Nazareth, quando ha capito che il suo destino umano doveva compiersi in forma cruenta. Così succede ad ogni uomo quando comprende che la morte è soltanto l’ultimo atto di un continuo processo del morire che accompagna dall’interno la vita umana. “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. Solo se la propria morte può essere intesa come un dono per gli altri, come significativa per chi viene dopo, la si può accettare e può diventare foriera di rinnovato impegno per la propria vita.
La quarta dimensione riguarda l’individuazione di un’immagine di Dio legata all’amore e non al potere. Questa è forse la dimensione più difficile, perché non si è ancora svolta all’interno delle comunità cristiane una seria ed approfondita disamina di tutti i comportamenti di potere che sono inerenti anche all’interno della compagine ecclesiale, malgrado tutte le esortazioni ed omelie che si fanno sull’amore. Non si è ancora capito che amore e potere sono entità opposte, perché si continuano ad operare gesti di potere, di cui o non si ha coscienza oppure perché ritenuti necessari ed inevitabili per vivere, dentro realtà che teoricamente vengono autocomprese come realtà di amore. Bisogna quindi, a tal proposito, consegnare ai giovani tutta la forza dell’utopia dell’amore, accompagnata dallo sforzo critico di rendersi conto e denunciare le situazioni di potere e, ancor di più, di essere creativi perché si possano individuare percorsi di amore e di non violenza per la soluzione dei conflitti.
Note
[1] Si è voluto indicare la parola strumenti con le virgolette, perché la si ritiene in fondo inadeguata alle realtà di cui si vuole parlare e, cioè, la lectio divina e la preghiera.
[2] È ormai nota a tutti la sua diffusione su tutto il territorio nazionale, fortemente incoraggiata dallo stesso Magistero. Questo dato, però, va letto con occhiali critici. Se da una parte, infatti, questa diffusione incontra il favore di quanti la apprezzano e la reputano fondamentale per la crescita cristiana e spirituale, dall’altra parte, suscita in altri osservatori seri dubbi su di essa, perché la si ritiene quasi un’ulteriore moda ecclesiale, destinata, in quanto moda, ad esaurirsi all’interno di un breve lasso di tempo. A rendere più complessa questa problematica si osserva che, a ben guardare, sotto lo stesso nome di lectio divina si è in presenza di pratiche diverse. Non solo. A fronte di queste pratiche vi è anche una fiorente letteratura che registra impostazioni teoriche plurali su di essa. Diventa, pertanto, difficile trovare quei comuni denominatori che permettano la chiara e condivisa individuazione di ciò che è lectio divina. Questa situazione impone, quindi, la necessità di una scelta all’operatore pastorale, che voglia svolgere la sua azione con senso di progettualità e di consapevolezza.
[3] “È dunque importante ed augurabile che si diffonda la pratica della lectio divina comunitaria, oggi troppo rara. In questo campo è necessario uno sforzo ancora più grande: bisogna avere il coraggio d’instaurare dei nuovi modi di fare, suscettibili di produrre frutti. La comunità, del resto, è inseparabile dalla Scrittura, poiché il libro, senza la comunità, è nulla; ma la comunità senza il libro non può sussistere; è in lui che essa trova la sua identità e la sua vocazione” (E. BIANCHI, Les enjeux de la “lectio divina” aujourd’hui, in “La Vie spirituelle” 81(2001)740, 408 – TdA).
[4] E. BIANCHI, Les difficultés de la “lectio divina”, in “La Vie spirituelle” 81(2001)741, 603 – TdA.
[5] E. BIANCHI, Le parole della spiritualità, Rizzoli, Milano 1999, 141.