Accompagnamento spirituale e… “abbandoni”
Il mistero del cuore umano
“Vengo, non so da dove…sono, non so chi… muoio, non so quando…, vado, non so dove… mi meraviglio di essere lieto…”. (antico detto medioevale)
Parlare di quello che attraversa l’esperienza psicologica, umana e spirituale di quanti abbandonano la scelta fatta nella Vita Presbiterale o in quella di Consacrazione, significa addentrarsi in una realtà che resta sempre e comunque “inviolabile” nel segreto profondo delle sue fibre… Non è facile raggiungere la realtà sacra e abissalmente profonda del cuore umano. Il rischio che si corre è quello di cercare all’infinito, come ciechi che brancolano… in una “selva oscura”.
Eppure, oggi c’è davvero un grande bisogno di “logos”, cioè di vie di significato vero e profondo per la vita! Senza di esso non si può vivere una esistenza davvero finalizzata ad una armonia interiore. Ma per cercare il “logos”, il senso della propria vita ognuno segue una strada unica e irrepetibile, spesso anche molto sofferta se non confusa e tortuosa.
In maniera abbastanza semplificata potremmo dire che tre sono i grandi sentieri percorribili nella vita, tre vie di possibile significanza o insignificanza:
– la via dell’apparenza o via della mancanza: ogni realtà che si tocca e si vive non è mai capace di esaurire l’anelito della ricerca e del desiderio del cuore; non è mai abbastanza! La realtà acquisita delude e lascia spesso un grande senso di vuoto (è il tema della “nausea” in Sartre!);
– la via della presenza o della lotta per la realtà: è la capacità di accogliere la realtà per quello che essa ci offre, senza idealizzarla e senza distorcerla in mille rappresentazioni personali. Sono i “valori attitudinali” a cui si riferisce il padre della “logoterapia” Victor Frankl. È anche la via del “carpe diem” come logica edonistica della vita, nel prendere l’attimo fuggente e farlo proprio spremendolo al massimo… oppure la via dello “stoicismo”, dove il dolore può davvero diventare la legge della vita, mentre in precedenza tutto potrebbe essere regolato dal piacere emotivo ed immediato… (mi colpisce come alcune TV abbiano imboccato decisamente questa via mediatica, come loro target fondamentale da proporre ai giovani: per es. MTV o Italia 1…);
– la via della rivelazione e dell’amore: è la dimensione della vita che sa accettare il presente, ma non lo rende assoluto… Ecco perchè la nostra epoca deve lamentare la dimenticanza del “mistero”, come dimenticanza della profondità dell’essere, come affermava il filosofo Paul Ricoeur[1].
La vita diviene una sequenza di occasioni e di opportunità per affrontare il mistero, per “svilupparsi e crescere”, ma quanti le sanno davvero cogliere? Come potrebbe essere importante, in questi eventi, la dimensione di una “compagnia accanto”, che sia insieme sostegno e guida per cogliere quello che talvolta è confuso, incerto e si presenta come cammino tortuoso…, per far sì che le occasioni che si verificano nello sviluppo siano anche opportunità di sviluppo!
In questo caso la dimensione razionale è importante, ma forse, quella affettiva, lo diviene ancora di più…
È veramente un viaggio nel mistero del proprio cuore, che sembra come lo scandagliare uno dei tanti buchi neri dell’universo! Per questo è così difficile trovare una chiave di lettura nelle scelte di vita delle persone, anche quelle più drammatiche, come un abbandono di una scelta fatta nella Consacrazione, di un SÌ per sempre, magari pronunciato con profonda convinzione…
Potremmo evidenziare alcune categorie utili per comprendere questo viaggio all’interno del mistero del cuore umano.
La vita come cammino nel tempo…
Quello del cammino è uno dei grandi simboli della vita umana…, afferma il filosofo Underhill[2]. Esso esprime sempre due realtà fondamentali: quello che non è più e quanto non c’è ancora! È il richiamo evidente alla categoria dell’homo viator in Gabriel Marcel…, oppure a quella del “pellegrino”, così caro alla tradizione spirituale cristiana: pensate ai grandi pellegrinaggi a Roma, in Terra Santa o a Santiago de Compostela… È la via dell’essere e del non essere; o meglio dell’essere “al limite tra due universi”, come diceva Aristotele, ripreso poi da S. Tommaso.
La temporalità porta sempre con sé un aspetto che affascina: “finchè c’è vita c’è speranza!”, dice un proverbio caro a tutti… Nessuna cultura è indifferente alla ricerca della sopravvivenza, come è inevitabile il vedere l’ossessione con cui si segue l’invecchiamento del proprio corpo e quindi la rincorsa del lifting, del fitness e quant’altro oggi viene proposto; è il terrore, la rabbia e la depressione che accompagnano in molti casi il deterioramento fisico, con i suoi inequivocabili messaggi.
Il riso e il gioco…
Il segno di un volto che sorride è il segno di un essere umano. Sono davvero interessanti le ricerche di Renè Spitz sul sorriso del bambino, già a 6 mesi di vita, come espressione di riconoscimento di un volto noto, oppure il suo pianto che esprime l’angoscia dell’estraneo… Il sorridere vuol dire insieme appartenenza ad un certo mondo e anche distacco: il mondo della realtà e il mondo della apparenza. La persona umana è l’unica capace di vivere contemporaneamente in entrambe queste dimensioni.
Nel sorriso, A. Malraux individua l’armonia ritrovata tra l’uomo e la natura (cfr. il messaggio di pace e riconciliazione presente in tutta la straordinaria arte gotica europea, dopo il tormento delle figure caratteristiche dell’epoca romanica!). È l’esperienza della ritrovata innocenza di cui si fa interprete nel segno della “perfetta letizia”, S. Francesco.
Vorrei qui rimandare a Tommaso Moro e a Filippo Neri, come ai santi dell’umorismo… Il sorriso ti permette di guardare insieme con distacco ed interesse all’evolversi della persona umana. Può essere un’arma crudele o un’opportunità sdrammatizzante (pensate alla satira o alla forza di impatto dei grandi vignettisti sui tabloid nazionali…). Il giusto, nella Bibbia, è confrontato dal sorriso di chi mette a nudo la sua incongruenza e miseria.
Ma oggi noi siamo circondati da personaggi mediocri che fanno davvero “ridere”, perchè pensano di essere grandi, insostituibili, taumaturgici, onnipotenti… Si può trovare tutto questo nella sottile analisi della risata che fa A. Camus nel romanzo “La caduta” (1966). Il riso e il ridicolo sono il luogo della manifestazione del mistero della persona: una persona che spesso non si possiede, che non è veramente quello che appare, che non si comprende… e che nel sorriso su di sè e sugli altri potrebbe veramente scoprire una verità più profonda.
La manifestazione della Gioia è poi un di più, che dice apertura e vuole profonda eternità[3]. Oggi le persone sono così tremendamente serie che non sanno più giocare!
E la vita diviene veramente più triste… La paura e l’ansia di competizione, che rendono così difficile la capacità di divertirsi…, rendono difficile anche lo sviluppo della persona nella sua integralità.
La ricerca
Il bisogno di esplorare l’ambiente e di andare oltre il dato immediato, introduce al mistero dell’uomo. Pensiamo alla figura di Ulisse o a filosofi, artisti e santi, capaci di andare oltre i confini dello scibile attuale… Altrettanto significativa è la capacità di descrivere un’altra condizione rispetto alla realtà ordinaria: è la via del sapere, oltre che quella del fare, oggi tanto praticata!
Per questo si può parlare di una cultura della “SEEKERSHIP”, intesa come ricerca esasperata, se non ossessionata, della esperienza nuova e diversa, spesso “off limits”… Nulla sia simile a quello che già hai vissuto! Che può sfociare anche in un arido e continuo sperimentalismo.
C’è una radicale incompletezza nell’essere umano, che lo spinge alla ricerca; già B. Pascal diceva con grande acutezza: “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato!”. La ricerca è anche quella di un habitat familiare e affettivo ove riposare e essere accolto: è il tema della “terra” nella tradizione di Israele.
È il desiderio di essere “altrove”, ma anche di riposare a casa propria…
Il dolore
Esso rappresenta quasi sempre un percorso di inizio verso la scoperta e la crescita: è il dolore che ti domanda una riconciliazione tra il tuo io ideale e il tuo io reale o attuale; tra il mondo delle aspirazioni infinite e la realtà carica di restrizioni e ostacoli che assediano e pongono confini, spesso sperimentati come violenti perchè infrangono sogni infantili… Non si può considerare il dolore solo “apparenza”, se non a prezzo della rinuncia della realtà stessa e il rifugiarsi in un mondo illusorio e virtuale.
Il dolore è la legge della realtà… il battito nel ritmo della vita… la ricerca di un significato: il pensiero va alla logoterapia di V. Frankl e alla Shoàh.
Spesso il tentativo di fuga diviene inevitabile: rimozione, negazione, apatia… Eppure nel dolore ritorna la sfida tra le tante domande della vita e la ricerca inesauribile di risposte.
Ma spesso la nostra cultura presenta già delle risposte prefabbricate ed omologate, che non servono a nulla. Davvero nel dolore ogni cammino è assolutamente personale!
La solitudine
C’è un paradosso nel cuore umano: da una parte il desiderio di un’intimità profonda con l’altro, fatta d’accettazione, comunicazione e dono di sé; dall’altra il timore e la fuga dalla vicinanza e dallo svelamento di se stessi… Preferiamo difendere la nostra intimità. L’incontro con l’alterità è sempre insieme promessa e minaccia!
Lo scambio e la comunicazione avvengono allora a livello di personaggio e di ruolo; e la parte più profonda dell’io viene lasciata fuori dalla porta… Il contrario della solitudine non è la comunione, ma l’isolamento… La solitudine può, anzi deve coesistere con la comunicazione più profonda. Negli incontri, allora, noi siamo chiamati ad alternare presenza e assenza, pienezza e mancanza…
L’ insoddisfazione
Viene spontaneo il riferimento al famoso “cuore inquieto”, così spesso presente nelle opere di s. Agostino. Un cuore teso, da una parte, alla quiete del piacere, da cui dolore, ansia e tensione penosa sono esclusi; dall’altra alla felicità come il compimento dell’insieme e delle potenzialità di una persona. È sempre Pascal a dire che un uomo senza passioni sente il suo nulla, la sua dipendenza, il suo abbandono, la sua impotenza, il suo vuoto e vivrà noia, oscurità, tristezza e disperazione…[4].
Cartesio, nella sua “Quarta meditazione” dice che l’uomo è come il “punto mediano tra l’essere e il nulla!”.
Il punto centrale della nostra antropologia della crescita e dello sviluppo non deve allora fissarsi solo sull’aspetto di limite o su quello di infinito, ma sulla tensione e sulla mediazione possibile tra i due. L’insoddisfazione nasce qui: la percezione della sproporzione per la quale non solo non si possiede quello che si vuole, ma non si è neppure quello che si vuole essere.
Già Platone aveva colto quest’aspetto, considerando l’anima come l’intermediario tra i due poli… Per questo Pascal riflette sulla miseria e insieme sulla grandezza della realtà umana… E Kierkegaard analizza il tema della coscienza e dell’angoscia… E poi i Salmi e la Bibbia stessa sono un campionario di questo ventaglio di insoddisfazioni. L’uomo è sempre spinto a cercare di più, ma più ha e più vuole avere… non c’è limite al desiderio umano, e questo può essere un colpo d’ala ma anche il suo piede nella tomba.
Ci torna alla memoria, immediatamente, la follia del ricco nel Vangelo (Lc 12,16-21).
Eppure l’insoddisfazione potrebbe anche avvicinarsi alla… saggezza. L’anima umana è perplessa e cerca… non vede ma volge lo sguardo, spesso in maniera confusa, senza sapere verso dove.
Il mistero vissuto
Questi aspetti del mistero costituiscono la dimensione più profonda e costitutiva dell’uomo: un uomo che è insieme realtà ed apparenza, che si guarda ed è guardato, che è misterioso a se stesso e agli altri! È in ricerca di qualcos’altro e insieme tende a ritornare sempre presso di sé, per controllare il timore costante di smarrirsi in un mondo sconosciuto e forse alienante. È nel dolore, così spesso rifuggito, che spesso prende più coscienza il nostro sé.
Sembra quasi che noi abbiamo spesso bisogno di ciò che ci è nemico… Ci sperimentiamo soli e alla ricerca di altri, ma alla fine vogliamo tornare nella nostra solitudine. L’insoddisfazione ci colloca tra il riposo illusorio del piacere e quello irraggiungibile, almeno qui ed ora, nel tempo, della felicità piena.
Il mistero è in ciascuno di noi come un fatto preconscio, che in alcune situazioni privilegiate può affacciarsi alla nostra consapevolezza in un modo nuovo, sorprendente e sconvolgente.
Le situazioni privilegiate
Sono situazioni che possono toccare la vita umana in senso positivo o negativo… Gli esempi partono dagli eventi più semplici della vita stessa: l’innamoramento di una coppia, una paternità o maternità, una scelta di vita che si concretizza in chiave vocazionale… In senso più negativo può essere il momento della malattia, la perdita di una persona amata, un abbandono o un tradimento… Eventi che sconvolgono equilibri e certezze!
Sono dei “momenti di verità”, nei quali non puoi far finta che…
È un’opportunità di fare una luce nuova, una scoperta, l’inizio di un cambio, di una vita diversa. Oppure anche il tracollo di tutto, l’incapacità di fare fronte ad una situazione nuova, ma drammatica: il rifiuto di vivere.
Ma il cuore umano ha anche una grande capacità di addomesticare e anestetizzare tutto quello che può turbare un equilibrio raggiunto. C’è infatti, una dimensione annichilante e distruttiva in tutte queste situazioni, dove il senso e la sicurezza acquisiti improvvisamente scompaiono.
Dice Apocalisse 21,4-5: “Le cose vecchie non sono più… tutto viene fatto nuovo”. La vita non può più tornare ad essere esattamente come prima… eppure, spesso è quello che noi cerchiamo. Sono delle esperienze totalizzanti, perchè l’io-mistero diviene veramente domanda a se stesso.
Sono anche dei segni rivelatori, della nostra libertà e della nostra trascendenza, del nostro essere e non essere padroni di noi stessi… Sono momenti di possibilità nuove, ma anche di timori prima non sperimentati, per le conseguenze di queste nuove scelte.
La vita è una sequenza di occasioni e di opportunità per affrontare il mistero, per “svilupparsi e crescere”, ma quanti le sanno davvero cogliere?
Come potrebbe essere importante, in questi eventi, la dimensione di quella “compagnia accanto” che ci permetta di cogliere la positività anche dove c’è la tragicità di scelte sofferte e difficili: è certamente la dimensione degli “abbandoni nella Vita Consacrata”. Già l’ho affermato: in questo caso la dimensione razionale capace di comprendere… è importante, ma forse quella affettiva lo è ancora di più.
La siccità della terra e… le malattie del cuore
Il testo biblico che fa da sfondo a questo ulteriore spunto di riflessione sul tema dell’Accompagnamento spirituale e vocazionale e degli “abbandoni nella Vita Consacrata e nel ministero presbiterale”, è Geremia 2,13: “Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono l’acqua”. Se poi si volesse rintracciare un altro testo che dice, con la forza delle immagini così care a linguaggio semitico, tutta la terribile devastazione della siccità, ecco il riferimento ad Isaia 19,5-10. Oracolo del Signore, Dio degli eserciti. Si prosciugheranno le acque del mare, il fiume si inaridirà e seccherà. I suoi canali diventeranno putridi, diminuiranno e seccheranno i torrenti dell’Egitto, canne e giunchi ingialliranno. I giunchi sulle rive e alla foce del Nilo e tutti i seminati del Nilo seccheranno, saranno dispersi dal vento, non saranno più. I pescatori si lamenteranno, gemeranno quanti gettano l’amo nel Nilo, quanti stendono le reti sull’acqua saranno desolati. Saranno delusi i lavoratori del lino, le cardatrici e i tessitori impallidiranno; i tessitori saranno avviliti, tutti i salariati saranno costernati.
Volendo però restare alla grande carica espressiva della prima immagine di Geremia, come potremmo noi ritradurre, oggi, questa rincorsa alle cisterne screpolate? Quali sono le screpolature aride del cuore, le sue malattie? Mi aiuterò con una serie di riferimenti ad un testo biblico che qualcuno, per il suo terribile realismo, tende a considerare addirittura pessimistico, scettico e quasi… ateo.
È il libro di Qohelet, 12 capitoli, 222 versetti, che danno luogo al testo più scandaloso e originale dell’Antico Testamento[5].
Constantin Noica, solitaria figura di pensatore rumeno, in un suo libro descrive “Le sei malattie dell’uomo contemporaneo”. Prima di lui il premio Nobel per l’etologia, Konrad Lorenz, aveva parlato degli “Otto peccati capitali della nostra civiltà”. Qohelet suggerisce le sette malattie che intaccano lo spirito, e lo fa in una maniera che sembra pacata, ma in realtà è assolutamente corrosiva.
Ha proprio ragione Georges Bernanos, nei “Grandi cimiteri sotto la luna”, quando accosta i due testi di Giobbe e Qohelet come antidoto alla dilagante banalità del nostro tempo: A tanta gente occorre un certo numero di luoghi comuni da ripetersi scambievolmente, come pappagalli, con i loro movimenti affettati, gli impettimenti e le strizzatine d’occhio di quell’uccello. Ma non si possono nutrire i pappagalli col vino aromatico del libro di Giobbe o dell’Ecclesiaste.
(Qoelet in ebraico si dice qahal, che significa assemblea; in greco ekklesìa, da cui il greco latino Ecclesiastes). Qohelet è un capitolo drammatico della storia della salvezza, ma anche della storia di ogni uomo: quanti Qohelet nelle vicende storiche: Tolstoj, il grande romanziere russo, con le sue Confessioni; Thomas Eliot nei Four Quartets; Leopardi e le sue liriche; l’Hemingway de “il Vecchio e il Mare”; la stessa musica di Brahms nei “Quattro canti seri”.
“Leggendo Qohelet non se ne esce indenni, ma adulti o pronti a diventarlo…” afferma l’esegeta biblico Andrè Barucq. E allora, proviamo ad addentraci in queste malattie dello spirito, che fanno luce anche sul problema delle sofferenze che stanno all’origine di tanti abbandoni…
1) La parola è malata
Tutte le parole sono logore (Qohelet 1,6). È la crisi del linguaggio, l’inflazione della parola; le parole banali e vuote, la ragnatela della chiacchiera e dei luoghi comuni che Luca Goldoni sa così bene descrivere nel suo Diario Blu[6]. In ebraico il termine “debarìm” (parole) significa non solo qualcosa che si dice, ma anche qualcosa che viene fatto. La parola di Dio è “dabàr”: dice e fa.
E invece le nostre parole si fermano nel vuoto del dire, mancano spesso di compiutezza; sono, come direbbe il Piccolo Principe… “effimere”. Tutte le parole sono già state dette, afferma Joseph Roth, nel suo Mercante di coralli; ma noi ci ostiniamo a parlare e a snobbare il silenzio come fonte di sobrietà, essenzialità e ricarica interiore.
– Ecco la prima sofferenza: non riusciamo a comunicare in profondità quello che viviamo, proviamo, crediamo…
2) Siamo ammalati di “dover fare”
Oppure, come ama dire Qohelet, di àmal, di faticare. La vita diviene frenesia costante, con sempre tante cose da fare. Non puoi fermarti mai, non ti è concesso e così il lavoro che dovrebbe nobilitare l’uomo, diviene fatica, travaglio (travail, in francese!). E noi cadiamo nello stress, nella sindrome del burn-out: scoppiati, svuotati di ogni energia… Come siamo lontani dall’entusiasmo dell’homo faber.
“Quale valore ha tutta la fatica, che affatica l’uomo sotto il sole?” (Qo 1,3). E rincara la dose in Qo 2,20.
– Questa è la seconda conseguenza: è sempre più forte il senso di saturazione, frustrazione e impotenza di fronte a tutte le richieste che arrivano alle persone consacrate e ai presbiteri. Ci si misura sempre più sul metro dell’efficientismo!
3) La terza malattia: la crisi dell’intelligenza
Spieghiamoci: Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale (12,9-10). Egli disprezza la stupidità, però è anche consapevole che nel cercare la sapienza non ci può essere vanità, per metterla in mostra, per diventare degli show-men dell’intelligenza, vanitosi e pettegoli nei salotti del talk-show televisivo, alla Maurizio Costanzo o alla Bruno Vespa (par condicio!), per intenderci…
“Infatti, grande sapienza è grande tormento; chi più sa, più soffre” (Qo 1,13-18). Il rischio è quello di pensare di avere avuto chissà quale folgorazione, chissà quale intuizione, e invece c’è già stato chi ci ha preceduto. Il paradosso della sapienza è che la vera sapienza consiste nel sapere che la sapienza è vento, quando pretende di essere suprema, di darti, da sola, l’unica verità. Ma allora, che differenza c’è tra sapienza e stupidità? Il sapiente è inquieto, è in costante ricerca; l’ignorante vive nella sua stupida ilarità.
Quanti personaggi a noi contemporanei, che si credono chissà chi, potrebbero sentirsi qui fotografati. Il vocabolo ka’as, che Qohelet usa, dice sofferenza, tensione, peso interiore; ma anche indignazione per l’uso che viene fatto della intelligenza.
– Terza conseguenza: è sempre più evidente il disagio di non poter dedicare del tempo alla formazione e ad un aggiornamento che sia intellettuale e sapienziale insieme. Si vive di rendita e di luoghi comuni, di ovvietà e banalità… Anche questo crea un senso di profondo malessere!
4) La quarta malattia è come un tarlo che corrode l’essere intero, il cosmo e la storia
…su cui il sapiente classico si gettava con grande passione, nella certezza di poterli penetrare, studiare e plasmare. È una strofa di grande bellezza, una perla del libro, quella descritta in 1,4-7. Ma la vita è mistero, come ho cercato di ricordare sopra, e noi spesso lo scordiamo… L’orizzonte cosmico è rappresentato dalla terra, dal sole, dal vento e dal mare; in trasparenza ritroviamo i quattro elementi dei maestri ionici: terra, fuoco, aria, acqua. Potrebbe essere uno spunto per i tanti amanti dei segni zodiacali…
E così Qohelet fa diventare il sole un lavoratore che “desidera intensamente” il riposo serale. Il vento fa dei giri infiniti, in mulinelli, refoli, spirali e gorghi ciclonici. Non è il vento di Elia sull’Oreb, ma un eterno agitarsi senza scopo. Qui Qohelet mostra il suo pessimismo: in questi elementi della natura ci sono le stesse malattie dell’uomo: la ripetizione, la stanchezza, la noia, l’agitazione insensata.
La creazione non è più una pergamena miniata in oro, ma un insieme di ghirigori ripetitivi. È la Storia ad essere malata e Qohelet lo esprime con uno dei testi tra i più famosi di questo libro (3,1-8): 28 elementi scomponibili in bipolarità, ricordando che questo numero è un multiplo del 7, quindi della pienezza dell’essere e lo riguarda nella sua totalità.
“C’è un tempo per… e c’è un tempo per…”. La storia è malata; corre il rischio di curvarsi su se stessa, di ripetersi senza saper puntare alla vera armonia, al vero fine: lo shalòm, la pace profonda e abissale che è benedizione del cuore e della vita.
– Sono anche queste le sensazioni che portano a non farcela più, alla sindrome del burn-out: la ripetizione, la stanchezza, la noia, l’agitazione insensata. Sempre più si corre il rischio di curvarsi su se stessi, di ripetersi senza saper puntare alla vera armonia, al vero fine: lo shalòm, la pace profonda e abissale che è benedizione del cuore e della vita. La predichiamo agli altri, ma non la viviamo noi, e alcuni lo vivono in maniera “tragica e drammatica”; sperimentano questo, vivono in un tunnel di angoscia e depressione e… lasciano.
5) La quinta malattia è quella sociale: è la società malata
“Io mi sono messo a considerare tutte le violenze perpetrate sotto il sole: ecco le lacrime delle vittime da nessuno consolate; da nessuno consolate contro il forte potere dei violenti…” (Qo 4,1).
La comunità umana e la vita dei popoli sono ammalate di violenza e di ingiustizia; il mondo diviene come una giungla in cui l’uomo impazzisce, in attesa di morire o di essere ucciso. Questa denuncia era stata assai presente nei profeti, e in particolare in Amos. Per cui, chiara è la condanna del potere violento, su cui Qohelet appone il marchio del vocabolo a lui tanto caro: “hebel/habel = vuoto… piccolo fumo di vapore”.
– Un’altra sofferta applicazione al nostro tema: credo si sottovaluti, spesso, il peso di una cultura che ci bombarda con messaggi di produttività, efficientismo, autorealizzazione, sessualità diffusa e carenza di interiorità. Tutto questo poi si riflette, anche inconsciamente, sulle nostre scelte di vita.
6) La sesta malattia è la terribile fragilità e inconsistenza dell’esistenza umana
È il canto ultimo del libro (Qo 11,7-12,8), costruito in maniera tale da contrapporre la meraviglia della giovinezza all’affondare dell’uomo nel baratro e nella vertigine dei giorni tenebrosi dello sfacelo senile e della morte.
È come entrare in un vecchio castello in rovina, in una grigia giornata di inverno; un po’ come ci fa vivere Virginia Woolf nel suo romanzo “Gita al Faro”. Si incontrano vecchi tremolanti, uomini decrepiti e curvi che dovrebbero essere di guardia…; donne che non sanno più macinare il grano per la loro debolezza. Lo sguardo si alza sui graticci delle finestre e non si vede il tipico balenare degli occhi femminili: tutto è silenzio. Anche le canzoni, in ebraico “le figlie del canto”, si affievoliscono e tacciono… (Qo 12,3-4).
Le alture sono fonte di vertigine, il mandorlo ha già ultimato la sua fioritura, la cavalletta perde la sua agilità, il cappero non è più capace di esercitare il suo potere afrodisiaco (Qo 12,5). Il legame con la vita viene spezzato: il filo d’argento è tagliato; al filo è appesa una sfera dorata che cade a terra, in frantumi; e poi si spacca in mille pezzi la brocca per attingere l’acqua; infine, la carrucola cade nel pozzo profondo e non si può più attingere da bere… (Qo 12,6-7). Havel havalìm: tutto è vuoto!
– Senza arrivare allo sfacelo devastante e terribile che descrive Qohelet, tuttavia il senso della solitudine affettiva, del vuoto interiore, dell’inefficacia delle nostre attività pastorali, delle conflittualità comunitarie, della poca comunicazione interna ai nostri ambienti, crea un circolo vizioso di pesantezza e di sfiducia, se non di rabbia diffusa, che come tarlo corrode motivazioni e vitalità delle scelte…
7) L’ultima malattia è il silenzio di Dio
Il Dio di Qohelet è un Dio nascosto! “Dio è nei cieli e tu stai sulla terra… perciò, poche parole! (Qo 5,1).
È un dialogo bloccato, è un Dio lontano. Ma come possiamo accettare un testo così scandaloso? Se è vero che nella bibbia la parola di Dio può esprimersi anche in vesti misere e povere, può farsi domanda e supplica nei Salmi, imprecazione in Giobbe, essa diviene dubbio in Qohelet.
Nella stessa crisi dell’uomo e nel silenzio di Dio c’è una parola e una presenza divina; il silenzio di Dio non è necessariamente una maledizione, ma l’occasione di un incontro attraverso strade inedite e sorprendenti. Qohelet è la testimonianza più vera e anticipatoria di un Dio vicino, non per la sua onnipotenza, ma per la sua “incarnazione”: è quello che Gesù ha vissuto e rivelato! E non è casuale che nella Bibbia, subito dopo Qohelet, si incontra il testo dell’Amore e della Gioia cercata e trovata: il Cantico dei Cantici.
– Ecco un’altra applicazione: qui il problema che si pone è quello di una FEDE predicata e spesso data troppo ovviamente per scontata, ma che invece non è adeguatamente supportata da un cammino spirituale e di interiorità: la nostra non è una crisi di vocazioni, ma di spiritualità!
Possiamo allora aiutarci con le parole di P. Davide Maria Turoldo:
Ricorda: “Mai la stessa onda si riversa nel mare e mai la stessa luce si alza sulla rosa: né giunge l’alba che tu non sia già altro”.
Quale accompagnamento per… prevenire?
C’è una premessa importante che vale la pena di fare e di essere tenuta ben presente: prende lo spunto da un saggio del tempo antico: “Le Storie parallele” di Plutarco.
Sono le vicende della vita di personaggi famosi che, in molti aspetti, si incrociano e si assomigliano. Come dire che nella vita delle persone, soprattutto nelle esperienze di sofferenza e di crisi, ci sono molti punti in comune e degli aspetti che si sovrappongono, anche se poi ognuno ha una sua peculiare strada da percorrere…
Se guardo alla realtà del pianeta giovani”, nei cammini di accompagnamento attuali, emergono alcuni aspetti che accenno solo a flash…
– Il senso sempre più evidente di una diffusa insicurezza e indecisione di fronte alle scelte e alle responsabilità della vita: la post-adolescenza continua ad imperversare!
– Prende piede, anche tra giovani in ricerca vocazionale, la teoria e la prassi del servizio “part-time” con cui tacitare, magari, l’inquietudine interiore di una scelta di vita più radicale: per es. le esperienze missionarie, di un mese o poco più, oggi così in voga… Utili se portano ad altre scelte o a cammini di approfondimento e di ricerca; inutili e dannose quando si pensa di avere già dato tutto.
– La forza contraria, ma utopica e gratificante della propria autorealizzazione, intesa come ricerca della “mia felicità personale”, senza un briciolo di trascendenza per andare oltre se stessi.
– Una suggestionabilità emotivamente caricata dalla pastorale dei “grandi eventi” e non filtrata da un coraggioso ma realistico discernimento, può portare a scelte deleterie e purtroppo assai precarie.
La riflessione sulla precarietà delle scelte di Consacrazione (e non solo!), deve fare i conti anche con altri aspetti che anche a breve termine influiscono sul senso della fedeltà ad un progetto assunto ma forse mai pienamente elaborato.
Anche qui, enuncio solo qualche spunto…
A livello culturale ci sono degli aspetti che possono influire in maniera condizionante o anche determinante nel vivere un progetto vocazionale: la diseducazione religiosa; la sempre più conflittuale accettazione della dimensione vocazionale nelle famiglie; la difficile declinazione della dimensione “vocazionale e umana”, in una integrazione di cammino psicologico e spirituale, che si evidenzia in maniera particolare in forme di evidenti immaturità affettive e in centrature narcisistiche.
A livello ecclesiale ecco altri elementi su cui riflettere: la spada di Damocle dei numeri, che porta avanti persone immature o non adatte alla scelta vocazionale e crea poi le loro… “storie tese”; la proposta della Vita Consacrata secondo un profilo ad “alta idealizzazione e perfezionismo”, che crea forti pressioni, attese e aspettative soprattutto su persone fragili; la vita pastorale spesso più frenetica ci porta a tanta stanchezza e frustrazione: già si è detto sopra della sempre più diffusa sindrome del “burn-out”!
C’è poi il grosso nodo dei problemi affettivi irrisolti, già denunciata negli anni ‘70 e ‘80 dalla ricerca di P. Rulla, con persone dalle affettività “bambine o adolescenziali”, spesso in fuga da un mondo di relazioni sempre più ostico e difficile, con paure nell’ambito della sessualità e dell’accettazione della propria corporeità (stima di se stessi!), ma soprattutto con la grande resistenza a mettersi in gioco nel vivere la dimensione della INTIMITÀ e del PER SEMPRE.
Una riflessione a cui non possiamo sottrarci…
A) È un’illusione quella di voler mantenere lo status quo a cui siamo abituati
Oggi si parla molto di “riforma”: a molti livelli sembra una parola chiave, ma che cosa si intende per riforma nel campo specifico della Vita Consacrata? Mi sembra che si stia ancora cercando molto a tentoni…[7].
Credo che ci sia prima di tutto da recuperare il senso di una Vita Consacrata: “Consacrata a chi e perchè?”.
Ci sono alcuni punti di riferimento dai quali non si può mollare l’ancoraggio…: siamo tutti chiamati alla “sequela” e nel nostro seguire è importante poter dire agli uomini e alle donne del nostro tempo che l’Amore di Dio ci segue nelle nostre esistenze, che la sua è una paternità di PROVVIDENZA che conosce ciascuno e lo vuole salvo. Tuttavia è anche chiaro che, per arrivare a Salvezza, ci sono vie di bene tracciate e valide per tutti e per ciascuno… a seconda della situazione/vocazione che ognuno si trova a vivere.
La Vita Consacrata attiva e il Ministero Presbiterale hanno come loro costitutivo una missione apostolica che si esplica nelle “opere” a seconda del “carisma”, dono dello Spirito che va incarnato “oggi”.
Quindi, le radici storiche sono assolutamente importanti e fondamentali, ma devono tenere viva la pianta e dare frutto oggi, in un cammino di costante rilettura della realtà a noi contemporanea e di attualizzazione.
Per leggere la crisi di abbandoni nella Vita Consacrata può essere utile tenere presenti alcuni fattori:
Il successo numerico degli Istituti, nel Novecento, è stato eccezionale, ma questa esplosione numerica è “fuori norma”. Ora la situazione che viviamo è correlata all’evoluzione sociale, che ha messo al centro la persona, il suo valore individuale, aprendo vie di realizzazione personale, di “autenticità”, con nuove possibilità di conoscenza, studio e lavoro.
La società si è articolata in maniera diversa e più “democratica”. In particolare gli Istituti caritativo-assistenziali sono stati strumenti essenziali, che hanno permesso una crescita, un riconoscimento di dignità alle persone istruendole, curandole, accogliendole come figli di Dio… Ora che questi VALORI sono diventati patrimonio comune, o quasi, nella società civile molte “cause” fondanti parecchi Istituti di Vita Consacrata sono venute meno. Il riconoscimento sociale, i ruoli sono scaduti, ma ci sono altri appelli che ci vengono dall’umanità… e non solo nel campo delle “opere di misericordia corporale”… Eppure, non riusciamo a trovare la via per percorrere le strade nuove nelle quali intercettare i bisogni profondi di senso cristiano che i nostri contemporanei hanno e che in maniera spesso maldestra, ci fanno percepire…
I ruoli prestigiosi o comunque legati ad una certa visibilità, sono scaduti e venuti meno; per molti la missione che dovrebbe essere il senso di una vita donata è tutta da reinventare. Ecco una reale difficoltà per tante persone consacrate e tanti presbiteri: questa ricerca di novità di stili di vita e di proposta è difficile, (per alcuni pare proprio impossibile), per cui la scelta fatta un tempo non lontano, con chiarezza di ruolo, ora può diventare frustrante con la costante percezione di restare in una istituzione che si percepisce come… “inutile”. Ecco allora farsi lentamente strada il problema e la domanda di fondo, seppur espressa in termini un po’ brutali: “Come riciclarsi? Come rinnovarsi in maniera significativa?”.
Le radici originarie erano di profonda condivisione con il popolo, con i poveri, con i bisognosi… in una cultura cristiana era anche facilmente leggibile la spinta evangelica che muoveva l’impegno. Ora, in una società secolarizzata, frammentata e distratta, molti di noi si sentono smarriti e cercano dei modi talvolta un po’ confusi e improvvisati per sopravvivere, per giustificare la propria presenza, senza chiedersi se forse non sia necessario cambiare la modalità di percepirsi e di proporsi.
Fino a qualche decennio fa era sufficiente avere una “divisa” e in qualche modo si otteneva il riconoscimento; oggi bisogna misurarsi a tutti i livelli con gli altri, con le competenze specifiche di questa società, con l’età stessa … per es. nella scuola bisogna fare i concorsi, confrontarsi, dipendere da qualcuno, ecc.
Le ricerche evidenziano che chi “ha abbandonato” sentiva spesso come inadeguata la struttura, come poco coerente la prassi, soprattutto a livello di “povertà”, intesa come consiglio evangelico da vivere nella radicalità, di condivisione fraterna di vita e di comunione, spesso così conclamate e poi mal vissute.
S. Paolo, nelle lettera ai Romani, ci dice che non sappiamo che cosa sia conveniente domandare allo Spirito (Rm 8,26), ma che bisogna ascoltarlo perchè lo Spirito opera in tutti, è presente in tutti ed agisce per mezzo di tutti… È proprio il dono del discernimento continuo che ci manca, l’apertura ai disegni della Provvidenza, alla fede data per ovvia e scontata e che così non è.
Abbiamo interiorizzato dei modelli di programmazione produttiva, cerchiamo come continuare nel nostro cammino che si è dimostrato positivo magari anche in un recente passato, ma che oggi non è più tanto efficace, per quanto possa sembrare… buono. “Se non comprendiamo nulla del mondo, non possiamo operare in modo efficace per influire nel suo divenire e nel suo cambiare…” (Tommaso Padoa Schioppa – Corriere della Sera).
B) Occorre uno sforzo coraggioso per leggere i segni dei tempi e la dimensione culturale in cui ci muoviamo per capire alcune situazioni di disagio
Questo vale la pena di non scordarlo, perchè è alla base di molti “abbandoni” e qui c’è bisogno di un intervento radicalmente correttivo da fare. Vorrei essere più preciso…
La prima cosa da ricordare è che ogni tanto ogni forma di Vita Consacrata, va rifondata e non si può che farlo bene e per tempo. Ciò può accadere quando un nuovo sistema storico e culturale la mette in crisi (come il cambio epocale che noi oggi viviamo), e si instaura un ordine mondiale diverso; ma accade anche perchè la forza carismatica nella Chiesa, invece di esaurirsi, trova costantemente nuove forme di espressione e di comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia[8].
Vorrei qui riprendere alcune affermazioni davvero efficaci di J. M. Arnaiz: In quei giorni, tra un secolo e l’altro, le trasformazioni erano grandi. I religiosi avvertirono chiaramente che per avere un futuro dovevano correre dei rischi. Mi fece molto bene, in quei giorni, ricordare due vecchi detti. Il primo proveniente dall’Oriente: “Nessun seme riesce a vedere il fiore”. Il secondo dal Talmud: “Non siete obbligati a completare la vostra opera, ma non siete liberi di non cominciare ad iniziarla”.
Il tempo sarebbe stato importante; la verifica storica è l’unica che può sancire e dare consistenza a un nuovo modello. Per acquisire un’identità sociale e ottenere il riconoscimento si deve accettare di entrare in un processo storico che sarà lento ed esigente. “Di notte non si vede, ma nemmeno con le luci dell’alba è facile vedere. La luce accesa e nuova offusca la vista abituata al buio… Inoltre, non tutto deve esser chiaro nelle rifondazioni; bisogna dare spazio alla immaginazione e al quotidiano andare…”[9].
C) Non viviamo tanto una crisi vocazionale ma una crisi di spiritualità!
Mi sembra che molti cammini vocazionali e formativi spesso puntino ancora ad una ricerca o proposta di fideismo, spesso segnato da forme di religiosità infantile, che non ad un’interiorità e spiritualità dell’internalizzazione e dell’appropriazione[10].
Il tema delle vocazioni è legato a quello della radicalità evangelica. I giovani cercano la propria vocazione, ma in modo diverso da come si faceva in passato. Essi cercano l’essenziale, una Chiesa, una comunità che sia “grembo della fede”. Non offriamo un buon servizio al Vangelo se facciamo della Vita Consacrata qualcosa di più leggero e soft, più diluito e quasi annacquato. Non serve a nulla offrire un cristianesimo che si riduca ad un umanesimo egualitario. Per arrivare alla radicalità bisogna uscire dalla campana di vetro.
È necessario farlo, per vivere oggi in pienezza. La campana di vetro, secondo N. Alcocer, è il cumulo di realtà nelle quali la Vita Consacrata rimane chiusa per evitare il necessario confronto con la vita reale: essa è aggressiva e spesso disorientante e violenta per i religiosi, ma indiscutibilmente luogo in cui Dio oggi si manifesta.
Uscire dalla campana di vetro è faticoso, certamente, e comporta molte difficoltà. Tuttavia non vi è alcun dubbio che vivere in essa annulla il significato della Vita Consacrata: senza rilevanza e significato storico, essa perde le sue funzioni essenziali. Se i religiosi si assentano dalla storia, si assentano da Dio Padre e la loro vita perde senso…
Non può esserci adorazione appassionata di Gesù fuori dalla storia. In sostanza, non esiste spiritualità dentro la campana di vetro. Anche se occorre dire che talvolta manca la forza spirituale per uscire da quel mondo irreale e a tratti assurdo…[11].
D) C’è una grande sfida che spesso non viene recepita: come far diventare le persone adulte e autonome e non farle regredire ad un accomodamento nella istituzione
Qui si pone un tema essenziale che potremmo definire “ricerca dell’adultità”. La recente assemblea regionale USMI del Triveneto, ha messo a tema: “Quali possibili nuovi stili di vita?: adultità, linguaggi, valori…”. Sono termini che richiamano molti aspetti, anche diversificati tra di loro, ma il fatto che si sia sentito come utile ed essenziale richiamare il tema della adultità è emblematico.
È un’esperienza abbastanza condivisa, credo: spesso si chiede a chi entra in un Istituto di Vita Consacrata, oramai sempre di più persone mature e impegnate nell’ambito professionale…, di abdicare a certe responsabilità. Potrebbe essere comprensibile se si tratta del piano strettamente professionale, perchè la persona viene impegnata altrove…, ma si arriva a rendere le persone “infantili e adolescenti”, nel senso che si offre o si impone una certa tutela su tutto, salvo poi chiedere alle stesse persone, quando sono nell’ambiente esterno, di supportare, acquisire o sostenere ruoli per i quali non sono assolutamente preparate.
Si sublima facilmente tutto mettendolo nel piano della fede e della “Volontà di Dio”, o meglio di un fideismo per cui il Signore dovrebbe sempre intervenire a colmare le eventuali lacune. Si arriva, insomma, a tentare il Signore da una parte… e a mettere in croce le persone, dall’altra… È chiaro che in gioco è la formazione iniziale e sicuramente anche l’accompagnamento e il discernimento nella fase della proposta vocazionale, che spesso mirano a favorire l’adattamento più che l’integrazione.
Il primo chiede consenso, disponibilità, accettazione supina e passiva… La seconda va oltre e richiede di assumere in prima persona responsabilità di fronte ai problemi, alle scelte da fare assieme con criteri di discernimento condivisi…
E) Adattamento o integrazione?[12]
Per gli individui trovare una forma d’integrazione accettabile o riuscita è condizione del loro benessere, quantomeno limitatamente alla sfera dell’appartenenza e alle sue influenze esterne. Per le organizzazioni poter disporre di individui che hanno trovato forme positive di integrazione è, d’altra parte, condizione essenziale di buon funzionamento.
Individui che manifestano un buon livello di benessere svolgeranno al meglio le loro mansioni, saranno portati a condividere i problemi della organizzazione cui appartengono e a collaborare alla loro soluzione, si identificheranno maggiormente in essa assumendone le finalità e, sentendo un forte sentimento di appartenenza, penseranno assai meno facilmente di abbandonarla.
Individui che, invece, non hanno trovato modalità positive di integrazione appariranno poco motivati a coprire i ruoli loro assegnati, emotivamente poco coinvolti e, nei casi estremi, desiderosi di abbandonare l’organizzazione. Vi sono tuttavia delle forme di adattamento che, soprattutto in certi momenti della loro storia, rivestono un ruolo cruciale per le organizzazioni: si tratta di quelle assunte dalle persone che appaiono caratterizzate da un atteggiamento critico[13].
– Esse possono essere anche abbastanza diverse tra di loro. In alcuni casi si tratta di individui dotati di un buon grado di identificazione, quantomeno con i fini dell’organizzazione, e che tuttavia sono insoddisfatti dello stato di cose esistenti tanto da volerlo modificare. Spesso questo genere di persone esprime in modo esplicito tale orientamento, attraverso verbalizzazioni e comportamenti conseguenti. Potremmo parlare in questo caso di atteggiamento critico attivo.
– Altri individui, invece, esprimono un disagio non esplicitamente orientato al cambiamento e che tuttavia sembra implicitamente invocarlo. Potremmo dire che si tratta di soggetti con atteggiamento critico passivo. In questo caso non è detto che esse manifestino esplicitamente il loro disagio. Possono tenerlo per sé, e prendere in considerazione, nel segreto del loro animo, la prospettiva dell’abbandono.
– Tutte queste persone assumono un’importanza particolare per le organizzazioni perchè, pur apparendo spesso a coloro ai quali ne è affidata la responsabilità, come soggetti problematici e potenzialmente minacciosi per la stabilità dell’istituzione, possono essere il segno che qualcosa in quest’ultima non va, che essa, ad esempio, non si è adeguata sufficientemente ai cambiamenti intervenuti nell’ambiente esterno e che occorre provvedere a qualche genere di innovazione. Questi soggetti sono altresì importanti perchè essi possono diventare i protagonisti dell’innovazione, favorendo in questo modo l’adeguamento organizzativo. Per questo le istituzioni “sagge e lungimiranti”, operano in modo da non condurre queste persone ad un punto di demotivazione tale da abbandonare l’organizzazione; cercano di ascoltare le istanze che esse pongono; ne valorizzano la presenza e si sforzano di far evolvere gli atteggiamenti di critica passiva verso modalità di espressione maggiormente attive e innovative.
Per concludere: mi chiedo se il vero problema oggi sia quello dell’invecchiamento, nelle nostre istituzioni ecclesiali e vocazionali (invecchiamento del clero, dei religiosi o delle religiose…), oppure se non sia piuttosto legato alla nostra mediocrità di vita e di proposta vocazionale e ad un certo stile di imborghesimento diffuso?
Il Talmud ci ricordava poc’anzi che è di tutti iniziare un cammino, non è di tutti il portarlo a compimento… occorre cercare di capire quello che realmente possono dare le persone e non vivere sempre la pastorale delle urgenze che è un vero e proprio gioco al massacro! La pressione e le attese che investono un giovane, prete, religioso o suora, sono un macigno che schiaccia in breve tempo; oppure uno arriva a percepirsi come nel mito di Sisifo: il sasso che faticosamente ha portato sul monte, rotola ineluttabilmente sempre a valle…[14].
Per una pastorale rinnovata dell’Accompagnamento Spirituale
Sintetizzando il cammino sin qui percorso, credo ci siano tre parole d’ordine da vivere in pienezza per dare una spinta rinnovata e significativa all’accompagnamento spirituale e vocazionale, mirato anche a “prevenire” in certo qual modo le possibili crisi di identità e di fedeltà alla scelta (per quanto possibile alla realtà umana…):
– la “compagnia”: intesa come la dimensione di una Guida Spirituale che sa “camminare accanto” e nello stesso tempo aiutare a leggere gli eventi interiori della vita delle persone con coraggio e onestà;
– “l’interiorità”: come cammino che porta maggiormente a privilegiare lo stare presso se stessi, psicologicamente e spiritualmente, perchè questa è una sinfonia da suonare a due mani…[15] e lo stare con il Signore, anche sacrificando una certa dose di super-efficientismo che può gratificare ma non sempre necessariamente aiuta…;
– il “rispetto della persona”: che significa proporre ai giovani che si accompagnano dei criteri di lettura del cuore e della vita, senza cadere nella volontà di imporre le nostre visioni sulle loro realtà esistenziali e lasciando ad ogni persona di compiere quel cammino personale che le compete, senza legarla ad attese, aspettative e pressioni particolari di alcun genere nella sua scelta vocazionale. È un atteggiamento che richiede distacco e gratuità, direi quasi una “nuova purezza del cuore”…: Gratuitamente avete ricevuto… gratuitamente date!
Quanto abbiamo brevemente sopra accennato ha ovviamente delle ricadute concrete, che provo ad elencare a mo’ di input psico-pedagogici, che sicuramente domandano ulteriori approfondimenti e mediazioni legate alle concrete situazioni di vita:
– Una attenzione ai tempi della persona e non a quelli della Istituzione o alle urgenze, spesso “tappabuchi”, dei Superiori.
– La capacità di focalizzare il senso della appartenenza/integrazione e non quello dell’adattamento alla Istituzione, certamente comodo ma regressivo.
– L’accettazione che ogni persona, in particolare i giovani, portano delle novità che non debbono solo essere appiattite o assorbite senza dolore, ma che ci debbono necessariamente mettere in discussione… “La storia e la geografia della Vita Consacrata sono fatte di continue rifondazioni. Ciascun nuovo candidato in un Istituto o in un Seminario richiede, almeno in parte, una ricreazione dell’istituzione stessa, poiché in ognuno di questi giovani e nuovi membri s’incarna in modo originale e diversa la forza dello Spirito Santo”[16].
– Concretamente ciò significa ancora dei sentieri educativi da percorrere: l’aiuto concreto per la ricerca di una realistica conoscenza di sé; l’importanza del capire e del vivere, dando loro un nome, i propri “sentimenti”, per imparare a discernere le vie della “desolazione e della consolazione…”.
– Consolazione e desolazione: non possiamo vivere sempre semplificati, senza ambiguità, compromesso o confusione. È importante far convivere queste due radici esistenziali: lo spirito positivo, aperto e costruttivo e lo spirito negativo, distruttivo e conflittuale. Occorre accettare che in noi trovino spazio due seminatori e anche due esiti di vita e di semina…
– Ecco allora anche l’importanza di alcune “regole spirituali” per una scelta di vita:
1) L’ accoglienza
Essa porta concretamente a chiedersi: “Che cosa vivo rispetto alla decisione importante della mia vita e dove va a finire questa serie di pensieri? In serenità, gioia, pace, coraggio e semplicità delle cose; o confusione, disordine, paura, tristezza e frustrazione?”.
2) La riflessione prudente
È opportuno valutare sapendo prendere il tempo che serve, senza la fretta del concludere subito: “Devo fare così!”. Ma attenzione ai momenti della euforia e del benessere, tanto quanto a quelli dello scoraggiamento e della tristezza: sono entrambi cattivi consiglieri e maestri di vita.
3) La resistenza
Si riferisce alla situazione della desolazione: ci sono dei momenti in cui non mi riconosco più, non so capire cosa voglio e come sto vivendo, dove andare con la mia vita; vivo oscurità e dubbio. È essenziale riconoscere che non si è in grado di decidere in questo momento e quindi la Guida spirituale deve essere ferma nell’aiutare a non prendere decisioni definitive, in grado di mutare l’andamento della vita. Ed è anche la capacità di “resistere nelle scelte fatte”, di vivere la fedeltà nella umiltà, nella certezza che l’aiuto del Signore resta, anche se non sempre lo si avverta chiaramente.
– È la riscoperta di un itinerario profondo all’Amore, come via all’Intimità e alla Verginità per il Regno. La possiamo chiamare “purezza del cuore come capacità di entrare nelle scelte umili di Cristo”, conformi al suo stile di vita. È il salto nell’Amore evangelico. È il cammino della “kènosis”, della spogliazione, dell’umiltà di Gesù e della sua povertà fino alla Croce. È un criterio non volontaristico o teorico, ma affettivo… Il metodo fondamentale quindi rimane quello della lectio divina.
– È sempre più importante, nel cammino di accompagnamento spirituale e vocazionale, l’attenzione alle “proiezioni benigne” sulla Vita spirituale, dando per scontato il cammino della Fede o cadendo in forme spiritualistiche che si rivelano piuttosto infantili, magiche e spesso anche animistiche! Un sano discernimento vocazionale non può essere condizionato né dalla fretta né dall’ansia dei numeri…
Vorrei concludere con le parole finali del film di Susanna Tamaro “Nel mio amore”, che mi sembrano così significative proprio perchè legate all’esperienza di conflittualità familiare e di ricerca spirituale del protagonista, un giovane adolescente, Michele:
Notte nella malga… Le stelle vegliano sulle rocce e sui boschi. Ma il loro sguardo è freddo. Senso di solitudine. Dove sto andando? L’oscurità dilata le domande, le rende inavvicinabili. Riprendo a respirare soltanto quando compare il tenue bagliore dell’aurora.“Signore, quanto è grande il Tuo mistero! Per darci la luce, hai creato le tenebre. Per darci la vita, hai creato la morte”.
Note
[1] Il tema del “mistero dell’uomo” è la chiave di lettura del testo di IMODA F., Sviluppo umano, Psicologia e Mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 17-37.
[2] Cfr. UNDERHILL E., Mysticism, Dutton, New York 1961.
[3] Cfr. NIETZSCHE F., Così parlò Zaratustra, Longanesi, Milano 1972.
[4] PASCAL B., Pensieri, a cura di L. Lafuma, Seuil, Paris 1962 (n. 622).
[5] Per questa interessante e attuale rilettura di Qohelet, il riferimento è RAVASI G., Il racconto del cielo, A. Mondatori Editore, Milano 1995, pp. 222-237.
[6] GOLDONI L., Diario Blu, Rizzoli, Milano 1995.
[7] Quanto vado proponendo fa riferimento in maniera particolare ai due testi sotto citati.
– La ricerca sociologica condotta dalle presidenze USMI e CISM del Triveneto: Una strada diversa: giovani religiosi verso il terzo millennio, ed. Il Calamo, Roma 2000 (in particolare gli articoli di P. GIOVANNI DAL PIAZ, di ALESSANDRO CASTEGNARO e di ITALO DE SANDRE).
-ARNAIZ J.M., Per un presente che abbia futuro; Vita Consacrata oggi: più vita e più consacrata…, Paoline, Milano 2003.
[8] GIOVANNI PAOLO II, 5 ottobre 1994.
[9] “II futuro della Chiesa non può essere pianificato… attraverso l’applicazione di principi generali riconosciuti; è necessario il coraggio… dell’immaginazione creativa” (K. RAHNER).
[10] Cfr. ARNAIZ J.M., Per un presente che abbia futuro, p. 228.
[11] ALCOCER N., S.J., Salir de la burbuja, para vivir hoy y en plenitud la vida religiosa consagrada, Quaderni Confer., Madrid 2002.
[12] L’analisi di questo tipo di “appartenenza” è ben sviluppata nella ricerca USMI – CISM: “Una strada diversa”, pp. 164-166.
[13] E cioè quando le relazioni tra l’organizzazione e l’ambiente nel quale vive sono andate modificandosi al punto tale da richiedere un riassetto anche interno.
[14] Questo aspetto è ben sviluppato nella ricerca “Una strada diversa” come la sfida delle nuove generazioni alla scelta vocazionale e diventa veramente una via che è “l’elogio della autenticità”.
[15] Per approfondire questa essenziale relazione tra la Psicologia e la Vita Spirituale consiglio il bel testo di GOYA B. che si intitola appunto “Psicologia e Vita Spirituale: sinfonia a due mani”, Dehoniane, Bologna 2000. Su questo aspetto trovo pure molto significativo il testo di DELL’AGLI N., Lectio divina e Lectio humana: un nuovo modello di accompagnamento spirituale, Dehoniane, Bologna 2004.
[16] ARNAIZ J.M., “Per un presente che abbia futuro”, op. cit. p. 61.