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Questa grammatica della vita spirituale

Riportiamo di seguito la prefazione di Antonia Chiara Scardicchio al libro E c’era soltanto una voce – piccolo saggio sulla vocazione di Luigino Bruni. 

 

Ho dovuto più volte sospendere la lettura tanto forte era la sensazione di un urto, di un soffio di vento così travolgente che mi portava lontano: per prendere il fiato, fare spazio a tutto quel lavorare.

Di tutti i libri di Luigino Bruni, per me questo è quello la cui scrittura – in un potentissimo connubio tra forma e contenuto, prosa e poesia, registro tragico e registro contemplativo – mi ha portato davanti a uno specchio.

Questo libro è un esercizio, un’esperienza: perché muove come uno scatto, come una spinta.

Come se le pagine dell’Antico Testamento prendessero non solo vita ma anche fuoco, come se – proprio come accade nella preghiera – assumessero forma e vita e venissero a noi, dicessero proprio di noi, fossero qui con noi.

La meditazione intorno alla vocazione in molti scritti assume forme disincarnate, a volte solo tecniche, altre volte troppo diafane, nell’uno e nell’altro caso disincarnate: dalla manualistica allo spiritualismo, spesso chi scrive di vocazioni e per le vocazioni si disincarna e disincarna.

In questo testo, in questa ricerca – che è come se l’autore ci portasse nella sua stessa preghiera, nella sua stessa contemplazione – si è invece catapultati: contemporaneamente dentro e fuori, fuori da una visione soltanto bidimensionale che legge noi stessi e Dio come figurine di carta.

E proprio la carta qui prende vita, si fa carne: più volte leggendo è stato come essere li, nella scena che Luigino guarda e che a lui parla, svela dimensioni e angolazioni che lui contempla e narra col suo stesso dono profetico, con la sua scrittura che apre e convoca.

Accade in queste pagine che leggendo di Isaia, Geremia ed Ezechiele e delle meditazioni che li riguardano, si legga contemporaneamente tanto di vita psichica – profonda, interiore, di questioni inerenti la stanza sacra propria di ognuno – e di vita politica, ricevendo da queste righe chiare indicazioni di discernimento per la propria vicenda intima e per la propria vicenda storica: scorrono cristalline espressioni che rivelano, ci rivelano, circa il modo di pensare e vivere le relazioni e le illusioni di relazioni, le comunità e le illusioni di comunità, le identità e le illusioni di identità, circa il nostro stare da viventi in un incontro con Dio che è reale soltanto quando ci strappa dall’autoinganno.

Questo libro è un testo appassionato, innamorato, è scrittura d’amore particolare perché non riservata soltanto allo scambio esclusivo tra chi scrive e il destinatario della passione, che in questo caso è per l’autore la Bibbia: a volte leggendo lettere d’amore, chi legge resta solo spettatore, conosce gli impeti d’amore che la scrittura di un altro produce ma di quelle lettere non si percepisce parte. La scrittura d’amore di Luigino Bruni verso le Scritture ha invece capacità generative: chi legge si sente ella/egli stesso amato, sta nella relazione, entra a far parte di un’esperienza che è insieme assolutamente personale e assolutamente di comunione.

Questa “grammatica della vita spirituale” (così l’autore dice della storia di Geremia, ma così è possibile intendere questa sua stessa scrittura) ci restituisce, come ogni chiamata, l’immagine nuda di noi stessi: il limite e la caduta, il silenzio e il fallimento, il dolore e la perdita ne costituiscono parte integrante, nella forma generativa che la “felice colpa” assume nel piano di Dio, già nell’Antico Testamento:

 

ll profeta può sbocciare se rimane dentro questo conflitto doloroso fino ad abitarlo, se non cede alla tentazione di ritornare nella comunità dei nabi ordinari e innocui.

Troppi profeti non riescono a fiorire perché resistere nella distruzione creatrice è molto doloroso: “I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare” (Geremia 14,17). Ma tutte le volte che una vocazione muore sotterrata, petali coloratissimi scompaiono dall’infiorata della terra. “Perché il mio dolore deve durare per sempre, perché la mia ferita è infetta e incurabile?” (15,18).

Qui Geremia ci dice che la vocazione è una ferita, una ferita sempre aperta che non cicatrizza. Ci dice che la voce buona che un giorno ci rivela ciò che eravamo già da sempre è anche un bisturi che per aprirci la nostra natura più vera, per svelarci a noi stessi, incide profondamente la nostra anima e la nostra carne.

È una circoncisione del cuore, che però si compie sotto l’effetto dell’anestetico della luce amorosa che chiama e seduce. Poi seguono anni in cui il lavoro della voce-chirurgo continua e affonda, anche se tutto è solo immensa felicità: “La tua parola era la mia gioia e la mia letizia intima” (15,16).

Ma l’effetto dell’anestesia progressivamente si esaurisce, e un giorno ci si ritrova soltanto con la ferita sanguinante, senza comprendere il senso né del dolore né della ferita. Ci si scopre semplicemente una ferita inutile, un significante senza significato. Segno muto.

Quell’apertura dell’anima, che per tanti anni era stata il luogo dell’incontro e del dialogo con la voce, appare soltanto un taglio che fa male e che non si risana. Questa trasformazione della prima apertura in ferita segna l’inizio della fase più feconda di ogni vocazione, di quella misteriosa e tipica generatività, preziosa e rarissima.

Il profeta è una ferita che parla, una spina perennemente conficcata nella propria carne, e ognuno ha il suo segno segnato che gli consente di in-segnare la parola.

 

E sì: curiosamente, incredibilmente, un libro che dice di storie di profeti, ovvero – tra le storie della Bibbia – di quelle che sembrerebbero le più lontane dalle nostre storie quotidiane, è un testo che dice di teatri interiori ed esteriori profondamente incarnati: riguarda ciascuno, richiama ognuno di fronte a sé.

Un testo attorno alla questione identitaria, un testo intorno alla nostra identità battesimale, nella misura in cui con tenerezza e rigore conduce ciascuno davanti alla sua personale chiamata a sé: quell’essere “sacerdote, re e profeta” che significa per ognuno singolare implicazione nel progetto di co-creazione.

Chiamata che non soltanto è “romantica”: è colma d’amore sì, e proprio per questo non disincarna ma porta al cospetto anche della consapevolezza della nostra mortalità, e per questo richiede doglie/travaglio/lavoro: coscienza della necessità di ininterrotto lavoro sul sé. L’identità è come la vocazione: una responsabilità.

E questo testo, piccolo ma poderoso, sta così: come gigantesco viatico che ogni direttore spirituale, ogni maestra di noviziato, dovrebbe leggere per introdurre nella complessità di una relazione che è quotidiana convocazione.

Ma non soltanto, non soltanto è scritto e parla per gli esperti della vocazione intesa come scelta di stato: queste pagine sono per ognuno che sta nella realtà sentendosi interrogato, interrogante: profeta non è chi parla ma chi nel vuoto si abita e si lascia abitare.

Profeta non è chi possiede la risposta ma chi dalla domanda si lascia mobilitare:

 

Per i profeti camminare è più importante di capire il senso della corsa, perché il significato primo e più importante è l’obbedienza alla voce che ti dice di camminare. Si tradisce la vocazione quando smettiamo di camminare nudi e scalzi, non quando non capiamo più il perché.

 

Profeta non è chi sa più di altri né chi consegna certezze:

 

[…] non è esperto dei tempi, non tenta previsioni sul momento aurorale. La speranza profetica non nega la notte e non nega l’alba, e la sua fedeltà alla vocazione sta nel saper restare ignorante tra la notte e l’alba, e invitare i passanti a fare domande.

 

Così da Luigino Bruni la vocazione profetica ci è consegnata come proprium umano: quanto coraggio in queste pagine che ci restituiscono, al contempo, infinita la nostra piccolezza e infinita la nostra possibilità.

 

 

(A.C. Scardicchio, «Questa grammatica della vita spirituale» in L. Bruni, E c’era soltanto una voce – piccolo saggio sulla vocazione, AnimaMundi 2021, pp. 7-12)