Direzione spirituale e progetto pedagogico. La guida spirituale: “pedagogo” o padre?
Abbiamo più volte affrontato, nei nostri incontri e riflessioni, il tema dei rapporti tra scienze spirituali e scienze umane, psico-pedagogiche in particolare. Si tratta di un tema di confine e di confini, dunque; e noi sappiamo che i confini sono luogo ove si entra in rapporto con una realtà altra, ove la nostra identità è in qualche modo messa in discussione, provocata da una realtà “altra” o dai confini di un’identità altra, magari contestata, o spinta a chiarirsi. Per questo spesso i confini sono luogo che si rischia di non frequentare mai, soddisfatti delle nostre sintesi e sicuri (all’apparenza) della propria identità, perdendo così l’occasione d’affrontare una realtà inedita, dalla quale, o dall’incontro con la quale potrebbe venir fuori una sintesi nuova e originale, qualcosa d’imprevisto e impensato, forse addirittura una nuova identità. I confini, in qualche modo, sono la relazione nella nostra vita; quella relazione interpersonale che continua a formarci nel tempo. Chi non li frequenta vive lontano da sé, in uno stato di frustrazione permanente, e non di formazione permanente. E di solito fa anche una grande confusione nel rapporto con gli altri.
Tanto peggio se il rapporto dovrebbe invece esser chiarificatore, come nel caso del colloquio vocazionale. Ecco perché questo tema è di centrale importanza per noi, e se è vero che l’abbiamo affrontato altre volte, è altrettanto vero che al riguardo siamo probabilmente ancora lontani da una sintesi soddisfacente attorno a un modello operativo collaudato ed efficace. Forse abbiamo indicato delle attenzioni teoriche[1] che ci hanno permesso di abbozzare dei tentativi pur convincenti di integrazione, ma non al punto, ancora, d’aver tracciato delle linee in cui riconoscere e da additare come prassi comune, che tutti possano concretamente metter in atto[2].
Il nostro scopo, allora, è quello di procedere nella linea che dall’approfondimento teorico giunga sempre più vicina all’attuazione pratica. Ci domandiamo, più in particolare: è lecito parlare di progetto pedagogico dentro la vita spirituale? Oppure basta esser “uomini o donne spirituali”, capaci come per istinto di trasmettere Dio e la sua volontà senza tanti raggiri psicologici e bisogno di ricorrere a o diventare tutti degli strizzacervelli? E dunque, anzitutto, cos’è un progetto pedagogico spirituale (PPS)? Come si applica nella direzione spirituale (DS) per l’accompagnamento e il discernimento vocazionale? È possibile leggere una contrapposizione nell’affermazione di Paolo circa i molti pedagoghi possibili e l’unico “padre in Cristo” (cfr. 1Cor 4,15)?
Vita spirituale e progetto pedagogico
Vediamo anzitutto di cogliere il senso della situazione che attualmente stiamo vivendo nella Chiesa e nelle nostre comunità credenti al riguardo.
La pedagogia, parente povera e “ancilla”
Siamo stati tutti formati, in buona sostanza, secondo una concezione che non attribuisce alla pedagogia una grande importanza, al di fuori di quella di indicare le linee evolutive della maturazione dei pargoli. Insomma, è una scienza minore, di natura prevalentemente operativa, quasi empirica, legata com’è all’esperienza (o alla praticaccia, direbbe qualcuno). Nei confronti della teologia, eterea e nobilissima nel suo volteggiare aulico attorno niente popò di meno che alla realtà di Dio, è una sorta di parente povera, forse ancor meno dell’ancilla d’un tempo…
Credo che dovremmo cominciare con lo sfatare questa idea. Partendo dall’idea che la teologia, per natura sua implica una componente pedagogica. Potremmo dire che la pedagogia è il confine della teologia, nel senso detto più sopra, poiché la stimola a tradursi in percorso proponibile ad altri, a confrontarsi con la vita e la possibilità di vivere la buona novella nell’esistenza quotidiana, a dettare passi concreti, è la sua frontiera, o se vogliamo la sua parte più dinamica ed espressiva, più esistenziale e culturale, maggiormente vicina alla vita e al cuore dell’uomo, d’ogni uomo in ogni momento della sua storia. Lo è, lo deve essere, poiché se una teologia non può esser annunciata e tradotta in pratica di vita, in metodo di crescita, in atto e stile orante, in atteggiamento credente, in sapienza terrena, in relazione umana, in processi decisionali, in percorso vocazionale… non è teologia cristiana[3]. Semplice!
In tal senso verrebbe da dire che la DS esprime già in se stessa questa componente pedagogica della teologia, è pedagogia per definizione, nel momento in cui aiuta giovane e credente di qualsiasi età a riconoscere il progetto di Dio su di sé, perché si compia nella sua vita e in ogni giorno d’essa. Il problema è chiedersi se davvero la DS, come oggi comunemente è intesa e praticata, mantenga fedeltà a questa sua natura composita, per così dire, come una doppia anima, per esser veramente mediazione e tramite del progetto e della voce di Colui-che-quando-ama-chiama.
Direzione Spirituale e pedagogia
La sensazione è che non sempre sia così. Ma che spesso la DS non giunga a essere propositiva d’un percorso per il credente che sta cercando, sia molto più attestata e squilibrata sul versante teologico, ma d’una teologia, come dire? gessata, non abbastanza fecondata dall’incontro con la vita, non sufficientemente intrisa di realtà, quasi incolore e generica, più capace che indicare fini e obiettivi generali e generici che non di suggerire alla fatica quotidiana del pellegrino passi e modalità operative. Una teologia così è una teologia pesante e sterile. Che creerà solo finte DS o mostri di DS.
a) DS pesante e sterile
Una teologia pesante e sterile “genera” una DS altrettanto pesante e sterile, ripetitiva e uguale per tutti, ricca di piissimi luoghi comuni (“cerca di pregare un po’ di più”), di sensazionali scoperte (“forse tu hai un problema affettivo”), di inquietanti dubbi (“potrebbe essere un conflitto sessuale”) e di originalissime raccomandazioni (“il guaio è che non ti accetti, devi accettarti…”), noiosa da morire (per la guida che dopo i primi due incontri non sa più cosa dire e da che parte cominciare) e frustrante (per chi cerca una parola autorevole e trova solo parole banali e risapute), spesso muta e indecisa, incapace di proporre e accompagnare il credente che si sta interrogando sul suo futuro e che a un certo punto pianta lì, visto quel che serve.
b) DS vocazionalmente inetta e inutile
Oppure una DS vocazionalmente inetta e inutile, che non apre in prospettiva vocazionale, che finisce per esser più consolatoria che pro-vocante (come fosse una terapia di sostegno, infatti, questo tipo di DS è in perenne competizione perdente con la psicoterapia), incapace di tracciare un cammino che consenta di scoprire la propria chiamata, ovvero che fallisce proprio lì ove è maggiormente attesa.
c) O poca o troppa
Di conseguenza, nonostante la DS sia un tema dei più annunciati e dibattuti, e sia divenuta quasi parola magica, l’albo ha pochi iscritti e il ministero pochi addetti, di DS se ne fa molto poca e con poco, pochissimo frutto. Oppure, al contrario, vi sono quei presbiteri, di solito giovani, che sembrano dedicarvi tutto il loro tempo ed energie, in termini e modalità poco equilibrate e con scarso senso d’una visione d’insieme della pastorale, e con l’unico risultato di creare qualche dipendenza, suscitando spesso il malcontento del presbitero più anziano e magari anche qualche classico sospetto e chiacchiera maliziosetta da parte della gente (“ma cosa sta tutto il tempo a parlare con quattro ragazzine depresse e sconsolate…!?”).
d) DS delegata al tecnico
O ancora, altro equivoco, la DS viene praticamente delegata al tecnico (psicologo e dintorni). E allora il rischio sarà quello d’uno squilibrio sull’altro versante, d’una metodologia sospesa nel vuoto, non abbastanza connessa con quella che dovrebbe essere la sua fonte e punto costante d’ispirazione.
e) Assenza di formazione alla DS
Altro segnale inquietante e sempre nella medesima direzione è la sostanziale assenza, nei nostri ordinamenti scolastici, d’una formazione teorico-pratica alla DS, che venga dall’esperienza personale, su di sé, anzitutto, e dalla riflessione sistematica su di essa, e d’una scienza, d’un autentico sapere al riguardo, che metta insieme in modo sistematico e lineare le due prospettive, in modo da fornire al futuro presbitero una dottrina solida sul piano teorico e una metodologia pratica circa l’arte della guida delle anime. Con l’esperienza che la Chiesa ha al riguardo, ragguardevole sul piano della continuità nel tempo e della qualità dei risultati, è piuttosto strana questa lacuna. Tutt’al più di questo argomento, nel sessennio teologico, si occupano corsi complementari o seminari facoltativi, qualcosa che resta fuori del circuito istituzionale delle materie cosiddette importanti e fondamentali, come fosse un’optional, e, infatti, sovente sono corsi facoltativi, o specializzazione di alcuni, non di tutti, come non fosse compito intrinseco del maestro nella fede imparare ad accompagnare il cammino credente di tutti[4].
E magari questa competenza viene letteralmente rincorsa successivamente, nei corsi vari di formazione permanente, come un aggiornamento un po’ disperato e mai raggiunto del tutto, che finisce per mantenere l’equivoco sia circa la DS che circa la formazione permanente. Qui certamente è possibile una certa conflittualità o confusione tra l’interpretazione “paterna” o “pedagogico-tecnica” della guida nella DS. Sembra chiaro che dietro tutto ciò c’è una debolezza radicale della cosa in sé, dell’idea di DS e della prassi corrispondente, debolezza che poi vuoi dire confusione di piani e d’interventi e che determina l’inefficacia della cosa. Così com’è strano che al progetto di Dio non corrisponda quello dell’uomo.
Progetto di Dio e progetto dell’uomo
Vediamo allora di definire il PPS. Potremmo dire che il PPS è
un’ipotesi o proposta di cammino
lungo le vie dello Spirito e di un’esistenza concreta,
che mira a scoprire progressivamente
la voce del Dio chiamante tale esistenza,
e a favorire e sollecitare la risposta del chiamato
in libertà e responsabilità
ogni giorno della sua vita.
Proviamo a scandire e specificare i termini più rilevanti di questa definizione descrittiva, per coglierne anche la rilevanza e le implicanze pedagogiche.
Ipotesi o proposta pro-gettuale
Il PPS non è un’affermazione assoluta, né sta a segnalare l’invadenza di uno, per quanto autorevole, nella vita d’un altro; è un’ipotesi, un tentativo d’interpretazione e pure di proposta, ma che si pone nell’ambito d’un progetto; è proposta progettuale, per esser più precisi, come s’addice a chi cerca la volontà di Dio su di sé. Val forse la pena, allora, cercare di capire bene cosa vuoi dire progetto. Progettare non vuoi dire semplicemente programmare, ma disporsi dinanzi all’altro, alla sua vita e al suo futuro con un atteggiamento geniale-inventivo, coraggioso e fiducioso. Sono i tre fondamentali e progressivi significati del pro-gettare, particolarmente preziosi da cogliere perché – tra l’altro – rispondono a un vuoto di certa cultura odierna giovanile (e non solo).
a) Inventare qualcosa
Anzitutto progettare vuoi dire, secondo il significato più ovvio, ideare qualcosa, e concepirlo con la propria testa e la propria capacità inventiva, alla luce della sapienza dello Spirito e al servizio della persona che si ha di fronte. Noi vorremmo sempre avere qualcosa di “pronto-per-l’uso” anche nelle cose spirituali, ma l’arte della DS implica quell’attenzione al singolo che è per natura sua creativa, e che porta a individuare il cammino più adatto per il singolo. Proprio questo significa anzitutto paternità; non solo sentimenti paterni nei confronti del giovane, ma capacità di generare qualcosa, frutto della propria passione e della propria identità e – perché no? – della propria verginità.
E legato non tanto al proprio quoziente intellettuale o alla propria fantasia creativa, quanto alla propria esperienza e cammino vocazionale, o all’intensità della passione con cui uno vive la propria vocazione. Ben ricordando che tutto ciò non è legato semplicemente alla memoria di qualcosa accaduto nel proprio passato, ma all’attualità della propria risposta vocazionale che continua nel tempo e si rinnova ogni giorno. Da questo punto di vista, solo chi prende sul serio la sua propria formazione permanente, può fare da guida spirituale d’un altro (e da animatore vocazionale), altrimenti c’è solo il mercenario o il tecnico, o il mestierante o il pappagallo che applica e ripete cose sentite da altri…
Nel primo caso, quando cioè il servizio è parte del proprio cammino di formazione permanente, non c’è alcun motivo di contrapposizione tra pedagogo e padre; nel secondo invece c’è la possibilità del conflitto. Inoltre l’autentica guida non si sostituisce mai a colui che accompagna lungo un tratto di strada, ma gli propone un progetto soprattutto perché lui stesso a un certo punto e sempre più sappia progettare la sua vita, con senso di responsabilità e creatività.
b) Al di là dell’io
Ma pro-gettare, soprattutto se andiamo alla radice del verbo, può voler dire anche gettare se stessi al di là di se stessi[5]. Il senso qui non è più puramente riflessivo, autorivelatore di sé, ma implica un’operazione che va esattamente oltre quello che la persona è o ritiene di essere. Colui che pro-getta, e tanto più se vuole aiutare un’altra persona a entrare in un autentico progetto o a progettarsi, non formula un’ipotesi operativa che di fatto resta entro i confini dell’io attuale del giovane, di quello che è facile, che non gli costa niente e che è sicuro di saper fare, ma propone in qualche modo di rompere questi limiti, di andare al di là d’essi, di tentare qualcosa di nuovo, di mai provato prima d’allora, di rischioso anche. Evidentemente non per il gusto della novità, ma proprio per proiettare (o iniziare a proiettare) l’esistenza in termini vocazionali. In tal senso l’autentico pro-gettare vuoi dire portare il giovane a disegnare una realtà inedita, ad avere il coraggio di rischiare qualcosa d’ardimentoso e a non accontentarsi di ripetersi e fotocopiarsi, magari per la paura di fallire (e con l’illusione d’esser realista o umile…).
E non in una direzione qualsiasi. Ma in prospettiva autotrascendente, sul piano più propriamente spirituale. Poiché, in termini di legge psicologica, è solo grazie a un’operazione di superamento dell’io che l’individuo scopre il suo io ideale, non solo ciò che è, ma quel che è chiamato a essere, o quel che potrebbe diventare se avesse sempre questo coraggio autoprogettante, il coraggio di “gettare il cuore al di là dell’ostacolo”. Quando Maria accoglie le parole misteriose dell’Angelo e accetta di divenire madre del Salvatore, fa esattamente – sul piano umano-psicologico – questo tipo di operazione auto trascendente: sceglie qualcosa che è decisamente “al di là di” quello che aveva sempre pensato di sé e per il suo futuro. Qualcosa così “oltre” le sue forze e la sua umanità da sembrarle impossibile. Con tutto il timore che questo implica.
c) Consegnarsi e fidarsi
C’è infine un ulteriore significato, forse meno evidente e comunemente meno legato all’idea del progettare. Se la radice di tale verbo viene identificata nel verbo latino proicio allora progettare significa affidarsi a qualcuno, consegnare a un altro (a un Altro) se stessi, la propria vita, la realizzazione dei propri desideri, specie di quelli che vanno oltre le proprie possibilità e che pure sembrano parte dell’io ideale, e attraggono. D’altronde l’essere umano deve consegnarsi, a chi o a cosa sarà lui a deciderlo, ma deve in ogni caso rispettare tale legge psicologica.
Nel caso del credente la consegna fondamentale è a Dio e alla sua volontà, ma anche a quelle mediazioni umane, imperfette e colme di limiti, attraverso le quali normalmente viaggia e si rende comprensibile il mistero di questa volontà. Chi progetta o aiuta un fratello minore a concepire la vita nella logica della consegna cercherà soprattutto di farlo entrare nello spirito di questo atteggiamento ulteriore, con la fiducia e il coraggio che esso implica. Ancor più e ancor prima di definire accuratamente il progetto stesso. Ciò che conta è che il giovane capisca e attui questa consegna fiduciosa e coraggiosa di sé, nei confronti di Dio e non solo, evitando di chiudersi entro una logica privatistica e limitata a piccoli interessi o misurata secondo le sole sue forze, ma s’apra alla fiducia e alla speranza, scommettendo su qualcosa (un ideale) o qualcuno più grande di lui e affidabile. D’altronde la crisi vocazionale non è forse crisi di progettualità della vita o di capacità di fidarsi? E allora scopo del PPS è soprattutto la crescita in una e nell’altra, e l’abbandono della pretesa, da parte del giovane di controllare completamente la situazione, di fare scelte o tentare esperienze in cui tutto sia garantito e previsto e assicurato.
Maria, ancora una volta, è l’esempio più bello ed evidente di questa consegna di sé: quando accetta l’annuncio divino, si rimette totalmente nelle mani di Dio (“Eccomi, sono la serva del Signore”), non afferra bene come il progetto si attuerà (“Com’è possibile!?…, non conosco uomo”), ma s’affida anche per questo a Colui che è onnipotente (“Si compia in me la tua parola”). E l’impossibile diventa possibile.
d) La vita come progetto di Dio
Se progettare significa questi tre atteggiamenti interiori, allora, a ben pensare il più grande e radicale esempio di progetto e capacità progettuale è esattamente la creazione da parte del Creatore: ovvero la creazione è come un grandissimo progetto d’amore, attraverso il quale il Padre-Dio
– “inventa” qualcosa di assolutamente nuovo, com’è ogni singola creatura,
– esce da se stesso o va oltre se stesso (=la ekstasis di Dio) per condividere il dono della vita,
– si affida alla creatura, o si fida d’essa, affidandole e consegnandole un compito unico-singolo-irripetibile.
Ciò che è importante, allora, non è tanto il progetto concepito in modo intelligente dalla solerte guida, quanto il progressivo apprendimento, da parte del giovane guidato, a concepire la vita come progetto, la creazione come progetto, se stesso come progetto, per concepire infine la sua dignità e autoidentità come capacità di elaborare un progetto nel senso pieno del termine, con queste tre sottolineature. Come dire: il progetto come metodo e come fine. Allora la pedagogia funziona.
…lungo le vie dello Spirito e di un’esistenza concreta
La fedeltà di chi elabora un percorso pedagogico deve essere duplice: allo Spirito e al giovane che gli è affidato. L’abbiamo già sottolineato prima, ricordiamo ora solo che la guida tiene e deve tenere sempre lo sguardo fisso sul Dio immutabile ed eterno e pure sulla creatura così mutabile e insicura. In altre parole: attenzione al dato oggettivo, alle leggi fisse e codificate nella Scrittura dell’esperienza di Dio, e attenzione pure al dato soggettivo.
Torna qui molto evidente e in tutta la sua urgenza la necessità che la guida abbia realizzato già in sé e nel suo cammino personale quest’ulteriore integrazione tra queste due classiche polarità. È in fondo l’esigenza di conoscersi profondamente, di sapere i propri punti deboli assieme alla proprie risorse, per sapere poi come tener sotto controllo le proprie inconsistenze e immaturità.
Ma si tratta anche di quella sapienza spirituale che deriva dall’aver imparato a leggere la propria storia come luogo teologico, dell’avverarsi della presenza e del piano di Dio nella sua vita e per la sua persona. Proporre un metodo ad altri suppone la conoscenza dall’interno, o l’esperienza personale previa d’esso; altrimenti torna il rischio di fare solo della tecnica. In concreto fare e proporre un progetto a un giovane in ricerca di sé e di Dio, vorrà dire, allora, proporre regolarmente un cammino che lo orienti in due direzioni.
a) Nella direzione dell’io
Un cammino, anzitutto, che lo porti a conoscersi meglio, più profondamente, oltre ciò che presume sapere di sé, al di là dell’osservazione dei comportamenti, ma anche dell’ingenua supposizione che le sue motivazioni siano solo quelle che lui conosce ed esibisce, quelle espresse dagli atti, un cammino che lo porti alla ricerca delle sue paure e pregiudizi, dipendenze e schiavitù, vulnerabilità e infantilismi… ma alla ricerca pure di risorse e potenzialità, desideri e aspirazioni, sogni e ambizioni… L’esperienza ci dice quante volte, ad es., la presenza di paure e pregiudizi, specie se inconsci, nei confronti di certe vocazioni, sia decisiva e davvero pregiudiziale in negativo.
b) Nella direzione di Dio
Assieme è fondamentale e-ducere, tirar fuori dalla storia della persona il mistero della presenza di Dio, poiché lì senz’altro vi sono tracce del progetto divino. La storia personale è la casa del mistero[6]. È addirittura decisivo che il giovane impari questo tipo di lettura, attraverso un’esercitazione regolare o una frequentazione illuminata del suo passato, grazie a un metodo preciso che è compito della guida presentare, e che insegna a leggere la parola di Dio nella propria storia e la propria storia nella parola di Dio (la vita come storia, la fede come memoria[7]). È, in fondo, la componente educativa d’ogni progetto pedagogico. Che, naturalmente, sfocia in quella formativa.
…che mira a scoprire progressivamente la voce del Dio chiamante tal esistenza, e a favorire e sollecitare la risposta del chiamato in libertà e con responsabilità
Siamo al cuore dell’evento della DS, al suo cuore e al suo obiettivo naturale: scoprire, anzitutto, la voce del Dio chiamante tal esistenza. Continuando il discorso precedente diremmo che la scoperta di questa voce e poi la voce stessa costituisce la forma di un ideale vocazionale. E segna il passaggio dalla fase educativa a quella più tipicamente formativa.
a) Forma
Forma nel senso più profondo del termine, come modo d’essere e vivere, di pensare e volere, di amare e d’esser amato, di vivere la gioia e la sofferenza, la relazione e la solitudine… Più in particolare forma sono i valori/ideali incarnati, vissuti con uno stile inconfondibile da una persona precisa. Di solito, infatti, la forma s’ispira a una persona, o è data dall’esempio di un essere vivente. Colto come profondamente significativo e vocazionalmente attraente o provocante, ovvero come capace di dar senso anche alla propria storia e alla propria persona. Forma può esser, ad esempio, ed è per il credente il modo in cui Cristo ha vissuto la sua vita terrena, o i sentimenti con cui ha interpretato la sua passione…
Potremmo dire che il concetto teologico, per così dire, di forma trova il proprio corrispettivo nel concetto psicologico dell’autoidentità, nel senso che è proprio la scoperta di una forma e l’adesione a essa a offrire un punto di riferimento per la propria identità; e non dimentichiamo che il giovane (preadolescente e adolescente) è alla ricerca, più o meno disperata, della propria identità. Dunque ha bisogno della proposta di forme ben definite, fino addirittura a coglierne i sentimenti, cioè il cuore profondo.
I sentimenti del Figlio sono lo specchio in cui ogni vivente può riconoscere la sua propria identità, la sua faccia, la sua vocazione. Nasce qui, normalmente, il primo sentore vocazionale, come un appello ancor vago, ma reale, come un’attrazione ancora indefinita. Ma spesso, ahimè, appello e attrazione sono per mille ragioni inascoltati, così tenui che vengono ignorati.
Per questo è importante l’azione della guida che anzitutto sia capace di presentare la forma nella sua verità e bellezza, che ne sia innamorato al punto da farne risaltare lo splendore. Il suo modo di “narrare” la forma è parte del metodo. Qui diventa indispensabile una sorta di formazione alla preghiera contemplativa, alla contemplazione del volto, particolarmente di quel volto che esprime i segni del dono di sé e che dunque diviene come un appello che il giovane non può ignorare. In concreto, del volto misteriosamente bello e straordinariamente inquietante della Passione. È solo questo tipo di orazione che può mantener vivi appello e attrazione. Perché non c’è nulla di più pro-vocante, sul piano pedagogico e non solo, del volto del Christus patiens (e non solo per un effetto emotivo, dopo la visione del film di Gibson). E che può sollecitare una risposta.
b) Orma
Proprio perché la forma fa riferimento a una persona, essa lascia dietro di sé un’orma, ovvero una traccia “umana” da seguire, un cammino già fatto e concretamente riconoscibile, dei segni che diventano sempre più visibili e inequivocabili, perché il percorso sia sicuro e conduca all’obiettivo desiderato, e ognuno possa riconoscere la sua via e rispondere all’appello. Orme, insomma, sono le tracce lasciate dalla forma.
In un PPS è importantissimo indicare queste orme. Anzi, il PPS indica la scelta di camminare lungo queste orme, perché un progetto è fatto di orme, le prevede e pone in ordine, e la guida ha esattamente il compito di stimolare questo cammino, di segnalare queste orme e la possibilità di percorrerle. Nel nostro caso l’orma fondamentale, quella ove nascono tutti i successivi possibili percorsi vocazionali, è quella di Cristo che va verso la sua passione, il cammino di Gesù verso Gerusalemme, tutte le tappe di avvicinamento alla sua pasqua di morte e resurrezione. “Cristo vi lasciò un esempio perché ne seguiate le orme” (1Pt 2,21).
È seguendo queste orme, concretamente e pedagogicamente, che la vocazione si chiarifica, comincia a diventare possibilità reale. Ma ciò che è importante è che il discepolo senta in tal modo di fare un cammino mirato, che è lo stesso cammino del suo Signore, non un viaggio qualsiasi, e comunque un viaggio che…lo porta a casa, alle radici del suo io, e possa dire: “alle sue orme s’è attaccato il mio piede” (Gb 23,11). Già in questo concetto dell’orma, dunque, è visibile non solo la componente teologica, ma pure quella pedagogica.
c) Norma
Il passaggio finale, dal punto di vista vocazionale, avviene quando la forma non solo indica delle orme, seguendo le quali si rende accessibile, ma quando la forma stessa diviene norma, norma di vita. È un passaggio pedagogico e intrinseco alla forma, la quale tende per natura sua a lasciare orme e divenire norma, ma è soprattutto momento decisivo per l’identità del soggetto, poiché indica la sua decisione di riconoscersi pienamente in quella forma, e di assumerla quale regula vitae, nel senso pieno del termine, come ciò che rivela l’io a se stesso e assieme ciò da cui l’io viene in qualche modo “normato”, come ciò che gli da ordo, cioè linearità e coerenza all’essere, unità e armonia al sentire (e sentirsi), consistenza ed efficacia all’agire. In concreto divenendo scelta di vita, vocazione, la sua vocazione.
D’altro canto è indispensabile, da un punto di vista pedagogico, che la forma, passando attraverso l’orma, si concretizzi in norme (al plurale!) e le ispiri, altrimenti la forma resta astratta e vaga, incolore e neutra, vocazionalmente sterile e non attraente; ed è anche grazie a questo processo di traduzione costante e progressiva della forma in regola di vita, in gesti concreti e coerenti, che la forma stessa può dispiegarsi in tutta la sua carica di attrazione e divenire addirittura norma di vita (al singolare!), ovvero scelta vocazionale, decisione di identificarsi con essa, di assumerla nella propria persona. Così com’è indispensabile che la norma, ovvero la propria scelta vocazionale, nasca da una forma e da quella contemplazione d’essa che faccia nascere attrazione nel cuore-mente-volontà del soggetto e convinzione che lì è nascosta la sua identità e solo lì potrà trovare la piena realizzazione di sé. Solamente allora la scelta sarà libera, motivata dall’amore, e responsabile, determinata da un appello che la persona sente rivolto esplicitamente alla sua persona.
È quel che accade, nel nostro caso, dinanzi alla proposta della “forma cristiana”, manifestata particolarmente dai sentimenti del Figlio che dona la sua vita in un gesto supremo d’amore. Ripetiamo, non c’è nulla di più provocante vocazionalmente di quest’immagine, nulla di più efficace d’essa sul piano pedagogico e del PPS. Ma occorre rispettare il processo pedagogico del progetto e le sue fasi, in particolare queste tre fasi della Forma, delle Orme, della Norma. Quando, infatti, il collegamento e la corrispondenza tra forma, orma e norma sono puntuali e proposti con accortezza, anche il dialogo tra Dio che chiama e uomo che risponde diviene più possibile e concreto. Da questa successione logica tra forma-orma-norma ne guadagna enormemente, in concreto, il cammino di discernimento dell’individuo, che sarà più spedito e mirato, nella direzione giusta; ne guadagna il suo senso di serenità e pace interiore, perché nulla è così decisivo sul piano della scelta di vita, a livello intrapsichico, come la coerenza con cui si fanno le cose, nulla soprattutto da pace in profondità e la sensazione d’aver finalmente trovato il proprio io come la sensazione d’aver scoperto un grande amore e di poter fare le cose motivati unicamente da quell’unica passione (o innamoramento), nulla in definitiva è così rassicurante quanto il camminare calpestando le orme tracciate da Qualcuno che è la Via, Verità e Vita[8].
…ogni giorno della sua vita
Tale cammino non va inteso assolutamente come itinerario da compiere una volta nella vita, quando la persona è alle prese con la decisione vocazionale esistenziale, quella che deciderà in modo definitivo della sua vita. Ma va inteso fondamentalmente come itinerario quotidiano, come il discernimento d’ogni giorno da parte del pellegrino e cercatore di Dio, come esercizio vero e proprio di formazione permanente. Perché vocazione non è solo la scelta dello stato di vita fatta una volta per tutte, bensì indica l’atteggiamento tipico del credente che in ogni istante della sua vita, idealmente, si chiede ove il Signore l’attenda e lo chiami, cosa gli stia dando e chiedendo, ove si nasconda e lo cerchi. Dio chiama sempre e chiama tutti, in ogni momento della vita.
E se vogliamo che aumenti particolarmente nei giovani la disponibilità a cogliere l’appello del Signore, in vista di particolari vocazioni, come quella al sacerdozio e alla vita religiosa, ebbene, è indispensabile creare una cultura della vocazione, come un humus fecondo, costituito da un certo stile di vita cristiana, sempre più comune a tutti, in cui la vocazione è sempre più al centro dell’attenzione e della formazione. Non c’è dubbio che tale formazione remota, universale e permanente funzionerà da retroterra che faciliterà anche quel certo tipo di disponibilità vocazionale speciale.
a) Forme di convivenza
In tal senso oggi stanno sempre più sorgendo forme particolari di convivenza di giovani attorno a una figura di guida o padre spirituale, con lo scopo preciso di condurre una intensa vita cristiana, per altro portando avanti gl’impegni della vita d’ognuno (dallo studio al lavoro), ai fini del proprio discernimento vocazionale. Credo siano da valutare molto positivamente questi tentativi.
Possono avere svariate forme. Ma normalmente comportano un tempo settimanale (di alcuni giorni) di convivenza, con un tempo scandito dalla preghiera, compatibilmente con gl’impegni dei singoli, e da uno stile di vita particolarmente attento a riconoscere i segni di una chiamata. Centrale, in tutto ciò, la figura della guida. La convivenza può aiutare enormemente un cammino di DS, di conoscenza della persona, di contatto diretto con il suo mondo ulteriore, con la messa in atto del metodo qui proposto. Sono tentativi che hanno già dato risultati molto positivi.
b) La ragnatela della Parola-del-giorno: dalla lectio divina alla lectio vocationalis
Un metodo che può esser consigliato a tutti, in qualsiasi ambiente e con qualsiasi tipo di vita è quello della ragnatela della Parola-del-giorno. Anzi, avremmo la pretesa di dire che per condurre il cammino quotidiano di formazione permanente vocazionale, oltre quello che abbiamo detto circa il PPS e proprio per renderlo sempre più efficace, il modo migliore sia quello di ancorare tale cammino alla Parola del giorno, lasciandoci condurre dalla stessa pedagogia di Dio.
Abbiamo presentato questo metodo nell’incontro di riflessione sulla DS vocazionale di due anni fa[9], chiamandolo la ragnatela della Parola negli eventi del giorno. Che consiste, in buona sostanza e veloce sintesi, non solo nel leggere e meditare quotidianamente la Parola del giorno, ma nel costruire attorno a essa tutta la giornata, attraverso una serie di atteggiamenti[10] che mirano non semplicemente a ricordare la Parola del giorno, ma a cogliere negli eventi del giorno la sua attuazione e rivelazione. In tal modo la lectio matutina diventa davvero lectio continua, perché continua nella giornata, mentre la lectio divina diventa lectio vocationalis. Ne viene così una benefica tensione unitaria, non solo interna all’individuo, ma anche esterna e capace di collegare ogni istante della giornata all’altro, e tutti i momenti al mistero della Parola che si compie negli eventi, come in una ragnatela fittissima. Il giorno qualsiasi, in tal modo, viene riscattato dal suo grigiore anonimo e diviene come il grembo di Maria, capace di generare una Parola sempre nuova e inedita di Dio, e scoprire dentro essa la propria chiamata.
Oltre a essere un metodo rigorosamente biblico, ci sembra un metodo semplice e pedagogicamente efficace anche per connettere tra loro forma, orma e norma, e giungere così alla propria opzione vocazionale. A quel punto ognuno sarà padre e pedagogo di se stesso. Senza più alcuna contrapposizione. E potrà esserlo anche per molti altri.
Note
[1] Ad esempio, il concetto di elementi architettonici ed ermeneutici, o il chiarimento sulle funzioni della psicologia all’interno di un cammino vocazionale e poi di vera e propria formazione (funzione non solo selettiva o ristretta ai casi dubbi e problematici, ma funzione tipicamente pedagogica di aiuto per crescere nell’internalizzazione e integrazione dei valori e preventiva di crisi future).
[2] Non so se possa aver un qualche significato anche per noi e possa esser applicata al rapporto tra teoria e pratica anche all’interno della pastorale vocazionale, al di là della conclusione eccessivamente pessimista, quest’espressione (per la cronaca si tratta di una frase scritta su un foglietto trovato da Lippi, l’allenatore della Juventus, sulla porta dello spogliatoio dopo una prestazione non esaltante della squadra): “La teoria è quando si sa tutto e non funziona niente, la pratica è quando tutto funziona ma nessuno ne conosce il motivo. Qui da noi teoria e pratica si sono singolarmente fuse: non c’è niente che funzioni e nessuno ne conosce il motivo…”. Ripeto, la conclusione sarebbe eccessivamente pessimista nei confronti della pastorale vocazionale, ma certamente esiste anche per noi il problema di una miglior connessione tra teoria e pratica.
[3] Straordinario, in tal senso, è il vangelo, nel quale Gesù non solo indica una dottrina veritiera, ma la racconta e rende comprensibile a ogni tipo di ascoltatore, col metodo insuperabile della parabola.
[4] È anche dalla constatazione di questo buco che è nato il progetto del Centro Nazionale Vocazioni di dedicare ogni anno il convegno vocazionale pasquale alla riflessione sul rapporto tra DS e crescita vocazionale, nei suoi diversi aspetti.
[5] È la particella greca pros che avrebbe esattamente il significato di “al di là di”, “oltre”.
[6] Cfr. A. Cencini, La storia personale, casa del mistero. Indicazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
[7] Cfr. A. Cencini, Il mistero da ritrovare. Itinerario formativo alla decisione vocazionale, Milano 1997.
[8] Interessantissimo, in tale prospettiva, il senso così positivo della Legge come traspare dal salmo 118, e da tutte quelle espressioni del salmista che trova la sua gioia nell’osservare gli ordini del Signore (14), nel custodire i suoi decreti (5), nel conservare la sua parola (11), e supplica il Signore perché gli riveli le meraviglie della sua legge (18.27), e si consuma nel desiderio dei suoi precetti (20). Forse è da rivedere l’idea per noi scontata del legalismo del pio israelita, e da riflettere semmai sulla nostra idiosincrasia nei confronti di legge e dintorni…
[9] Cfr. A. Cencini, Luce sul mio cammino. Parola di Dio e iter vocazionale, Milano 2002.
[10] Tali atteggiamenti sarebbero espressi da alcune operazioni, che abbiamo chiamato “i verbi per tessere la tela vocazionale”, che sarebbero: attendere-desiderare, riconoscere-riconoscersi, masticare-nutrirsi, lasciarsi interrogare-trafiggere, conservare-custodire, rimanere-radicare, scegliere-lasciarsi scegliere, compiere-compiersi, contemplare-ringraziare (cfr. Cencini, Luce, 28-41).