N.03
Maggio/Giugno 2003

Le relazioni sponsali e familiari come elemento essenziale per la formazione della persona

 

 

Cultura postmoderna e maturità umana

Sul piano culturale, si parla di postmoderno per indicare una fase prevalentemente frammentaria e senza senso, caratterizzata da disillusione ideologica e disincanto[1]. Il termine “postmoderno” rientra nelle periodizzazioni classiche che esaltano le differenze storiche per periodi massicciamente omogenei, con punteggiatura cronologica, in certa misura sempre arbitraria[2]. Ma i tentativi di cogliere le dominanti culturali di un’epoca non sono facili; tanto meno per il “postmoderno”, espressione che non dice con precisione ciò che caratterizza la nuova epoca, bensì il superamento di quella precedente. La realtà contemporanea, ancora magmatica e fluida, la sua ambivalenza culturale ed etica, impediscono giudizi decisamente apocalittici o apologetici. Sull’argomento è inevitabile perciò che si scontrino pareri contrastanti. Sta di fatto che l’espressione è ormai entrata nell’uso, ad esprimere una fase caratterizzata da disillusione ideologica e disincanto. Ma, come per ogni epoca storica, è opportuno leggere il postmoderno cogliendone le esigenze positive, interpretandole, orientandole verso più alte motivazioni, contribuendo ad incidere sui suoi processi di trasformazione.

 

 

Tratti caratterizzanti il postmoderno

Crisi della totalità teoretica

Una caratteristica del postmoderno è il suo rifiuto della totalità come sistema tendenzialmente chiuso, incapace di accogliere il nuovo senza incapsularlo in un sistema e negarne l’autenticità. Del resto, quanto più potente è la percezione della totalità di un sistema, tanto più impotente si sente il soggetto, i cui sforzi di governo della realtà sono vanificati. Franano le ideologie, le fedi e i valori, le appartenenze e domina l’indifferenza (al di là del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto). Sembra segno di maturità la capacità di demolire le certezze, sino a perderle del tutto: nichilismo, insignificanza, relativismo, rigetto delle grandi sintesi, teoretiche, politiche e religiose, indifferenza per la metafisica e per Dio, non più combattuto, ma considerato superfluo, se non dannoso.

Lo sviluppo contemporaneo delle scienze e della filosofia spinge al relativismo. Si constata l’impotenza del pensiero a raggiungere la verità indipendentemente da chi l’ha formulata. Si rinuncia quindi a credere nella capacità di attingere la verità in sé, quasi fosse situata in una zona esterna al soggetto. La verità non è un oggetto e il pensiero non è mai un neutro; è il pensiero di un io determinato, col suo carico di illusioni, precomprensioni e proiezioni, convinto di captare ciò che è vero in sé, quando invece è in sé per il soggetto, ovvero è frutto di una universalizzazione operata a partire dall’esperienza di chi astrae. La stessa insicurezza scuote i concetti di coscienza e autocoscienza, specie dopo la critica freudiana a tutte le consapevolezze che pretendono di affermarsi indipendentemente dalla non esplicitabilità dell’inconscio (“l’io non è più padrone in casa propria”).

La riflessione sul conoscere ha assunto in pieno la strategia del “sospetto”, che il mondo contemporaneo riserva, dopo Marx, Freud e Nietzsche, alle teorie di ogni tipo3. Tali autori del sospetto hanno smascherato le motivazioni che guidano i nostri comportamenti reali, spesso nascoste sotto quelle più sublimi: lotta senza limiti per il possesso dei beni (Marx), ambizione di potere sino al delirio di onnipotenza (Nietzsche), pulsione sessuale (Freud). Soprattutto viene rimesso in causa il criterio di verità: esso non può risiedere nell’ingenuità formale del sillogismo, né nella conformità ad una realtà esterna (dogmatismo), né nell’assoluta libertà del soggetto (soggettivismo). L’importanza del punto di vista di chi osserva (o anche la conformità dell’oggetto alla prospettiva di chi studia) è oggi sempre più sottolineata da una cultura che ha perso la fiducia ingenua non solo nelle ideologie, ma anche nella avalutatività della scienza e lascia che emergano i diversi condizionamenti del pensiero, quali la cultura, l’esperienza, il gruppo etnico, la classe sociale, il clima. Soprattutto funziona da repellente l’autoconfutazione delle teorie (effetto boomerang), ossia il loro capovolgersi strada facendo in un’arma contro l’uomo. Tale disincanto può provocare l’annullamento della creatività personale, quando il sospetto sistematico su tutte le teorie si traduce nella rinuncia a qualsiasi verità.

Sul piano politico, si registra parallelamente l’abbandono delle appartenenze partitiche strette col crescere del voto mobile e di intese trasversali su obiettivi concreti e vicini o sui grandi universali, quali la qualità della vita, la pace, il rispetto per la natura, l’attenzione ai più deboli. Anche sul piano educativo si reclama una maggiore flessibilità teorica ed etica. Dal punto di vista della persona, infatti, risulta astratta e talvolta oppressiva l’affermazione a priori di teorie pedagogiche di questo o quell’altro “grande” il cui contributo, validissimo a suo tempo, si rivela oggi inadeguato. L’unicità della persona reclama approcci sempre nuovi, nei quali cuore e intelligenza ricerchino strade adeguate alle mutate condizioni. Del resto la persona matura, che fa della cultura un dono da restituire e non un potere da affermare, sa dubitare del sapere acquisito e soprattutto sa di non sapere. Avere e trasmettere il senso dell’umiltà dell’intelligenza e della parzialità delle conoscenze è soprattutto oggi (contrariamente all’ideale dell’insegnante tuttologo) un bagaglio indispensabile per affrontare la complessità crescente delle ideologie e il continuo sviluppo della scienza.

Anche dal punto di vista etico, per stare al passo con i tempi moderni senza cedere al nichilismo dei valori occorre una flessibilità che non neghi i valori ma l’imposizione dogmatica e unilaterale di essi. Dogmatismo e relativismo vengono spogliati dei loro “ismi”, dal momento che alla persona, sul piano esistenziale spetta l’ultima parola. Ma non è facile per la coscienza nel rispetto dell’autonomia e della libertà muoversi tra l’assolutizzazione della norma e la riduzione di tutti i valori al criterio soggettivo. Oggi è necessaria per tutti una certa genialità nell’intuire, creare, risolvere in modo originale situazioni inedite.

 

La cultura del frammento

La cultura contemporanea non crede possibile un coordinamento non oppressivo delle parti. Dal punto di vista sociale la mancanza di punti di riferimento comuni favorisce e giustifica il neo-individualismo, giacché non sembra possibile trovare ciò che raccoglie il consenso di tutti. Ciascuno si muove non per appartenenze, ma guidato dalla sua individualità; non tanto come componente di una famiglia (parentale, razziale, culturale), quanto secondo la spinta dei suoi bisogni, del suo tentare di migliorare l’esistenza facendosi largo nella selva della complessità sociale.

Paradossalmente, la cultura del frammento si afferma proprio mentre prevale la logica della globalizzazione e quindi dei macrosistemi a tutti i livelli, nelle scienze sociali e nelle interdipendenze internazionali di gruppi sempre più consapevoli di vivere in un mondo ormai “piccolo villaggio”. Perciò, l’ambivalenza di questo tratto sta nella necessità di far convivere il suddetto rifiuto della totalità con la constatazione della interdipendenza sistemica, che incidenti come Cernobyl portano all’evidenza. Ci si domanda come coniugare singolarità, piccolo gruppo, primato del locale, con il macrosistema internazionale; come riuscire a rendere il soggetto consapevole della sua posizione nella complessità che lo circonda, per poter riguadagnare il senso dell’agire e delle mete per cui vivere e lottare, quando vengono disperse le intenzioni personali.

In tal senso, la cultura del frammento corrisponde all’esigenza di piattaforme mobili di intesa, sempre rinnovabili. Il termine frammento, infatti, evoca l’esigenza di identità de-costruibili e ri-costruibili, in una mobilità che è psicologica più ancora che geografica. Il moltiplicarsi dei frammenti (ambiti, gruppi, esperienze) rende possibile vivere diversissime situazioni esistenziali, pur restando al proprio posto, ma con rapidi spostamenti psicologici, affettivi, ideologici, religiosi, in sintonia con la velocità del mondo delle comunicazioni e della tecnologia. L’uomo postmoderno ha l’impressione di perdere il treno, se non è capace di abbandonare temporaneamente o per sempre il già fatto e adattarsi al nuovo. Dal punto di vista etico, ciò si esprime nel concetto di “appartenenze corte”, alludendo alla perdita di perseveranza e di fedeltà. Dominano l’istante mutevole e le culture vincenti: “La scomparsa delle ideologie totalizzanti lascia spazio all’effimero conoscitivo e al disimpegno pratico, alla lucida insicurezza e alle appartenenze corte”[4]. Ciò che Kierkegaard chiama “danzare il valzer dell’istante” preannuncia la cultura del frammento che manca di progetti e di direzioni. M. de Unamuno tratta dello stesso problema nella Vita di Don Chisciotte, in cui riporta il seguente dialogo, espressione della mancanza di orientamento e del conformismo di chi salta sul carro del vincitore:

“Donde vas vincente?

A donde va la gente.

Y donde va la gente?

A donde va vincente”[5].

D’altro canto, la mobilità culturale consente una maggiore capacità di sintonizzare con le diverse realtà sociali, di sentirsi liberi dagli attaccamenti, potenzialmente più capaci di favorire la convivenza dei diversi ed evitare l’esplosione dei conflitti. Il bisogno di dare senso umano alla realtà si realizza non tanto sul piano teoretico quanto su quello prevalentemente etico nel quale si sviluppa una cultura della tolleranza e della solidarietà. Mentre sono in crisi il moralismo, l’ipocrisia, il compromesso, la retorica, la connivenza tra interessi e difesa del sistema, non si spegne l’esigenza di autenticità e coerenza. Se le proclamazioni suonano stonate, è pur vero che si sviluppa una domanda di maggiore coerenza morale tra cultura comportamentale e cultura intellettuale, tra ciò che si crede e ciò che si fa, puntando sulla credibilità di progetti a breve termine, flessibili, adattabili alle nuove emergenze e diffidando dei grandi proclami e dei progetti a lungo raggio.

Dal punto di vista politico, la cultura del frammento fa difficoltà a trovare regole che possano avere una validità universale e dunque sostenere un’autorità specifica. La pluralità dei sistemi equivalenti tende piuttosto a riprodurre lo stato di natura hobbesiano, in cui domina la contrapposizione tra le parti quando invece occorre comunque decidere: è necessario esercitare l’autorità politica, pur senza averne la bussola. Diviene difficoltoso il senso dello Stato. “Compito del pensiero politico – scrive Willms – sarebbe, anche nelle condizioni del postmoderno, mantenere pensabile un concetto sostanziale di politico, cioè un concetto di politico in quanto differenza: l’obbligo allo Stato[6]. I pensatori postmoderni come Baudrillard, Derrida e Lyotard non vogliono arrendersi ad un assoluto pluralismo dell’anarchia e dell’incomunicabilità. Pur non essendoci un accordo sui valori, resta l’obbligo allo Stato. Il rischio è che se tale obbligo scaturisce solo dalla necessità di far fronte alla frammentazione, lo Stato acquista in potenza senza aver recuperato il senso.

Sulla base di questi principi, un’educazione personalista deve guardarsi dall’esaltare le culture e i soggetti forti, giacché dal punto di vista socio-politico, il grado di civiltà e di democrazia di una nazione si misura sulla capacità di impegnarsi per i cittadini più deboli e, dal punto di vista umano e spirituale, sulla capacità di rispettare la persona anche quando mancano i presupposti dell’autonomia e della coscienza, come uno dei compiti più urgenti della nostra società dell’efficienza. Su questo caposaldo così si è espresso R. Guardini: “La persona può essere inconscia come nel dormiente; tuttavia esige già una tutela morale. È pure possibile che non si attui perché mancano i presupposti fisio-psichici come nei pazzi e negli idioti, ma l’uomo civile si distingue appunto dal barbaro perché la rispetta anche in un simile involucro. Può essere anche nascosta come nell’embrione, ma già vi è col proprio diritto. La persona dà all’uomo la sua dignità; lo distingue dalle cose e ne fa un soggetto… Si tratta alcunché come cosa in quanto la si possiede, la si usa, e per finire la si distrugge, vale a dire – per gli esseri viventi – la si uccide. La proibizione di uccidere l’uomo rappresenta il coronamento della proibizione di trattarlo come cosa… ne dipendono la dignità, ma anche il benessere e alla fine la durata dell’umanità”[7].

Non è possibile educare – soprattutto nella cultura postmoderna – pensando di fare delle persone “a nostra immagine”, perché sarebbe scadere nell’addestramento ad una conformità ideale, sociale o statale. La pedagogia non può essere l’arte di edificare una personalità addestrandola a certi compiti. Essa suppone anzitutto la capacità di contemplare ed ammirare il mistero irripetibile ed unico della persona che abbiamo di fronte, caso unico, esemplare non riproducibile. Perciò, benché si possa concepire l’idea universale che sintetizzi le qualità dell’essere umano, questa idea si infrangerà sempre di fronte al fatto che qui ed ora c’è una persona unica. Precisa Mounier che l’educazione non ha il “compito di fare, ma di suscitare persone: per definizione una persona si suscita con un appello e non si fabbrica con l’addestramento. L’educazione perciò non può avere per fine quello di adattare il fanciullo al conformismo dell’ambiente familiare, sociale e statale, né di limitarsi a prepararlo per il compito o la funzione che egli esplicherà da adulto”[8]. Viene in luce la creatività di un rapporto individualizzato nel quale l’adulto e il fanciullo vivono una coeducazione reciproca. Infatti, mentre il maestro cerca di comprendere e favorire le potenzialità del fanciullo, in questa opera socratica e materna, egli riceve il dono di una nuova umanità ancora inedita, di una persona che crescendo dice al mondo una parola non ancora detta. Il rapporto educativo promuove in entrambi la capacità di vivere e impegnarsi come persone.

Di qui scaturisce la critica puntuale ad un tipo di educazione che “invece di preparare progressivamente la persona all’uso della libertà e al senso delle sue responsabilità, la isterilisce… piegando il fanciullo alla cupa abitudine di pensare mediante delega, di agire per parola d’ordine e di non avere altra ambizione che quella di essere sistemato, tranquillo e considerato in un mondo soddisfatto”[9]. La capacità di dire io è correlata alla progressiva assunzione del proprio ruolo nella vita, della personale responsabilità nel consesso delle relazioni sistemiche generali, portando il contributo e lo spessore di una storia vissuta, di un equilibrio precario sempre da ricostruire, delle tensioni intra ed extra personali. “L’uomo è un animale simbolico” diceva Cassirer[10] perché riceve, elabora e trasmette una cultura, nella quale però egli non si inserisce come i pezzi ad incastro di un meccanismo fisico, ma selezionando e scegliendo i valori preferenziali. Porre l’accento sull’esistenza, sull’azione, sulle scelte, significa sottolineare anche il carico di responsabilità etica personale che ciascuno assume con la vita. Favorire lo sviluppo di tale responsabilità etica è il compito dell’adulto, compito che non può essere una pura esecuzione di impegni, di programmi, di teorie poiché è radicato nell’essere protesi a far essere l’altro, a capire, amare e favorire la persona dell’altro.

 

Il pensiero debole

Il rifiuto degli assoluti porta ad accontentarsi di onde corte, di riflessioni legate alle urgenze esperienziali. È la debolezza di chi avverte come irrisolvibili e superflui i problemi teorici legati ai “modelli di profondità” (modello metafisico di essenza e apparenza; freudiano di latente e manifesto; esistenzialista di autenticità e inautenticità; marxista di alienazione e riappropriazione; ermeneutico tra significante e significato). Dal momento che la frantumazione del tessuto sociale corre parallelamente alla frantumazione dei riferimenti etici, ogni gruppo o corporazione assume come riferimento le sue regole e la sua logica, anche se spietata. Il sistema autoreferenziale conta più dei diritti e della dignità della persona. L’indifferenza si diffonde e si caratterizza come disattenzione al senso del dovere, in rapporto alla cittadinanza e alla professione, tutti vittime e sfruttatori di una burocrazia priva di credibilità.

È una cultura simboleggiata dal rizoma, fusto che mette radici superficiali, ma che esplodono in ogni direzione, che non arrivano a visibilità e che corrispondono appunto ad una cultura senza valori di riferimento. Anche quando il rizoma viene tagliato non smette di generare imprevedibili nuovi orientamenti della sua espansione vitalista. Dal punto di vista linguistico e a livello giovanile, si diffonde la rudezza del linguaggio, che utilizza solo dichiarazioni indispensabili, liberate dalla catena dei significati e della sintassi, un linguaggio semplificato non al modo di quello per l’infanzia, bensì con una trascuratezza voluta, che indigna i cultori delle lettere. Il rifiuto di organizzare con coerenza linguistica l’esperienza, parallelo al pensiero che si accontenta del cumulo di frammenti, va collegato a quell’individualismo metodologico, per il quale ciascuno si legittima a cercare sue soluzioni, a costruire mutevoli schemi di comportamento, a servirsi della verità (non servirla), proprio perché se ne è delegittimata l’esistenza.

Si riaffaccia la domanda sulla possibilità stessa di pensare: come far convivere il collegamento – e ciò implica sistematizzazione della realtà in schemi – e i frammenti, in un’epoca che non solo considera inadeguati gli schemi ideologici tradizionali, ma pensa anche che sia bene non averne, giacché ciascuno, nella situazione esistenziale, deve potersi muovere senza riferimenti a schemi fissi. Anche per questa categoria interpretativa del postmoderno riscontriamo la suddetta ambivalenza: il vuoto di riferimenti sistematici favorisce da una parte il trionfo delle mode e del relativismo, dall’altra è anche terreno fertile per più umili riprese di un pensiero meno egemone e ambizioso, più attento ai rapporti che alla sua interna razionalità. In altri termini, si valorizzano frammenti di verità, mentre si diffida di ogni ricorrente tentazione di polarizzare la contrapposizione tra frammento e totalità o di costruire pseudo-sintesi di sostegno alla gestione politicoautoritaria della realtà. Solo la piena valorizzazione del frammento consentirebbe una rapportualità non coatta. Non si può frettolosamente pensare che il postmoderno scade automaticamente nell’effimero, nel disimpegno, nella rinuncia a parlare e conoscere, senza tenere conto della sua più profonda accettazione di modi plurimi di conoscere e comportarsi, secondo i moduli propri delle diverse realtà personali come delle diverse discipline scientifiche, filosofiche, artistiche, religiose.

Mentre viene sottratta fiducia alla razionalità forte, che guida in maniera sicura i comportamenti, si parla di “razionalità debole” la quale “non produce potere ma offerte di senso, ‘produce’ autonomia, consigli per viaggiare in mondi fisici, psichici, disciplinari con il massimo di disponibilità dei propri pensieri, sentimenti e azioni e quel minimo di potere sugli altri e sulle cose indispensabile alla propria autonomia”[11]. Contro la razionalità forte e universale, il pensiero debole preferisce restare legato alle situazioni, alla storia contingente e parziale; contro la ragione pura, che procede per suo interno moto e non incontra limiti esterni dovuti ai contesti, alle logiche delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto, psicologia), perché è context free, la ragione pratica mostra l’impossibilità di isolare il pensiero dai suoi condizionamenti e dalle interferenze del contesto: ogni ricerca è sempre impura, nel senso che è comprensibile nel contesto di un quadro storico, come sottolinea Gadamer. Ne deriva che, pur potendo giungere ad un pensiero ed un’etica universali, essi non saranno mai universalistici e normativi.

Nella cultura contemporanea l’io è inteso come valore assoluto, la sua libertà diviene norma spesso dissociata dal rispetto dell’altro. Ciò sia nelle forme più eclatanti dell’individualismo esasperato (libertinismo), sia in quelle più rispettose della libertà altrui e tuttavia ancora imbrigliate in una socialità puramente contrattuale o in un’interpretazione della relazione sociale puramente formale. Al contrario l’ispirazione personalista mira a “rifare il rinascimento”, promuovendo la dimensione comunitaria della persona, dal momento che attribuisce il fallimento dell’umanesimo rinascimentale all’eccesso di individualismo e alla non-curanza della comunità. Su questo poggia la distinzione tra individuo e persona.

L’altro rischio della cultura contemporanea che contrasta con una pedagogia personalista è la tendenza alla massificazione nella quale la collettività ha sempre l’ultima parola sull’uomo. Rispetto alla tentazione collettivista, che nella comunità tutto prepara esiti totalitari, il personalismo sottolinea che si può parlare di collettivo solo se non si perdono di vista i singoli membri come persone libere e responsabili. “Il fanciullo è un soggetto, non una Res societatis, una Res familiae, o una Res ecclesiae, ma non è nemmeno un soggetto puro o un oggetto isolato. Inserito in una collettività, egli si forma per mezzo di esse ed in esse”[12]. La discriminante resta la persona, giacché “la vera comunità è data da una comunità di persone. Tutte le altre non sono che una forma dell’anonimato tirannico”[13].

Tra i due estremi dell’individualismo e del collettivismo, l’ispirazione personalista sottolinea l’importanza della paziente costruzione di comunità viventi. All’interno dell’esperienza comunitaria il movimento della persona verso gli altri non è facoltativo, ma indispensabile alla dialettica di formazione del sé. L’altro consente all’io di riconoscersi e lo stimola continuamente a crescere. Lo sguardo altrui nella filosofia della persona, offre la possibilità di superarsi, di uscire dal sonno esistenziale dell’in sé, mettendo in questione ed anche ostacolando la concentrazione dell’io su se stesso. Ogni volta invece che la persona è chiusa all’altro, si difende o rifiuta la comunicazione, perde anche se stessa, l’alter diventa alienus e a sua volta l’io diventa estraneo a se stesso, alienato[14].

La persona non si costruisce contro gli altri (homo homini lupus), per mezzo degli altri (strumentalizzazione), senza gli altri (indifferenza), ma apprendendo a spegnere la centralità dell’io nella donazione al tu. Per superare la tendenza a ripiegare su di sé, che fa assaporare un’amara sensazione di nulla, la persona deve tendere a realizzare relazioni profonde fino a fare l’esperienza della comunione. Una moderna pedagogia favorisce al massimo la dinamica dialogica della persona, il suo crescere con e per gli altri (mitsein), in cui ciascuno realizza insieme la sua realtà etica e metafisica. La morale allora diviene cura di sé e dell’altro, sottraendosi al moralismo di un dovere puro che sottovaluta il ruolo dell’altro e delle circostanze, fino a giungere all’esaltazione dell’anima bella, prometeismo che forgia forse degli eroi, ma non lascia lo spazio alla reciprocità.

L’educazione a vivere relazioni interpersonali significative si alimenta dell’amore in quanto essere autentico della persona: “L’amore – scrive Mounier – non si aggiunge alla persona come un di più, come un lusso: senza l’amore la persona non esiste… senza l’amore le persone non arrivano a divenire tali”[15]. L’amore non è dunque un attributo del carattere o una modalità di realizzazione, ma la possibilità di esistere: “Esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri… essere significa amare”[16]. Siamo di fronte al capovolgimento dal cogito ergo sum cartesiano all’amo ergo sum, dal pensiero all’amore come possibilità di realizzazione dell’essere della persona, altrimenti destinata a restare ente, individuo atrofizzato e incapace di trascendersi. La certezza esistenziale viene quindi agganciata all’amore e non più alla soggettività del pensiero. “L’atto di amore è la più forte certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: io amo, quindi l’essere è e la vita vale (la pena di essere vissuta)”[17]. “L’uomo è un prossimo – ribadiva Denis de Rougemont – non è un problema”[18].

La qualità del rapporto, centrale nelle questioni educative, argina la contemporanea dispersione quantitativa: una sola relazione, se vissuta profondamente, può essere qualitativamente superiore alla febbrile collezione di molteplici rapporti. Nel primo caso si comunica tra persone – e tutta l’umanità è in un sol uomo – ; nel secondo caso ci si disperde nella superficialità di contatti poco significativi. Si stringono tante mani non sapendo stringerne intensamente alcuna. L’amore verso gli altri non è più questione di giustizia formale, di obbedienza alla legge interiore, ma necessità della persona di esistere come tale. “L’atto primo della persona è dunque di suscitare con gli altri una società di persone, le cui strutture, i cui costumi, i sentimenti e infine le istituzioni siano segnate dalla loro natura di persone”[19].

 

Funzionalità e benessere (Leistungsgesellschaft)

Correlativamente alla sfiducia nelle ideologie si valorizza la finalità pratica e l’efficacia dell’azione, per il miglioramento delle condizioni di vita e il benessere generale. Prevale perciò la funzionalità tecnica, la cui esaltante produttività segna il trionfo dell’homo faber su quello ludens, del fare sul pensare e contemplare. Lo stesso obiettivo del benessere viene intaccato. La crescita di sensibilità nei confronti della questione ecologica è la reazione pendolare ad un sapere che si identifica con il manipolare la natura, con tutte le conseguenze negative sull’ambiente, sulla genetica, sulla violenza ai minori, sull’abbandono alla marginalità dei soggetti non produttivi, sulla robotizzazione dell’uomo e della donna[20]. Non è difficile, infatti, che l’attitudine alla manipolazione straripi, oltre l’ambito della tecnica, qualificando le relazioni complessive col mondo, con le persone, con Dio. Ne scaturisce l’impoverimento dell’integralità della persona, spogliata del suo mistero personale insieme all’ambiente che la circonda; si riduce così al minimo lo spazio della contemplazione, della meraviglia, del ringraziamento.

La dispersione è evidente nella dimensione superficiale e consumistica della vita, come esito di un disincanto che si è trasformato in esaltazione del nulla, delle cose destituite del loro significato e divenute senza spessore. Indicativo il paragone che fa F. Jameson tra le famose “scarpe da contadina” di Van Gogh e le scarpe di Andy Warhol (Diamond Dust Shoes). Nelle prime, un mondo sconfitto viene trasformato nello stridore del colore utopico. Qui, al contrario, è come se la superficie esterna e colorata delle cose assimilate alle brillanti immagini pubblicitarie, fosse strappata via per rivelare il substrato bianco e nero del negativo fotografico[21]. La superficialità gratuita e frivola del luccichio della polvere d’oro, in una decorazione mercificata dell’oggetto, sembra contrapporsi alla profondità dell’intuizione artistica di Van Gogh, col suo valorizzare tutto un mondo personale e sociale di fatica contadina. Così il mondo perde la sua profondità e minaccia di diventare una pellicola, un’illusione stereoscopica, un flusso di immagini filmiche senza spessore. Lo stesso Andy Warhol dà immagine al postmoderno con il ritratto di Marilyn, tipica figura di donna che, qualunque sia stata la causa della sua morte, rappresenta la consumazione nel nulla di immense potenzialità. L’auto-annichilimento è, infatti, il frutto delle tante esperienze di distruzione contemporanea, dalla droga al pansessualismo, all’abbandono di mete e progetti, alle varie forme di schizofrenia, al suicidio. Viene notato che non si tratta più di una patologia descrivibile in termini di angoscia e alienazione (giacché questi termini darebbero all’esperienza una profondità che essa non ha), ma piuttosto di una sostituzione del soggetto alienato con il soggetto “frammentato”.

La persona, mutilata nelle sue esigenze più profonde, manifesta reazioni pendolari: proprio nel cuore delle moderne società post-industriali si risvegliano rigurgiti di nostalgia del divino, esplodono esigenze di affettività, di gratuito, di religiosità più autentica, in breve emerge il rifiuto di quell’efficienza tecnologica che soffoca le dimensioni più profonde della vita personale. Occorre allora educare le nuove generazioni a discernere la qualità nel mezzo della quantità, a rifiutare il banale, a distinguere tra scienza, tecnologia e sapienza e ciò implica formazione della maturità di giudizio. Per Mounier “l’educazione deve preparare il terreno: oggi troppo spesso ridotta alla distribuzione superficiale del sapere… deve romperla con questi morti per elaborare una formazione dell’uomo totale egualmente offerta a tutti, che lasci ciascuno libero nelle sue prospettive, ma prepari per la comune città uomini equilibrati, fraternamente preparati gli uni con gli altri al mestiere di uomo”[22].

Si tratta dell’ostacolo certamente più sottile, ma parimenti fuorviante contro cui la pedagogia personalista deve oggi lottare: il dominio di una mentalità scientista e tecnocratica che riconosce valore primario e assoluto alla sola scienza e conduce a identificare tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è moralmente lecito. Le ricerche scientifiche aprono certamente possibilità impensate di intervento dell’intelligenza sulla vita nelle sue basi genetiche, sulla comunicazione, sulla socialità umana. Però nella assolutizzazione del loro punto di vista riducono ogni sapere a quello scientifico sperimentale. L’uomo viene spogliato del suo mistero, dei suoi valori spirituali e religiosi e cosificato in funzione dell’efficienza.

È attuale il dibattito sui rapporti tra ragione strumentale e ragione etica, dal momento che si pone in crisi il principio che dall’illuminismo regola lo sviluppo moderno secondo cui sapere è potere. La ragione strumentale al servizio del sapere comporta il dominio dell’impersonale, con possibile esito nichilista. Perciò occorre educare a mantenere le distanze da un sapere che abbia per fine la sua espansione cumulativa, la sua efficacia in termini di potenza e di dominio, che conduca alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo e all’auto-distruzione (genetica o nucleare), per un sapere orientato al bene comune e di ciascuno. Sono principi di riferimento ben noti, ma che spesso il comportamento di chi agisce nel campo dell’educazione contraddice (pensiamo ai tanti casi di mortalità scolastica dovuti ad una mancata comprensione dei ritmi e delle capacità di ciascuno, all’insegna del primato della nozione), favorendo così una schizofrenia nei ragazzi tra cultura ideologica (valori e norme) e comportamentale (atteggiamenti concreti).

 

Destrutturazione: nichilismo e liberazione

I mutamenti descritti possono essere letti positivamente o negativamente, a seconda del senso che si attribuisce alla parola chiave che è de-strutturazione. Da una parte, essa esprime la tendenza del postmoderno a destabilizzare le certezze, aggredire e negare le teorie, diffidare sempre di tutto; dall’altra rappresenta una pista preziosa per approfondimenti inediti: dispersione e superficialità, ma anche liberazione e rinnovamento. La debolezza di fronte alla complessità tecnologica e sociale spinge l’uomo alla rinuncia a padroneggiare la realtà. Egli non riesce ad avere una rappresentazione situazionale soddisfacente dei collegamenti nazionali e internazionali nei quali si deve pur muovere, né a tracciare una mappa dei network comunicazionali; non riesce a dominare mentalmente i reali collegamenti tra le multinazionali, a ricostruire il vero senso degli avvenimenti politici, a riconoscersi in chi lo rappresenta politicamente, a comprendere le ragioni nascoste dietro i discorsi paludati.

Dal punto di vista architettonico, tale disorientamento – nota Jameson col consueto pessimismo – si evidenzia nei mega complessi che formano cittadelle autonome all’interno della città: scale, ascensori, complessi ritagli di spazi producono l’incapacità di orientarsi, di organizzare l’ambiente in rapporto alla posizione del proprio corpo e quindi la separazione tra corpo e ambiente. La città viene pensata come spazio alienante, di cui la gente non riesce a tracciare una mappa per potersi collocare spazialmente in rapporto alla totalità in cui si muove, come nel libro The Image of the City[23]. Una tale realtà non è solo geografico-spaziale, ma attiene anche allo spazio sociale, ossia al contesto dei rapporti che concretamente situano l’individuo nell’insieme che lo circonda.

Tuttavia, pur essendo la totalità irrappresentabile nella sua globalità, ciascuno deve pur costruirsi una qualche bussola per orientarsi, rapportando la sua posizione col tutto, cercando di dare senso al non senso della sua presenza. Non è possibile definire la condizione dell’uomo contemporaneo come un girovagare senza senso, senza fare ricorso a soluzioni a corto raggio, funzionali almeno alla sopravvivenza dell’io che salva se stesso, costruendosi spazi di vivibilità e di benessere nel groviglio della complessità. Il postmoderno coincide così col trionfo del neoliberismo e perciò anche con l’ingovernabilità politica, quando si rinuncia alla progettualità e si tentano soltanto piste di tamponamento delle conflittualità emergenti. In prospettiva etico-sociale, è un luogo comune sottolineare l’abbandono delle masse al flusso delle mode, dei conformismi, dei falsi paradisi della droga, della pornografia, del consumismo, del disimpegno e del riflusso. Meno frequentemente si sottolinea che il disincanto ideologico è anche piattaforma per più profonde convinzioni, forse meno eterodirette e superficiali. Cresce, infatti, il rispetto per il modo in cui ciascuno costruisce scale valoriali, in base alla personale esperienza, prendendo le distanze da un’oggettività statica e omologante che, nella sua perfezione, potrebbe risultare penalizzante per il ritmo e il vissuto del singolo. I cosiddetti “valori bassi” non sono automaticamente una degenerazione nichilista, giacché possono esprimere, in positivo, l’esigenza di flessibilità teoretica ed etica, una maggiore coerenza tra cultura ideologica e comportamentale, un’identità più dialogica.

Il nulla che spinge alla fuga evasiva e quello che invece contribuisce a debellare il desiderio di potenza della ragione sono le due facce dell’opera destrutturate della cultura postmoderna. Esse lasciano alla nostra responsabilità i rischi dell’evasione nichilista, sulla scia di una vita vissuta come gioco e distrazione e le inesplorate potenzialità di ricostruzione etica[24]. Anche dal punto di vista teorico, la fase della de-strutturazione rappresenta un passaggio indispensabile per ogni autentica ricostruzione. Di quest’ultima non si hanno ancora che deboli tentativi, più evocati che pensati, sia che vengano dal pensiero dialogico o dal neues Denken di Rosenzweig in Germania[25], sia che si sviluppino nell’ermeneutica, oltre le scissioni tra filosofia e religione.

Comunque si valuti la cultura postmoderna, essa reclama un surplus di impegno[26]. L’ispirazione personalista resterebbe nel quadro delle buone intenzioni delle “anime belle” e delle “cittadelle sul monte” se non avesse a cuore la buona convivenza nella città, nei suoi vari ambiti. “La decadenza di una società comincia quando l’uomo si domanda: cosa accadrà? Al posto di chiedersi: cosa posso fare?” ripeteva sovente Denis de Rougemont[27]. Si tratta di lavorare non partendo dai principi astratti ma dalle situazioni vissute storicamente, dal disagio degli uomini e delle donne che vivono quotidianamente i problemi della povertà culturale, economica e politica. L’antropologia personalista parte da un investimento di fiducia: ogni persona possiede un fondo di ricchezza e di sovrabbondanza che resta non sfruttata e che aspetta solo di essere messa a frutto. Educare ad assumere la propria parte di impegno vuol dire far crescere tali doti nella direzione della solidarietà, rendere capaci di pagare di persona e assumere i rischi di fallire, di restare soli, anche di raggiungere un fine diverso da quello progettato. Impegnarsi vuol dire fare delle scelte e quindi “prendere”, ma anche lasciare, rifiutare. Occorre scegliere l’ambito nel quale investire le proprie energie, i mezzi e le strategie da impiegare, gli alleati e gli avversari. L’impegno non può evitare di “sporcarsi le mani”, dato che ogni situazione è ambigua, impura. L’impegno ha sempre un aspetto di lotta, sia pro (in vista di obiettivi) che contro, dato che non può restare neutro o imparziale.

Il ragazzo e la ragazza capiranno che possono crescere se al posto di fuggire, di proteggersi, risparmiarsi di fronte alle piccole-grandi situazioni di ingiustizia e di sofferenza che li circondano, risponderanno in maniera positiva, attiva e responsabile, animati dal desiderio permanente di essere presenti, di comprendere, di evitare le trappole delle facili evasioni e delle false vie del consumismo. Nello stesso tempo l’educazione non può suscitare la convinzione che l’azione sia la misura dell’essere. “La filosofia sociale e concreta – scriveva Maritain – richiesta dall’umanesimo integrale esige cambiamenti radicali… e questa trasformazione non richiede solo l’instaurazione di strutture sociali nuove e di un regime di vita sociale nuovo che succede al capitalismo, ma anche, e in maniera consostanziale, una spinta di energie che scaturiscono dalla fede, dall’intelligenza e dall’amore, dalle potenzialità interiori dell’anima, un progresso nella scoperta del mondo delle realtà spirituali. A queste condizioni solamente l’uomo potrà veramente entrare più in profondità nella sua natura, senza mutilarla né sfigurarla”[28].

Perciò il personalismo richiama l’esigenza di evitare la patologia dell’impegno, il fanatismo e il “delirio dell’azione”: “agitazione inquieta e mediocre presso le nature povere; esaltazione dell’esaltazione e della potenza presso i più forti”[29]. La persona e la comunità restano riferimenti valoriali superiori all’efficacia, al calcolo economico, al dominio della materia (poiein). Ciascuna persona sarà aiutata a scegliere il tipo specifico di impegno, le fonti, i mezzi, gli ambiti, le strategie che le si confanno secondo il carattere, la situazione storica e politica nella quale vive. Che l’attività sia individuale o collettiva, la decisione di impegnarsi sarà sempre personale (anche se non individualista); l’ultima parola del dialogo tra l’educatore e l’educando spetterà perciò pur sempre a chi deve assumere l’impegno.

 

Quale maturità nella cultura postmoderna

Santi e felici

Da parte del mondo cattolico è opportuno evitare di giudicare la cultura postmoderna per contrapporsi ad essa. Meglio raccogliere gli elementi positivi, valorizzare tutti gli spazi possibili per una nuova evangelizzazione, dopo essere passati per la corrosione del vecchio mondo. Una delle sfide che la cultura postmoderna rivolge al cristianesimo è il rifiuto dell’alternativa tra morale e felicità. Se la sessualità, la libertà, il possesso dei beni sono autentici valori umani, il modo di viverli nella vita di un cristiano dovrebbe esprimere questa positività mediante modalità attraenti, dal momento che il Vangelo è sempre umanizzante e non mortificante. Spesso la reazione all’oppressione della morale dei tabù ha significato lasciar esplodere l’affettività senza limiti, liberandosi dalla repressione della ragione e dell’io morale fino a vagare senza orientamenti tra tutte le esperienze possibili e trasgressive.

La sfida di una vita santa e felice viene lanciata a tutti, ma in particolare alla vita consacrata imponendole una coraggiosa rilettura, pratica e teorica, del modo di intendere il sacrificio e la rinuncia. Questa è un valore umano: a quante cose rinuncia uno sportivo che vuole vincere, un artista che vuole giungere al termine della sua opera, a quanti possibili partner rinunciano un uomo o una donna per sposarsi… Tante e faticose rinunce si fanno volentieri se si ritiene di poter acquisire esperienze più importanti in un altro campo, più intense e soddisfacenti perché corrispondenti a ideali che si amano. C’è una certa gioia nel misurarsi con le difficoltà inevitabili al raggiungimento di un obiettivo ritenuto primario e gratificante. Quando i sacrifici sono fatti per amore neanche se ne avverte – e se ne fa avvertire agli altri – il peso: si pensi a quanto apparirebbe stonato un fidanzato che ripetesse alla sua fidanzata: “Io per te mi sacrifico rinunciando alle altre donne”. La frase avrebbe il sapore di un ricatto e rivelerebbe l’esistenza effettiva di un’attrazione verso le altre donne. Chi ama non sta a far pesare la rinuncia, ma si sente fortunato per aver avuto in sorte di poter incontrare la donna amata. Così è per chi ama Dio: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra” (Mt 13,44-46). È da notare l’espressione “pieno di gioia” che sottolinea proprio il godimento di chi gode del dono ricevuto gratuitamente.

Non si può negare che una cattiva interpretazione della rinuncia ha generato spesso ipocrisie e perbenismo, soprattutto in campo sessuale, quando la verginità salvaguardata ad ogni costo, spesso contro le reali potenzialità e i desideri più profondi e inconsci di una persona, ha prodotto dei mostri. Vi sono preti inattaccabili sul piano della verginità e nello stesso tempo alcooldipendenti o giocatori d’azzardo; vi sono donne consacrate per le quali molti si augurerebbero un marito. La gente intuisce che il volto austero presentato sull’altare o al catechismo nasconde problemi irrisolti, che il sorriso compiacente non esprime effettiva solidarietà empatica, ma la corrispondenza ad un obbligo di bontà che finisce col risultare stantio: l’io, sacrificato ad ideali troppo più grandi di sé, resta immaturo, soffocato dal cumulo dei precetti che comprimono la possibilità di vivere armonicamente con se stesso e preparano l’esplosione di reazioni boomerang incontrollate. Simili personaggi, inflessibili verso sé e verso gli altri, non presentano un modello attraente di cristianesimo perché danno l’impressione di non amarsi e di essere perciò incapaci di amare gli altri, se non in ossequio ad un comando etico e in vista di una ricompensa futura.

Precedentemente la ricerca della santità era fortemente centrata sull’autocontrollo della volontà, in cui lo sforzo muscolare sostituiva il moto del cuore. Occorreva a tutti i costi reprimere i desideri e costruire un io forte e severo. L’identificazione della eccellenza con la posizione apicale nella Chiesa accentuava le gerarchie intraecclesiali indirettamente incoraggiando la rincorsa alle posizioni più alte. In tal modo si sono generati degli eroi solitari e infelici. Oggi non si tollera più di assumere per modello gente triste anche se perfettamente a posto con i canoni della morale; che predica l’amore e sembra incapace di provarne veramente col cuore di carne; che si fa in quattro per risolvere i problemi della povertà e non vede il povero che gli sta accanto; che dedica la vita alla fraternità e litiga senza esclusione di colpi all’interno della propria comunità. Si sente il bisogno di vedere gente paga di fare quello che ha scelto di fare, sposata, vergine o prete che sia. Essendo più consapevoli dei limiti, si ritiene che non è possibile formare spiriti sublimi scavalcando la natura, oltrepassando l’affettività, il corpo, i propri limiti, le condizioni di vita nelle quali si opera. Eudemonia, questa ricerca della felicità come armonia, implica la scoperta e l’accettazione gioiosa della propria vocazione nel mondo, qualunque essa sia. Ciò vale soprattutto per le donne consacrate, in cui la scelta dell’amore a tutto campo dovrebbe cancellare quel grigiore, quella impressione di frustrazione, di meschinità e d’infantilismo regressivo che spegne ogni possibile entusiasmo nelle ragazze che si pongono il problema della loro scelta di vita.

La testimonianza cristiana passa oggi attraverso i rapporti interpersonali, a partire da quelli costruiti giornalmente e fedelmente nelle proprie comunità, per arrivare a quelli con altri istituti, movimenti, vicini di casa, parenti, colleghi di lavoro (in ambienti ad alta competitività), laici e laicisti.

 

Spiritualità e cultura

Se c’è oggi una più evidente domanda di spiritualità, sono più forti però anche i rischi di una confusione senza discernimento, di un devozionismo senza mediazione, di uno spiritualismo disincarnato. C’è differenza tra ingenuità e semplicità. La scelta cristiana esalta l’evasione o fa crescere la promozione umana in sé e negli altri? Favorisce la chiusura in uno schema cultuale o apre a valori universali? Moltiplica i momenti di culto o promuove la coerenza della fede? Forma persone ossequienti ai precetti o favorisce la maturità umana? La vita cristiana non dovrebbe essere identificata con una semplicità ingenua (naïvité), perché al contrario essa esprime un discernimento sapiente sulla realtà, meno parziale dovuto al distacco dalla presa immediata sulle cose, sulle persone, sulle istituzioni e sul proprio io.

Tra i cristiani ha prevalso un’attenzione talvolta ossessiva alla correttezza, all’ortodossia circospetta e apodittica. L’uso dell’intelletto nell’apprendimento delle verità sistematiche ha prevalso sulla ricerca intelligente, creativa, capace di indagare a tutto campo. La cultura post-moderna ci ricorda che la realtà non può essere catturata dal concetto, che la può approcciare solo parzialmente; che il linguaggio della ragione è solo uno dei linguaggi possibili, che l’apprendimento delle idee e delle verità resta sempre inadeguato rispetto all’approfondimento del mistero, a cominciare dalla persona. Oggi i linguaggi della ragione risultano quasi sempre perdenti rispetto a quelli emozionali, figurativi, artistici e simbolici dominanti nei mass-mediali.

Anche nel campo della fede occorrerebbe favorire la ricerca della verità in tutte le sue varianti, raccogliendo la sfida della complessità senza eluderla. Il non ancora detto ha ancora molto da dire. Molto si guadagna forse ad approfondire la verità di Gesù dal punto di vista di Maria, dei suoi racconti, dei suoi silenzi, dei suoi percorsi distesi nel tempo con l’umanità tutta, senza ricorrere troppo in fretta a deduzioni logico-metafisiche, senza fissare sistemi di certezze, come se si potesse guardare la storia dall’alto di un palchetto o fuori campo. Oggi il cristiano, vergine o sposato che sia, non deve tanto distribuire ricette e certezze. Deve piuttosto essere in grado di infondere speranza con la sua testimonianza di vita e con l’ambiente che riesce a creare attorno a sé (cfr. Vita Consecrata, 27).

 

Verginità e sponsalità

La verginità è stata troppo vista come un fine e non come uno stato di vita transeunte, come del resto il matrimonio, al quale si richiama in un’ottica di sponsalità della persona. Si tratta sempre di un dono dello Spirito piuttosto che il risultato di una scelta e di uno sforzo personale. Sarebbe troppo poco se riducessimo la verginità all’assenza di rapporti fisici. Una suora scherzando diceva che non riusciva a pensare S. Pietro come un ginecologo…

Se si accentua troppo l’aspetto fisico, si trascura il nucleo fondamentale della testimonianza cristiana: uno può essere perfettamente vergine e non aver amato. Non entra nel Regno. Si finirebbe anche col porre il matrimonio in una posizione secondaria, in qualche modo umiliando gli sposati, come se Dio avesse dei figli privilegiati, scelti (“eletti”), e altri scartati, di risulta. Se faccia discriminazioni tra i figli: uno amato e l’altro abbandonato, magari perché più fragile nel fisico o nella psiche. La logica di Dio ci dice che se un figlio ha dei problemi sarà, al contrario, privilegiato. Il concetto di vocazione non andrebbe dunque presentato in vista di una scala gerarchica in cui collocarsi, ma come la ricerca del modo migliore di valorizzare i propri talenti. Ciascuno seguendo la propria vocazione ha anche la sua ricompensa perché Dio chiama ciascuno a fare quello che sa e può fare meglio per il bene di tutti. Seguire la propria vocazione nello stesso tempo realizza la persona stessa, il Regno e il buon essere di ciascuno.

La reciproca fecondità tra le diverse vocazioni oggi comincia ad essere considerata un frutto positivo della cultura cattolica postmoderna, che paradossalmente proprio valorizzando i frammenti costringe in certo qual modo a ricostruire l’insieme in un orizzonte teologale ed escatologico in cui l’unica universale vocazione è la carità.

 

Sessuofobia e conoscenza del proprio corpo

Un sapiente amore del proprio corpo è un aspetto importante per un efficace dialogo con la cultura contemporanea. C’è stato uno squilibrio in questo campo, tra uno sviluppo intellettuale magari molto alto (le persone consacrate, soprattutto sacerdoti e religiosi, hanno rappresentato anche i vertici della cultura intellettuale cattolica) e la sottovalutazione – talvolta il dispregio – dei problemi del corpo. L’attenzione concentrata sulla spiritualità e sugli studi ha finito col far dimenticare che noi non abbiamo solo un corpo né siamo solo un corpo, ma in ogni caso nulla possiamo fare senza di esso. Non è stato facile per i cristiani trovare una serena convivenza col proprio corpo, amando la realtà umana concreta così come essa ci è data. È stato scritto che spesso le religiose “hanno uno spirito ipernutrito, una mente piccola e un corpo sciatto e trascurato perché ne temono le pulsioni”[30]. Oggi è sempre più chiaro che esiste un’uscita di sicurezza tra l’ossessione e la trascuratezza, il disprezzo del proprio corpo e la cura esagerata.

Molto si è fatto in questi anni, soprattutto grazie alle catechesi di Giovanni Paolo II, per affrontare più serenamente il discorso della corporeità e aiutare i cristiani a liberarsi dall’ossessione del peccato senza con ciò cadere nel pansessualismo massmediale. Questo equilibrio è indicativo di buon essere per la persona soprattutto per i consacrati i quali possono fare appena sentire il profumo della verginità, la sua sublimità e i suoi limiti, vivendo un sereno atteggiamento di gratuità e di tenerezza. Il loro atteggiamento può agire da correttivo delle tendenze mondane al possesso, all’idolatria del corpo, alla strumentalizzazione dell’altro.

 

Quale amore per la povertà

Come per la verginità, così pure la povertà è stata inquinata da quattro atteggiamenti.

* Spesso si confonde l’amore per i poveri con un pauperismo di moda, in cui l’amore per i poveri degenera in fanatismo, in filantropia. Si è capaci di eroismo verso i lontani ma si dimenticano i vicini, di donare terre e case senza saper rinunciare al proprio programma per amore del fratello. Il termine solidarietà occulta la carità.

* L’amore per la povertà viene preso come una virtù sublime, riservata in modo eccellente a quanti scelgono la verginità per il Regno (nonostante l’ostentazione di ricchezza da parte di certi istituti o di certi ambienti ecclesiali, guardati dalle famiglie come luoghi di sicurezza garantita). In quest’ottica è stata letta la parabola del giovane ricco (cfr. Mt 19,16-30; Mc 10,17-31; Lc 18,18-30), come se Gesù stesse istruendo quel giovane circa i doveri funzionali ad entrare in un istituto religioso. Si comprende invece che Gesù sta rivelando la condizione necessaria e universale nel Regno, visto come il bene assoluto da anteporre ad ogni altro bene. In realtà la povertà è una condizione necessaria per entrare nel Regno, quindi per tutti compresi gli sposati, anche se ciascuno la vive secondo il suo stile, secondo la vocazione o il carisma: del francescano, del domenicano, della vergine dell’ordo virginum, dello sposato. In ogni caso si tratta di un consiglio vincolante perché se uno non perde anche la propria vita, non entra nel Regno. Tutti sono tenuti ad imitare il distacco assoluto del Cristo, vivendo poi secondo le differenze che connotano le nostre strade.

* Svalutazione dei beni. Come nel caso del corpo, Gesù non può volere disdegnare la bellezza e ricchezza che Egli stesso ha creato, quasi fossero peccato in sé. Egli denuncia piuttosto la tendenza a volgere il cuore verso questi beni dimenticando Dio, stravolgendo quindi l’ordine dei valori o pensando di servire insieme Dio e mammona, quando la ricchezza che si fa idolo e ingombra l’anima (cfr. Lc 16,13). Il Vangelo invita costantemente ad un atteggiamento radicale di donazione di sé, libera e consapevole, condizione di una povertà veramente evangelica che riguarda il modo di essere molto più che il possesso di determinati beni.

* Talvolta si adotta la cultura della dicotomia tra ricchi e poveri, che è d’origine marxiana, ma che è ormai d’uso nel nostro mondo. Questa scissione impedisce al cristiano di guardare all’essere umano nascosto dietro le maschere dei ruoli sociali, di riconoscere la fragilità che ciascuno porta in sé, imparando da Gesù ad amare e condividere la povertà di ciascuno: di beni, di lavoro, di autostima, di famiglia, di relazioni sociali significative, di Dio. Questa disposizione ad amare la propria ed altrui povertà consente la koinonia fraterna e rende la diakonia verso i poveri non un puro assistenzialismo o un atto eccezionale di eroismo, ma il frutto di un’umana sollecitudine e condivisione verso tutti i poveri, anche quelli in abiti di lusso. Diversamente si assiste a strani comportamenti contraddittori tra povertà proclamata e odio di classe verso i ricchi, povertà vissuta nei confronti di alcuni beni e attaccamento nei confronti di un oggetto, di una persona, di un istituto, di una parrocchia.

Tutti hanno bisogno di qualcosa. La separazione pregiudiziale degli uomini non è di origine evangelica: Gesù è venuto per tutti e alla sua sequela impariamo che il ricco ha bisogno d’amore, di compagnia come il povero di pane, e il solo di essere ascoltato (il che spiega tanta prostituzione nelle nostre strade). Partiamo dall’idea che se siamo attenti, se siamo come le vergini sempre vigili con la lampada accesa (cfr. Mt 25,1-12), vediamo quello di cui l’altro che ci sta di fronte ha bisogno in quel momento. La disposizione al servizio presuppone questa capacità di scoprire il volto fragile di ciascuno.

 

Umiltà e servilismo

L’umiltà non può voler significare rinuncia ai diritti umani. Vi è sempre una notevole differenza tra il livello virtuoso personale e la proclamazione universale. Troppo spesso associamo il cristianesimo ad una coscienza del limite intesa come debilitazione della persona, disposizione alla sottomissione, rinuncia alla dignità, sotterramento dei talenti, non visibilità e nascondimento. Il cristiano dovrebbe invece esprimere la glorificazione della regalità della persona, veramente figlia di Dio, anche se si trova a vivere in condizioni di miseria. Ciò ovviamente non invita alla realizzazione dell’io in modo prometeico o autarchico.

Nelle donne consacrate generalmente si accentua un atteggiamento di umiltà servile che fa contrasto con il senso della parola vergine/virgo che deriva da vir, ad indicare che non solo il maschio poteva possedere quelle virtù di forza d’animo e di dignità che l’antichità negava alle donne. È significativo in tal senso l’episodio evangelico della donna curva, “non poteva in nessun modo stare dritta” e che subito dopo “si raddrizzò e glorificava Dio”[31]. L’episodio ha evocazioni più generali, rappresentando quasi un invito come alla dignità dello stare in piedi rispetto alla schiavitù della schiena curva, simbolo della persona soggiogata dal peccato e dall’oppressione.

L’elogio della verginità non può coincidere con quello della passività, anche se si sposa bene con una sapiente coscienza del limite. Anche Pietro sarà un giorno portato da altri, dovrà seguire e non guidare, essere docile nell’amore e adattarsi al ritmo degli altri, ritirarsi perché l’altro cresca (cfr. Gv 21,18s): dunque kénosi come obbedienza alla realtà delle cose. I cristiani che vivono in pieno la loro vocazione verginale e sponsale presentano a tutti lo straordinario miracolo della potenza dell’impotenza e della forza della debolezza. Allo stesso modo in Maria l’obbedienza si sposa con il Magnificat e il Fiat con la gloria di una vera protagonista. L’umiltà nasce dalla consapevolezza in certo senso oggettiva dei propri limiti (senza escludere i pregi) e dal riconoscimento dei pregi altrui (senza escludere i limiti) e di conseguenza implica la disposizione a mettersi a servizio degli altri, come ha fatto Gesù: “Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”[32]. Benché questa buona disposizione venga troppo spesso fraintesa nel senso del servilismo, essa resta profondamente valida in chiave evangelica e dovrebbe coniugarsi con la dignità del servire come dimensione essenziale alla reciprocità. Il cristiano si caratterizza per l’eccellenza dell’atteggiamento di servizio.

La lavanda dei piedi (cfr. Gv 13) è un gesto che ha senso se c’è una vita dietro, la vita che connota il cristiano in quanto tale, che come il Cristo, il Servo, venuto per servire, ama mettere la sua vita a disposizione degli altri. In questa dignità umana e femminile pienamente valorizzata Maria dice il suo sì: “Ecco l’ancella del Signore, mi accada secondo la tua parola”[33]. Non solo Maria è dunque la serva, l’ancella, ma Gesù stesso, anche per non contrapporre Gesù il Messia, il Signore, il Re, a Maria la serva. Maria è la serva-regina perché anche Gesù è il Servo-Re (Dio ha in sé l’atteggiamento del servizio, anche in un’ottica trinitaria). La disposizione al servizio in questa dimensione non contrasta con la piena dignità della persona.

Simone Weil ha visto nella figura del servo l’imitazione di Dio stesso visto come mendicante per amore. Il servo per eccellenza è la figura di chi è nell’attenzione alla vita, agli altri, continuamente fuori di sé, pronto ad intervenire per mettere a disposizione le proprie competenze, la propria persona, la propria vita: “L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero. Nel lasciarlo… disponibile, vuoto… tutto in attesa e… pronto a ricevere il padrone come fa il servo. Il padrone era alle nozze e torna. Il servo veglia presso la porta in attesa che lui bussi. Il padrone arriva, trova il servo vigile, allora lo fa sedere e lui, il padrone, gli serve da mangiare. È solamente questa attesa, questa attenzione che può costringere il padrone ad un tale eccesso di tenerezza. Quello che costringe il padrone a farsi servo del servo non è fare, è la veglia, l’attesa, l’attenzione”[34]. Gesù dicendo che il padrone stesso si mette a servire, dà quel senso di reciprocità che è tipico della sponsalità, addirittura tra la creatura ed il Creatore: è Dio che si mette a servire.

 

Acquiescenza e rivoluzione

Fa parte della maturità umana di una persona anche la capacità di esercitare le virtù che chiamiamo, per intenderci, machiavelliche: tempismo, strategia, calcolo delle possibilità; tutte virtù che si ritrovano anche nel Vangelo e che contrastano con il modello di cristiano acquiescente e passivo, disposto solo ad eseguire e refrattario al calcolo delle opportunità che il mondo richiede. Basti ricordare colui che vuole fare la guerra ed ha 10.000 soldati e, se l’altro ne ha 20.000, deve pur calcolare i rischi cui va incontro; o chi mette mano alla costruzione di una casa e poi non ha i mezzi sufficienti e così via (cfr. Lc 14,28-33). In questa direzione preti, religiosi e cristiani maturi, non disdegnano di fare i calcoli delle proprie e altrui forze per poter essere fedeli alle scelte fatte.

Questo suppone l’uso positivo di tutte quelle virtù che in genere sono piuttosto sottovalutate nella cultura cattolica, anche se poi vengono utilizzate perché indispensabili. Nessuno di noi può pensare di acquistare una casa senza fare il calcolo: quanto costa, quanto ho a disposizione, quanto devo prendere in banca… Non va disprezzata tutta questa realtà umana che costituisce la tessitura delle condizioni nelle quali operiamo e ci santifichiamo. Tutto, se si vive correttamente, onestamente, è materia per il Regno. Generalmente si sottovalutano i passi in cui Gesù si mostra molto realista finendo con l’incoraggiare quella scissione tra spiritualismo e realismo che privano il primo dell’incarnazione e il secondo dei valori. Ciò vale per la realtà politica come per quella economica, ambiti in cui sono preziose tutte quelle virtù indispensabili per capire le coordinate umane nelle quali ci dobbiamo muovere.

 

Valorizzazione della sofferenza o masochismo

L’accettazione della sofferenza è considerata giustamente dal cristianesimo una chiave importante per l’approfondimento dell’unione con Dio. Siamo nella carne, nel mondo e, senza sofferenza, non ci liberiamo da tanta zavorra e non siamo puri per l’incontro con Dio. Qualche volta però si eccede e si diventa un po’ masochisti, indugiando a lungo sulla croce, senza andare oltre. Si diventa persone lamentose che hanno sempre da raccontare e enumerare solo guai, come se il mondo fosse solo una valle di lacrime. Se il mondo si aspetta proprio dai cristiani un modo di portare la croce meno pesante, in serena fiducia, non può accettare però l’idolatria della sofferenza in sé. Religiosi e laici dovrebbero rendere visibile la fecondità della croce vissuta in unione col Cristo “nonostante” e “oltre” le sofferenze. Si renderebbe più evidente la trasparenza del dolore, la sua capacità di preparare un amore e una gioia più grandi. La tendenza ad indulgere sulla sofferenza è generalmente un tratto che caratterizza l’iconografia femminile (sulla scia delle prefiche), anche perché per ragioni storiche e culturali, hanno subìto di più il peso della sottrazione della dignità. Ad esempio nel Gesù di Nazareth di Zeffirelli il regista quando descrive la Madonna ai piedi della croce, indulge in quest’iconografia della donna che si butta a terra, che strilla il suo strazio inconsolabile senza alcun freno. Eppure il Vangelo ci dice “stabat” che in latino significa “stava in piedi”: quindi era una donna che sopportava con dignità la sua sofferenza.

Perché la reciprocità sia espressione del Risorto, la sofferenza non dovrebbe avere un sapore vittimistico, ma lasciare sempre trasparire la capacità di sperare oltre ogni speranza, di mutare il dolore in dono per gli amici. Specie i consacrati dovrebbero esprimere una forza particolare nel portare dignitosamente la propria croce e rivestirla di dolcezza; dovrebbero testimoniare che il dolore non è mai così potente da spegnere il gusto della vita, la possibilità di assaporare con intensità e semplicità le gioie, di scherzare e ironizzare, demitizzando gli idoli, i personaggi, i tempi e i luoghi forti, che tendono ad invadere l’anima schiacciandola sotto il peso del peccato.

 

Individualismo e comunitarismo

La comunità ecclesiale faccia parte anche del vostro orizzonte, come per tutti noi, e nella comunità ecclesiale raggiungere l’equilibrio tra singolarità e comunità è una sfida: lo sapevano bene quelli che dicevano: “Mea maxima paenitentia, vita communis”. La scelta di stare (come per esempio nell’ordo virginum) non può essere una fuga dalla comunità, ma un modo costruttivo, originale, creativo, di stare nella comunità ecclesiale, portandovi tutto quell’afflato e tutta quella ricchezza acquisita nella singolarità del rapporto con Dio.

Se si vive nella comunità abituandosi alla delega, a scaricare le proprie responsabilità, ad assuefarsi al volere del capo rinunciando alla fatica di pensare, si diviene persone senza creatività, senza testa. Spesso i confini della comunità sono il ghetto entro cui l’unità significa difesa del noi da cui gli altri restano esclusi. D’altro canto c’è anche l’altro rischio, quello di restare legati e imprigionati nella propria individualità senza sapersi confrontare con il “tu”. Nel matrimonio è più evidente la necessità di con-vivere con un tu calibrando il proprio modo d’essere, il proprio respiro a misura del coniuge. Questo vivere con e per l’altro si distende 24 ore su 24, perché il rapporto di sintonia, di unità o di “obbedienza reciproca” rimane anche se si trascorrono molte ore ciascuno nel proprio ambiente lavorativo. Per i consacrati, almeno per quelli che non vivono in comunità, è forse più difficile sfuggire ai rischi dell’individualismo – che è anche capacità di assunzione di responsabilità e autonomia (come per il sacerdote diocesano o per la ragazza dell’ordo virginum) – e del comunitarismo. Per il prete diocesano l’unità col vescovo è molto più labile del rapporto che gli sposi sono tenuti ad avere tra loro perché il matrimonio funzioni bene. Il vescovo chiede impegni importanti ma lo si vede una tantum. Anche il frate che non va d’accordo con il superiore alla sera può rinchiudersi nella sua cella. L’obbedienza può rimanere formale se il frate obbedisce, non dissente ma continua a pensare ed agire, nei limiti del possibile, come crede più opportuno. Nel caso del matrimonio bisogna che i due siano “una sola carne” e se non si sono uniti nell’amore gli affetti e le menti di due persone, l’unione dei corpi è prostituzione, come diceva Simone Weil, “prostituzione legalizzata”.

Ciascuna vocazione nella Chiesa ricorda a tutti un tratto della vita cristiana che non va assolutizzato. Il mondo post-moderno vuole vedere l’armonia tra i diversi. Questo implica persone mature, non eterodirette, eterne dipendenti dei superiori, neanche però persone incapaci di spezzare il pane della propria vita con gli altri. Gli altri restano comunque il crogiolo attraverso cui passa la verifica della scelta cristiana, perché la comodità dell’io è comunque una tentazione perenne, da cui l’altro può liberarci.

Parimenti difficile è per la cultura postmoderna cogliere il senso di una separatezza spesso artificiale, forzata e controproducente tra donne e uomini. La difficoltà a vivere insieme in spirito di fraternità e sorellanza tra donne e uomini nella Chiesa, specie tra i consacrati, è vista oggi come un segno di debolezza. L’educazione fortemente differenziata, l’eccessivo carico simbolico e retorico riversato sul senso della femminilità, la percezione della donna come cameriera (indotta per esempio nei seminaristi), l’educazione delle donne alle virtù dell’umiltà e del servizio, l’asimmetria tra uomini e donne nel campo del potere e del prestigio, ostacolano un rapporto franco tra i generi. Sembra che le condizioni ostacolino la percezione dell’altro, uomo o donna, come qualcuno che sta di fronte, aiuto sì ma anche qualche volta nemico, con cui non sempre si possono costruire rapporti irenici, eliminando l’apporto prezioso dell’ironia, del confronto serrato, della lotta.

 

Quale obbedienza

La parola obbedienza risuona male nella cultura contemporanea, in modo forte e talvolta ipocritamente formale: persone formalmente obbedienti possono essere invece fortemente critiche e a loro volta dittatoriali nei confronti di quelli che sono ad esse soggetti. Prima di tutto bisognerebbe esercitarsi nell’arte del comunicare e dell’amare, imparando a prevenire il desiderio dell’altro, capire le esigenze di un insieme, attendere il consenso di una compagna o del vescovo o del collega di lavoro. Dovrebbe prevalere l’abitudine ad un’obbedienza generalizzata, non univocamente ossequiente al superiore, ma disposta a modificare la propria vita in considerazione del prossimo e degli eventi della vita. L’obbedienza vale sempre, non è una virtù che si sfodera solo davanti ai superiori, ai quali è gioco-forza ubbidire. Quale rapporto interpersonale sarebbe soddisfacente se l’uno s’irrigidisse nelle proprie posizioni e si mostrasse incapace di modificarle in ascolto delle esigenze dell’altro? Un rapporto interpersonle regge nel tempo se entrambi, in diversi modi e tempi, si dimostrano capaci di posporre all’amore per l’altro le proprie idee, i programmi, le abitudini acquisite. Tra due sposi soprattutto risulta evidente che l’uno è in tempi diversi il superiore dell’altro: essi devono trovare il modo di fare volentieri quello che l’altro desidera. Senza obbedienza reciproca il matrimonio naufraga.

Ci sembra che l’obbedienza sia una sorta di virtù-limite, seconda, nel senso che l’obiettivo di un rapporto interpersonale non è l’obbedienza ma l’amore, la condivisione, il rapporto di reciprocità. Certamente un’istituzione, un gruppo, se vuole salvarsi a un certo punto deve trovare il modo di unire, volenti o nolenti le diverse opinioni, deve scegliere una linea e affidarsi a qualcuno che ha il compito di decidere. Questa però dovrebbe essere la soluzione ultima. Il rapporto tra una suora e una sua superiora, tra un prete e un vescovo se è basato solo sull’obbedienza, non attira più nessuno, non ha senso umano e perciò neanche cristiano. Il vero rapporto è un rapporto di reciprocità: tutti e due si obbediscono, cioè si ascoltano, tentano di captare il ritmo dell’anima, del cuore, del corpo e dell’intelligenza dell’altro. Nel dialogo anche chi ha un ruolo guida si domanda: ce la fa questa persona a svolgere questo compito o non è tagliata per questo tipo di lavoro? Si rispettano la sua natura, i suoi talenti, la sua vocazione? Quando si affida ad una sola persona di dire l’ultima parola, tutto il lavoro di scavo, di ascolto, di confronto, di riflessione è già stato fatto.

Se una comunità si basa solo sull’obbedienza essa non si distingue molto da quelle cellule, quei collettivi che nascono intorno al terrorismo, che sono molto più efficienti e più obbedienti di noi. Gli adepti di Bin Laden professano sicuramente un’obbedienza radicale, fino alla morte, che è superiore a quella che normalmente esercitano i cristiani. Le S.S. dichiaravano la disponibilità totale a dare la vita per Hitler, fino alla morte. Le stesse virtù cristiane, imposte senza amore, sono perfette per qualunque dittatura. “Unità” è il titolo di un giornale legato ad una certa ideologia, eppure è anche la parola chiave del testamento di Gesù prima della morte (cfr. Gv 15-17). Il problema è come si costruisce l’unità: se si compattano strumentalmente e violentemente le masse o se si dà la vita perché tutti possano realizzarla. Così è l’obbedienza: l’obiettivo non è l’obbedienza ma è una comunità d’amore e solo perché essa si realizzi ci si fida dello Spirito lasciando dire al vescovo la Parola che tutti poi volentieri accettano per il bene comune. Ma se a priori ci si “taglia la testa”, come si dice con un’espressione piuttosto militaresca, senza nemmeno pensare allora si rinuncia a quello che Dio ci ha chiesto di essere: persone mature, libere, che non sotterrano i propri talenti per paura.

 

Virtù e amore

Le virtù prese per se stesse possono produrre effetti perversi. C’è stato nel ‘700 tutto un movimento, il pietismo, che parlava dell’anima bella, cioè fatta di sole virtù. Quest’amore per le virtù autoimposte non nasce dalla libertà. Infatti tutto ciò che si lega al dovere di obbedire, di soffrire, di rispettare (come per l’imperativo categorico kantiano che s’impone contro la sensibilità), qualunque sia la strada scelta, assume un che di stantio, sembra frutto di una strumentalizzazione mirata e rifiutato come oppressivo. Viceversa, quando la virtù sgorga dall’amore, esprime sollecitudine ed empatia, il dovere si manifesta come cura materna del buon-essere dell’altro. Chi è amato non avverte più il peso dell’assistenza e chi ama non calcola gli atti buoni compiuti nella giornata, non isola un determinato comportamento dalla dinamica relazionale, perché sa che non potrebbe essere felice se non facendo il possibile perché l’altro sia felice. L’amore non è come l’assolvimento della buona azione che mette a posto la coscienza ma magari è di fastidio all’altro. Può capitare che uno visiti un malato e magari gli parli a lungo, raccontando i propri guai tanto da provocare in lui lo sforzo di doverlo ascoltare per educazione, ma con interiore insofferenza… Si è fatta la buona azione, ma non si è amato. L’amore in quel caso consiste nell’ascoltare, non nel replicare, nel far venir fuori la sofferenza che il malato sta vivendo, non nello sfogare la propria. Alla base dunque c’è l’attenzione che sa fare il silenzio dell’io per guardare all’altro e alle sue esigenze. Si vede come le virtù, intese in senso riduttivo e isolate dalla realtà vivente delle persone, possono degenerare in vizi.

 

Reciprocità vissuta

La sfida del cristianesimo nel mondo contemporaneo si gioca attorno ai due pilastri della vita etica cristiana, l’amore a Dio e al prossimo, i quali realizzano due espressioni esaltanti della natura umano-divina della persona, nella distinzione delle strade e nella sintonia delle disposizioni interiori. Le vergini, mettendo l’accento sull’amore di Dio, costituiscono un richiamo agli sposi nel cercare di evitare la tentazione del dominio (“Egli ti dominerà” non è solo tentazione maschile, ma di entrambi, nelle forme e nei modi propri) e la tentazione dell’attaccamento morboso (“Verso tuo marito sarà il tuo istinto”[35], espressione valida per la tendenza captativi di entrambi). Gli sposi vivono anch’essi l’amore concreto, nelle piccole cose della vita di ogni giorno, nella fedeltà a quel tu non sempre amabile e comunque non intercambiabile. Essi possono trasmettere a loro volta alle suore la concretezza di una donazione che tocca la profondità delle viscere e non può mai confondersi con la proclamazione e la predica. Nella reciprocità che cercano di vivere con tutti, a cominciare da quanti incontrano lungo il cammino della vita, essi manifestano una loro fecondità affettiva e spirituale che va oltre la genitorialità fisica e ricorda che ogni figlio/a viene da Dio ed è a Lui destinato. “Ho acquistato un uomo dal Signore” è l’espressione biblica di Eva, che indica la convinzione che ogni maternità va oltre il rapporto a due, implica un terzo, appunto un intervento extra che faccia di quel rapporto d’amore un atto creativo e che doni ad entrambi, ma particolarmente alla donna, un figlio.

La genitorialità dei vergini richiama la risposta di Gesù alle donne che lodano sua madre, quando la fecondità di Maria non viene collegata alla procreazione e all’allattamento, ma all’ascolto della Parola e al metterla in pratica (“Beata la donna che ti ha generato e il seno che ti ha allattato”. Ma Gesù rispose: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”[36]). La verginità rende evidente che l’amore a misura di Dio è per “tutti”, concorrendo a realizzare quel desiderio di unità che è condizione indispensabile della pace e che Gesù domanda nel suo testamento. Nello stesso tempo non sarebbe possibile amare veramente neanche una persona sola se l’amore non fosse universale, se l’attenzione a quella persona non contenesse in sé un raggio dell’amore universale, come un triangolo per il geometra racchiude in sé l’universo delle possibili forme triangolari. La fecondità della verginità esalta quella di ogni persona legata a quella del Cristo e orientata al radunare i figli, opera che Gesù stesso ha iniziato e che Giovanni applica al tema del raduno dei dispersi alla morte del Cristo, quando commenta la dichiarazione di Caifa al Sinedrio, al momento della condanna di Gesù, e scrive: “Profetizzò che Gesù stava per morire per la nazione…, ma anche per radunare nell’unità i figli di Dio dispersi”[37].

Nell’ottica della reciprocità è forse più accessibile anche la comprensione del significato dei voti che i vergini fanno davanti a Dio e davanti alla Chiesa. Povertà, obbedienza, castità, che articolano nel concreto la scelta di Dio, esprimono l’aspirazione di tutti ad amare Dio sopra ogni cosa, a non fare un idolo dello sposo/sposa, dell’amico, dei propri beni, del proprio io, ad articolare concretamente la propria vita nel servizio a Dio e ai tu con i quali si viene in contatto giornalmente.

Una certa cultura spiritualista di tipo ascetico e individualistico, troppo legata all’analisi dell’io, resta ferma a una relazionalità intesa come esodo da sé, indipendentemente dall’incontro con il tu (trascendenza e oblatività unilaterali). Ma aprirsi all’altro, senza ottenerne risposta, può costituire premessa di nichilismo, se la trascendenza dell’io va verso il vuoto, senza incontrare altro che il nulla. Intendere la relazionalità come reciprocità significa riconoscere che alla tensione dell’io verso il tu deve prima o poi corrispondere la reciproca (“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”)[38], alla trascendenza dell’io la trascendenza dell’altro, al dono il ricambio, anche quando questo flusso di ritorno viene differito, per una ragione o per l’altra, anche forse sino all’al di là. La persona, infatti, esige non solo lo sviluppo delle sue capacità di uscire da sé (morale individualistica), ma anche il riscontro con un atteggiamento simile nell’altro, ché altrimenti compie un immane sforzo unilaterale, personalmente forse santificante ma incapace di raggiungere i livelli d’intesa necessari a qualificare il rapporto interpersonale e quindi a esprimere la comunione.

Sul solco di questa profonda convinzione e di una costante tradizione, quello che è richiesto oggi dalla nuova evangelizzazione è la visibilità di uno stile di vita basato sull’amore intelligente, capace di armonizzare diversi e talvolta contrastanti esigenze, in un cammino quotidiano, bisognoso di continua conversione e ri-nascita. Ciascuno, sposato o vergine, laico o prete, credente o non credente apprende pian piano lungo il corso della vita, a fare della propria vita un dono, seguendo vie differenti eppure unite dall’unica meta. Chiunque sia disponibile a vivere la sua vita alla scuola dell’amore reciproco – e perciò non si lasci tentare da atteggiamenti di paternalismo, di assistenzialismo, di superiorità-inferiorità – concorre – anche a sua insaputa – a rendere il mondo più conforme a quel Regno che il Vangelo annunzia.

 

 

 

Note

[1] Per l’analisi del postmoderno e delle sue implicazioni pedagogiche, rimandiamo a: A. DANESE – A. ROSSI, Educare è comunicare, Effatà, Torino 2001.

[2] “‘Postmoderno’ è probabilmente un pessimo termine, perché dà l’idea di una periodizzazione storica; e periodizzare è ancora una idea ‘classica’ o ‘moderna’” (J. F. LYOTARD, La pittura del segreto nell’epoca postmoderna, tr. it. Milano 1982, 35). Per un bilancio sul tema dell’evangelizzazione nel postmoderno, cfr. P. VANZAN, Quali linee e soggetti per una nuova evangelizzazione del mondo postmoderno?, “La Civiltà Cattolica”, 7 Maggio 1988, 245-258.

[3] Per la caratterizzazione come “maestri del sospetto” di Marx, Freud e Nietzsche cfr. P. RICOEUR, De 1’interprétation. Essai sur Freud, Paris 1965, tr. it. Milano 1967, 46. Cfr. anche Persona, comunità, istituzioni. La dialettica ricoeuriana della giustizia, a cura di A. DANESE, EdP, Firenze 1994.

[4] G. COLZANI, Moderno, postmoderno e fede cristiana, in “Aggiornamenti sociali”, 41 (1990), 793.

[5] M. DE UNAMUNO, Fida de Don Quijote y Sancho Panza, in Obras Completas, vol. IV, Madrid 1956; cfr. A. GIORDANO, Cultura senza etica? Una fenomenologia del postmoderno, in AA.VV., La questione etica, Roma 1990, 25-44.

[6] B. WILLMS, Postmoderno e politica, in “Beemoth”, 9 (1990),11-21, 21.

[7] R. GUARDINI, Il diritto alla vita prima della nascita, Vicenza 1975, pp. 19-21. 

[8] E. MOUNIER, Le personnalisme, Oeuvres, Seuil, Paris 1961-63,111, p. 521.

[9] ID., Manifeste au servite da personnalisme, I, p. 550.

[10] Cfr. E. CASSIRER, La filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961. 

[11] G. BOSELLI, Postprogrammazione, Firenze 1991, 25. 

[12] E. MOUNIER, Le personnalisme, III, 522.

[13] ID., Révolution personnaliste et communautaire, I, 182. 

[14] Cfr. ID., Le personnalisme, III, p. 453. 

[15] ID., Révolution…, cit., I, p. 192.

[16] ID., Le personnalisme, III, p. 453. 

[17] ID., Le personnalisme, III, p. 455.

[18] D. DE ROUGEMONT, art.cit., p. 371.

[19] ID., Le personnalisme, III , p. 454.

[20] Su questi aspetti rimando a: G. P. Di NICOLA, Per un’ecologia della società. Problemi di sociologia, Dehoniane, Roma 1994.

[21] Per le scarpe della contadina, si veda il commento di M. HEIDEGGER, L’origine dell’opera d’arte, tr. it. in Sentieri interrotti, Firenze 1968, 19 e 21.

[22] ID., Qu’est-ce que c’est le personnalisme?, III, p. 243.

[23] Cfr. K. LYNCH, L’immagine della città, tr. it. Venezia 1985.

[24] Scriveva Pascal: “Gli uomini non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci” (B. PASCAL, Pensieri, Milano 1978, 212, 415 ss, 482).

[25] Cfr. F. ROSENZWEIG, Das neue Denken, in kleinere Schriften, Berlin 1937.

[26] Cfr. A. DANESE, Cittadini responsabili. Questioni di etica politica, Dehoniane, Roma 1993. 

[27] Cfr. D. DE ROUOEMONT, Penser avec les mains, Albin Michel, Paris 1936; ID., Politique de la personne, Je Sers, Paris 1946; AA.VV., Denis De Rougemont, Cadmos, Genève 1986.

[28] J. MARITAIN, Humanisme intégral, in J. ET R. MARITAIN, Oeuvres complètes, vol. VI, ed.Univ. Fribourg Suisse et éd. S. Paul, Paris 1984, 394.

[29] E. MOUNIER, Le personnalisme, III, 499-500.

[30] Cfr. G. MARTIRANI, La civiltà della tenerezza. Nuovi stili di vita per il terzo millennio, Milano 1997, p. 61.

[31] Lc 13,10-13.

[32] Mt 20,28; Mc 10,15; Le 22,27.

[33] Lc 1,30-38.

[34] Rielaborazione scenica di M. MAGHENZANI, Attenzione, Simone Weil. Proposta per più voci recitanti, in Il tempo dell’utopia (a cura di G. P. DI NICOLA), Dehoniane, Roma 1992, pp. 138-139, successivamente riproposta come: Abissi e vette. Il percorso spirituale e mistico di S. Weil.

[35] Gn 3,16. 

[36] Lc 11,27-28. 

[37] Gv 11,52.

[38] Gv 13,34-35