La relazione di accompagnamento tra maturità e dipendenza
L’accompagnamento è sempre un incontro di persone; non è solo ascolto o scambio di idee e contenuti verbalmente espressi, ma comporta un coinvolgimento emotivo, fatto di partecipazione, di contatto e distacco, che orienta e colora la comprensione di quanto viene detto.
Accompagnare è condividere qualcosa di vitale come il pane del cammino, la propria fede, la memoria di Dio, l’esperienza della lotta, della ricerca, dell’amore di Lui. Diventa allora importante conoscere bene le vie di Dio, ma anche la propria e l’altrui umanità per accompagnare le persone sulle vie del Signore e non – magari inconsapevolmente – sulle nostre[1].
Quando colui che guida vive il proprio ministero dinanzi al Mistero, arriva alla scoperta ed esperienza personale estremamente significativa: accompagnando il giovane sulle strade di Dio, nel suo cammino alla scoperta di sé e del suo progetto, la guida stessa si ritrova a fare una nuova esperienza di Dio, o a incontrare il Signore che gli viene incontro attraverso la mediazione del giovane.
Accompagnando un altro verso Dio, ci si scopre “accompagnati” nella stessa direzione, ma per una strada inedita. Per chi accompagna, il giovane diventa per lui come una strada nuova assolutamente sconosciuta lungo la quale Dio gli viene incontro, lo interroga, lo scuote, lo chiama, gli apre orizzonti, lo ama di nuova benevolenza, lo plasma e lo trasforma secondo l’immagine del Figlio.
Si scopre di poter crescere insieme. Ci si sente provocati a lasciarsi guidare dal Mistero, a coinvolgersi profondamente in una relazione che ci porta progressivamente a scoprire ogni volta in modo nuovo e originale come il mistero umano apre al Mistero divino. Per questo non basta una conoscenza teorica dell’uomo in senso generale, ma occorre saper leggere il cuore di chi abbiamo di fronte qui ed ora, anche a partire dal proprio. Non è quindi secondario riconoscere con lealtà i tratti e le dinamiche che l’accompagnatore vive in un accompagnamento oltre che quelle del giovane accompagnato.
Tutta la nostra esistenza è un cammino che si snoda in un continuum tra legami e distacchi, tra dipendenza e autonomia; dal riconoscere la nostra dipendenza verso chi ci genera, alla capacità di crescere come persone individualizzate, uniche e irripetibili, in grado di giocarsi dentro ad una interdipendenza adulta che si fa appartenenza reciproca, altruismo, capacità di prendersi cura.
Siamo chiamati a comprendere l’obbedienza in termini relazionali, come cuore che ascolta stando sotto (“obbediente” dal greco: ascoltare stando sotto, messo al di sotto di qualcosa/qualcuno), che si sottomette per liberare la capacità di prendersi cura di Dio, di sé e degli altri in termini genitoriali, cioè di chi si sente responsabile di qualcuno e quindi obbedisce al travaglio dell’altro[2].
Due passaggi per tratteggiare un cammino di maturazione verso una obbedienza responsabile:
- La relazione come processo generativo: maturare la capacità di ricevere, trasformare, restituire
- La maturazione dell’obbedienza e dinamiche relazionali
- La relazione come processo generativo: maturare la capacità di ricevere, trasformare, restituire
Parlare di relazione e di accompagnamento è parlare fondamentalmente di un processo generativo. La relazione è il “luogo” in cui si rende concreto l’evento spirituale e questaviene prima delle parole stesse. Sono le relazioni che ci costruiscono e la persona non cerca nell’accompagnamento solo un insegnamento o indicazione, ma un’esperienza di relazione in cui l’empatia della guida rappresenta una fonte di appropriazione, di sostegno e di stimolo. In altri termini, le persone che accompagniamo non hanno bisogno solo di conoscere una verità, ma necessitano di sperimentare anche un rapporto significativo, dentro il quale fare un’esperienza di verità.
La relazione di accompagnamento segue alcune dinamiche che sono legate alla generatività. La guida si fa tramite, si rende strumento per un fine che è permettere di vivere il mistero che è la vita; la vita che si muove dentro un senso scoperto, ricevuto proprio all’interno di una relazione personale e che nasce da un incontro con un Volto riconosciuto nella sua importanza, con una Parola capace di dare significato all’esistenza[3].
Ci sono tre movimenti che caratterizzano questo evento generativo: la capacità di ricevere, la possibilità di trasformare e il coraggio di restituire qualcosa che entra nel mondo andando oltre noi stessi per consentire a qualcosa di nuovo di poter esistere. Più ci lasciamo fecondare da qualcosa di bello, più bello sarà quello a cui possiamo dare inizio.
Ricevere
Perché qualcosa nasca ci deve essere qualcosa d’altro che mette un seme. Nessuno di noi è creatore, origine di se stesso, padrone della sua vita e del mondo ma riceve qualcosa da un Altro. C’è un grembo che ci ha generati nell’amore. Si mette al mondo sempre in una dinamica di decentramento: mi lascio fecondare dalla vita per essere tramite della vita che va oltre a me. Non creo la vita, ma posso consentire il suo passaggio.
Questo non è assolutamente scontato oggi perché l’uomo si pensa autore di se stesso e sogna di produrre la vita prescindendo dal legame. Coltiviamo il mito della libertà che si vuole senza vincoli, come autosufficienza; è il farsi da sé, il bastare a se stessi. Anche certe teorie psicologiche affermano che la vita matura sia la vita autonoma, quando invece sappiamo che si diventa adulti quando si sa riconoscere il debito verso l’altro, l’ammettere che senza l’altro non siamo nulla.
In un contesto come il nostro, parlare di obbedienza, di una vita che primariamente si riceve, evoca in noi l’idea di dipendenza, di vincolo, di sottomissione che ci lega, la stessa parola relazione da re-ligosignifica ciò che ci lega; e noi ci sentiamo troppo stretti dentro ad un legame, limitati o soffocati nella nostra legittima libertà. A maggior ragione dentro ad un’obbedienza verso chi rappresenta per noi l’autorità.
Ma, come afferma Chiara Giaccardi, una voce autorevole dei nostri giorni: “Ogni immagine di assoluta autosufficienza, più che un ideale, è un controsenso, una contraddizione in termini, una negazione delle evidenze più elementari: infatti nasciamo dipendenti, e non per nostra scelta, e moriamo fragili e bisognosi delle cure altrui. Autosufficienza, dunque, è anche un’illusione e un inganno”.[4]
Erroneamente si insegue l’idea di un’autonomia dallarelazione che è tipica dell’autosufficiente, di colui che pensa di bastare a se stesso e non tiene conto che si è chiamati a crescere nella capacità di una autonomia nella relazione. C’è una sana dipendenza che è propria di chi è consapevole che la vita non possiamo darcela da soli, ma la riceviamo. Siamo chiamati a maturare una adeguata interdipendenza perché tutti siamo chiamati ad una obbedienza reciproca, anche nei rapporti tra i pari, come nei confronti delle figure autorevoli.
Trasformare
Dalla nostra capacità di ricevere al processo di lasciarsi trasformare. Siamo trasformati perché ogni incontro ci modifica, ci plasma, ci cambia anche se non ce ne rendiamo conto, anche se non vogliamo. Allo stesso modo, anche per far nascere ci sono due movimenti: decentrarsi e accogliere/ospitare. La stessa parolaConcepireetimologicamente da cum caperesignifica prendere presso di sé, accogliere, contenere. Concepire è fare spazio all’altro, a ciò che non è “io”. E questo implica una trasformazione continua, un allargare continuamente i confini perché senza vuoto non c’è vita. E’ maturante saperabitare, stare dentro ai propri vuoti che si temono e dai quali vorremmo fuggire, perché sono benedetti e riempiti, colmati da Dio. Sono i grembi sterili che Dio ha fecondato, sono le promesse che Lui mantiene.
Ogni relazione profonda è generativa ed è reciproca perché ci fa essere quello che altrimenti non saremmo stati. Io genero qualcuno o qualcosa che a sua volta, mi genera come persona e in questa reciprocità ciascuno regala all’altro un pezzetto della sua verità. Reciprocità non è solo apertura rispetto all’altro, bensì capacità di farsi regalare dall’altro la nostra verità.
Questo implica il confronto con la fragilità che ci abita: il nome proprio dell’umano, il suo distintivo, la sua natura. È un avversario con il quale confrontarsi e non sempre è così facile anche per nostri giovani. Fragile è tutto ciò che si può rompere, spezzarsi, che richiama il nostro limite, la caducità del tempo che passa. Eppure, come scrive Antonietta Potente: “La necessità e il limite ci rendono amici, ci rendono mendicanti cioè capaci d’aver bisogno della compagnia degli altri, della sapienza degli altri; solo una persona che riconosce, che vive il limite può essere una persona comunitaria”[5].
Tutti noi abbiamo un rapporto molto conflittuale con le nostre fragilità e i limiti che ci impone la vita. Siamo fragili e l’altro è per me un limite perché mi rimanda necessariamente alla mia povertà, alla mia dipendenza. Lo sforzo maggiore dove investiamo le nostre energie è quello di eliminare le fragilità dalla nostra vita, perché offuscano l’immagine di perfezione con la quale vogliamo apparire agli altri e a noi stessi. Eppure in noi convivono possibilità e limite, bene e male, grazia e peccato. Quando l’obiettivo della vita è l’autorealizzazione, ogni limite diventa minaccia, ostacolo. Al contrario se il dinamismo è quello di saper integrare autorealizzazione e autocontrazione ciò permette il fiorire della capacità adulta di consegna di sé e di cura degli altri.
E’ legittima la possibilità di espandere la proprie possibilità, doti, risorse, ma altrettanto è maturante “fare i conti” con l’autocontrazione, cioè col fare spazio per ospitare gli altri, interiorizzare la loro presenza, tener conto del loro punto di vista, delle loro sofferenze, delle loro intenzionalità relazionali, il saper gestire i rifiuti e le non gratificazioni che molto spesso comporta ogni rapporto.
Maturiamo quando impariamo a trasformare il limite perché diventi spazio della potenza di Dio; quando promuoviamo la capacità di capire che la forza d’animo presuppone la fragilità. Forte è colui che sa di essere debole, che conosce e assume la propria realtà di limite.
“Produce vita solo ciò che è assunto” dicevano i Padri della chiesa. Vivere i propri fallimenti come luogo dove Dio ci raggiunge con il suo amore e ci impedisce di fare della nostra vita un delirio di onnipotenza, ma al contrario una possibilità di crescita.
Mettere al mondoèun’esperienza grande, ma anche dolorosa e impegnativa perché c’è un legame insopprimibile tra amore e dolore. Senza dolore non trasmettiamo incarnazione:“partorirai con dolore”[6]. Ogni cosa che nasce passa attraverso una strettoia e le doglie del parto. Le gioie fecondano, i dolori fanno nascere. Anche Cristo stesso imparò l’obbedienza dalle cose che patì[7].
Quando nasciamo siamo dipendenti e solo attraverso la sofferenza del travaglio e molti strappi si costruisce la propria unicità. Raggiunta la capacità di essere autonomi e responsabili, ci viene richiesta una nuova fatica per consegnare la propria libertà a qualcuno nell’obbedienza. La trama della nostra esistenza è scandita da due spinte radicali intimamente connesse ma diametralmente opposte: la spinta ad essere se stessi da un lato e la spinta ad appartenere all’altro. Ma per definire i propri confini abbiamo la necessita di separarci. Così come si permette ad un bimbo di nascere quando si taglia il cordone ombelicale.
Questo consente l’individuazione, cioè aiuta a tratteggiare i propri confini, a costruire l’identità personale e la capacità relazionale che attiviamo anche in rapporto con l’autorità. Un attraversamento problematico di questa linea evolutiva spingerà la persona a relazionarsi con la guida in termini di eccessiva distanza o di troppa fusione. Chi ha avuto difficoltà in questo senso tenderà a vivere relazioni di dipendenza affettiva; chi invece non ha superato bene le tappe dell’individuazione tenderà all’autonomia difensiva.
Possiamo riconoscere la dipendenza affettiva in un forte bisogno di stare con una persona, di avere appoggi, sostegno, consolazione e rassicurazione; il tempo che ci dà non è mai sufficiente, siamo sempre insoddisfatti e arrabbiati; più la dipendenza viene gratificata e più aumenta il bisogno.
L’autonomia difensiva, si manifesta invece con una tendenza all’autosufficienza, con la fatica a farsi aiutare e a chiedere aiuto, la vicinanza dell’altra persona crea fastidio. Si prova insofferenza nel fare cose insieme agli altri, percepiti molto spesso come minaccia dalla quale difendersi, così come i rapporti sono vissuti come lotta e competizione.
Entrambe le situazione porteranno la persona a vivere con difficoltà un rapporto equilibrato con chi ha una funzione di autorità nella propria vita.
Saper entrare nella logica generativa significa pertanto accettare che non c’è vita senza dolore. Siamo chiamati a riconoscere e accettare la sofferenza come una dimensione strutturante di ogni relazione, anche quella di accompagnamento, perché sottrae all’egoismo, all’autoreferenzialità, ne verifica la libertà e apre alla gratuità. Ci fa maturare in adultità e nella capacità di vivere rapporti non fusionali o, in senso contrario, troppo distanti.
Non basta mettere al mondo pur con il dolore, dobbiamo prenderci cura per far crescere, far stare al mondo, sostenere quanto è fragile. Nella sua radice latina ”cura”contiene in sé una intera frase, un’azione che la qualifica: cor urat– scalda il cuore. Per scaldare bisogna toccare, stare vicino, abbracciare: è l’abolizione della distanza, è il farsi vicino, ma assume anche un altro significato da kau osservare (da qui saggezza). C’è un legame con lo sguardo, ma anche con la sapienza: il conoscere non solo con la testa, ma con la totalità di sé. La cura riscalda e trasforma lo sguardo. Infatti, prima che un’azione è una forma dello sguardo, un modello di relazione, è fonte di energia e novità. La cura è uno stile di relazione. Non è un laccio, un vincolo, ma una relazione che continuamente viene rimessa al mondo, fatta essere e durare.
Restituire
Lasciar andare è un passaggio difficile e doloroso eppure straordinario perché da questo passa la vita, il suo fluire, la sua sorpresa. E’ saper farci da parte per far vivere l’altro anziché soffocarlo nella protezione. Se amiamo colui o ciò che mettiamo al mondo non possiamo che desiderare la pienezza dell’altro e il distacco ne è la condizione. Il figlio potrebbe non essere come lo hai sognato tu, ma resta tuo figlio; non lo scegli. Gli amici si scelgono, ma fratelli o sorelle, figli si accolgono. Affinché un figlio viva, la madre deve lasciarlo andare: quando nasce, quando impara a camminare, quando sceglie la sua strada, anche quando questa strada lo porta lontano.
La legge dell’amore è sempre pasquale: occorre consentire il distacco, l’assenza, il lasciare, il consegnare anche quando il cuore sanguina e senti che qualcosa si strappa da te.
Il rapporto con l’altro ci espone inevitabilmente alla ferita. A nessuno sono risparmiate alcune inevitabili difficoltà evolutive e relazionali legate al mistero del tempo e dell’alterità. Crescere ha la sua fatica, comporta crisi e passaggi che richiedono un attraversamento intelligente, perché esse siano al servizio della maturazione di ciò che è autenticamente umano in noi. La crisi fa parte della vita, e ne fa parte integrante poiché segna un momento di passaggio, di cambiamento cruciale nel quale l’individuo deve affrontare situazioni inedite e fare scelte nuove, e perciò difficili.
Generare significa anche perdere. In ogni crisi si perde qualcosa, legata all’equilibrio precedente e questa perdita è irreversibile; il soggetto si rende conto di quello che perde prima di sapere quello che trova. In questi frangenti dobbiamo affrontare la fatica di ‘perderci per ritrovarci’: un processo di morte e rinascita, doloroso ma ricco di possibilità inaspettate, che ci porta a scoprire capacità e forze fino a quel momento latenti dentro di noi.
La ferita provocata anche dalle nostre crisi, da questi passaggi pasquali di morte e di vita, di perdita e di conquista, ci rende vulnerabili. La vulnerabilità, da vulnus uno squarcio nella nostra superficie, nella nostra stessa pelle; uno squarcio che ci svuota, una menomazione dolorosa, ma anche una “feritoia”, un taglio che rompe la corazza dell’Io e lascia passare una luce nuova, che altrimenti non troverebbe un varco. Lascia intravvedere un oltre, che altrimenti resterebbe celato.
La vulnerabilità è quel tratto fondamentale che ci rende sensibili e aperti, capaci di riconoscere che siamo intrecci di relazioni e guardare questa realtà con gratitudine, capaci di trasformare anche il dolore nel travaglio per la nascita di qualcosa di bello, capaci di umanità.
- La maturazione dell’obbedienza e dinamiche relazionali
L’obbedienza qualifica un modo di vivere e di relazionarsi con Dio, con gli altri, con la realtà e perfino con se stessi. La prima obbedienza è infatti verso noi stessi e verso la vita. L’obbedienza o la disobbedienza non sono riducibili al modo con cui si esegue o si trasgredisce un comando, si rispetta o non si osserva una norma. L’obbedienza è la forma filiale della vita. Conduce a percepire l’esistenza come un dono da accogliere e non come una proprietà da conquistare o da trattenere. Solo l’obbedienza ci rende liberi in quanto ci rende figli come è Gesù stesso.
Da un punto di vista evolutivo l’essere umano inizia la sua storia da una posizione affettiva di dipendenza in cui riceve tutto da chi si prende cura e lo fa crescere, passa poi ad una posizione di contro-dipendenza od opposizione caratterizzata da una ambivalenza nella quale lotta per riequilibrare il rapporto e per meglio affermare se stesso; attraversa poi una fase di relativa autonomia ed arriva ad una posizione di interdipendenza nella quale si riconosce reciprocamente. Tali fasi si presentano fin dalla prima infanzia ma poi, a livelli sempre più alti, anche ciclicamente nella vita.
A causa di ferite è possibile rimanere fissati ad uno stadio evolutivo, così che ciascuno di noi può avere la tendenza a sviluppare legami da una posizione di dipendenza(“non so fare a meno di ciò che mi dai e mi sottometto pur di riceverlo”) o di ambivalenza (“ho bisogno di te e lotto con rabbia perché tu mi dia quello che voglio”) o di eccessiva autonomia (“faccio a meno di te…mi arrangio”).
Diventare pienamente adulti, invece significa andare al di là anche della legge dell’interdipendenza per imparare ad amare in maniera altruista, al modo di un genitore che si prende cura dei suoi figli a costo di sacrificare se stesso[8].
La relazione filiale che si instaura fin dalla nascita fa riferimento a legami interpersonali particolarmente intensi, che risalgono a schemi relazionali che si sono organizzati nella mente della persona lungo il processo di crescita. Infatti, coloro che accompagniamo vengono da una lunga storia di rapporti con l’autorità: i genitori, i maestri, i professori, il sacerdote… Le prime esperienze relazionali sono attivamente presenti nella memoria di ogni persona, con i vissuti emotivi piacevoli o spiacevoli corrispondenti, con le aspettative positive o negative che guidano le successive relazioni. In un modo o nell’altro hanno imparato una modalità di rapportarsi con gli altri. Si sono fatti inconsapevolmente un’idea dell’autorità e hanno delle attese nei suoi confronti. Si aspettano che il suo comportamento sia di un certo tipo, molto simile a quello che fino a quel tempo hanno sperimentato. La guida, volente o nolente, è un’autorità, se non altro perché il soggetto gliel’ha conferita quando lo ha scelto come suo accompagnatore.
E’ un cammino che ha a che fare con le influenze reciproche: le aspettative che il giovane può avere nei confronti di chi lo accompagna e le reazioni della guida stessa. Nessuno di noi è la stessa persona in tutti i rapporti che instaura: ogni relazione è unica, così come ciascuno ha la sua “genesi” e la propria storia, che possono influenzare lo sviluppo della capacità relazionale.
Parliamo infatti, di processo di attaccamento come sistema di regolazione delle modalità di interazione con gli altri attraverso il quale maturiamo uno stile relazionale. Le rappresentazioni delle figure parentali, che includono le immagini interne delle esperienze vissute, hanno una forte valenza simbolica e un’intensa carica affettiva ed esercitano un notevole influsso sullo sviluppo anche dell’atteggiamento religioso[9]. Tale processo, di trasformazione e integrazione dei legami, pone le basi umane per lo sviluppo di un sano atteggiamento filiale nell’esperienza di rapporto con Dio, quindi con l’esperienza di essere stati figli.
Un’esperienza in cui si è percepita la cura responsabile dei genitori fornisce gli elementi affettivi vitali di protezione e cura e rappresenta una base sicura nel ciclo personale di vita. In tal caso le figure di riferimento sanno coniugare funzioni di sostegno e funzioni di guida: la giusta distanza tra il coinvolgimento e il distacco. Se si focalizzano solo sul polo dell’affetto, il figlio può rimanere invischiato nello stile invasivo e iperprotettivo, può rinchiudersi in forme di egocentrismo e non elaborare il senso di sé e degli altri. Al contrario, se si pone in rilievo soltanto il polo della legge, della norma, il figlio può percepire che i suoi bisogni non sono considerati e potrebbero svilupparsi forme di adesione esteriore, motivate dalla paura oppure forme di ribellione più o meno aperte.
Va comunque ricordato che i modelli relazionali interiorizzati sono in continua riorganizzazione e possono essere rimodellati attraverso la crescita nella consapevolezza del proprio stile e nella capacità di verificare se si è dipendenti, manipolativi, indifferenti, autonomi.
In questo processo maturativo non vanno trascurate le dinamiche specifiche legate al genere maschile e femminile. Ci sono infatti, percorsi evolutivi differenti tra i maschi e le femmine. Separazione e individuazione costituiscono i nodi portanti dello sviluppo maschile, attaccamento e connessione definiscono il femminile.
“La modalità maschile, è centrata sull’espressione di sé a partire dalla separazione, mentre quella femminile, sull’offerta di sé a partire dalla relazione… si delineano due piani espressivi: da un lato, l’immagine prevalentemente maschile della distinzione, della competizione, della regola; dall’altro l’immagine prevalentemente femminile dell’intimità, della cura, del rapporto”[10]. Per questo generalmente, l’identità di genere maschile risulta minacciata dall’intimità, mentre l’identità femminile è minacciata dalla separazione[11].
Infatti, a partire da questi processi evolutivi le donne tendenzialmente vivono le relazioni con una modalità molto più di attaccamento e dipendenza rispetto agli uomini che tendono a sentirsi autosufficienti, quindi più autonomi e indipendenti nei rapporti.
Inoltre, va evidenziato che queste caratteristiche vanno ad attivare a livello inconsapevole anche nella guida aspetti più paterni o materni. Non è sempre facile discernere chiaramente quale dei due ruoli venga sollecitato maggiormente dalla persona accompagnata, se quello del padre o della madre. E’ per lo più una domanda implicita, in gran parte inconscia. Quando nell’accompagnamento una persona esprime richieste di affetto, comprensione e considerazione superiori a quelle che possono normalmente essere accolte in una relazione, la guida deve saper riconoscere questo eccesso e contenerlo, senza criticarlo ma anche senza gratificarlo, evitando quindi quei “maternalismi” che fanno diventare la relazione e la gratificazione che si riceve da essa, più importanti dell’obiettivo del cammino umano e spirituale del giovane.
La guida “paternalista” è invece quella che non tollera nessuna debolezza che possa rallentare il cammino, o che non si ferma ad ascoltare quelle che sono le reali difficoltà della persona; tendenzialmente giudica subito come disobbedienza o resistenza ogni tentativo del giovane di dare un orientamento alla propria vita e di prendere iniziative, o, ancora, è l’accompagnatore che sa sempre che cosa l’altro dirà prima ancora che inizi a parlare.
Un padre autorevole invece non vuole che il figlio rimanga troppo a lungo prigioniero di illusioni infantili, né che protragga più del necessario la permanenza nello spazio protetto e garantito dalla madre. Per questo lo accompagna con gentilezza e fermezza insieme in un cammino in cui è chiamato ad imparare ad affrontare le prove e sofferenze inevitabili della vita pur vigilando che siano graduate e proporzionate alle forze. E’ colui che incoraggia, stimola, responsabilizza, rende autonomo.
Lo stile autorevole della guida sa coniugare funzione di sostegno e cura tipicamente materne con la funzione di orientamento e responsabilizzazione che sono proprie dell’azione paterna, affinché il giovane faccia un percorso maturativo sia a livello affettivo che a livello etico.
Anche San Paolo è ben cosciente che una pedagogia della fede e dell’esperienza spiritualerichiama sia il padre che la madre che sono in lui. Egli soffre talmente nel suo cuore da paragonare le sue sofferenze a quelle di un nuovo parto: “Miei piccoli figli, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato il Cristo in voi”[12]: e questo è tipicamente femminile.
Ma Paolo dà sfogo anche a sentimenti paterni: “Non è per farvi vergognare che vi scrivo queste cose, ma è per riprendervi quali miei figli amatissimi. Potreste avere infatti anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante l’evangelo”[13].
Conclusione
Obbedienza non è dipendenza o sottomissione, ma diventa partecipazione attiva, umile e semplice nella ricerca comune della volontà di Dio, responsabilità creativa per il bene comune. L’obbedienza non è non dipendere, ma è scegliere da chi e per cosa dipendere. Quante dipendenze in nome della libertà!!! E’ imparare ad affidarsi con coraggio e appartenere fedelmente perché capaci di prendersi cura anche sacrificando se stessi, i propri bisogni e progetti.
Pertanto, l’autorità a cui si è chiamati ad obbedire dal senso etimologico della parola «auctoritas»viene dal verbo augere diventa colei che fa maturare, fa crescere, cerca di sottomettersi ad ogni vita per farla crescere in pienezza[14]. Esercita autorità solo chi serve la vita dell’altro. E’ il potere dell’amore, della paternità-maternità di chi genera, che diviene capace di orientare senza umiliare con l’intento di far sviluppare e circolare ogni possibilità di bene. E’ l’autorità che ha consapevolezza della propria parzialità, del sentirsi “non padrone ma collaboratore della loro gioia”[15]all’interno di una storia che si muove dentro un significato, di un mistero che è la vita stessa dentro cui opera lo Spirito. Jean Vanier parla di compassioneche“consiste nel porre sull’altro uno sguardo che lo aiuti a rivelarsi. La compassione significa rivelare all’altro il suo valore davanti a Dio che abita in lui e aiutarlo, così, ad andare fino in fondo nel suo cammino di vita”[16].
A partire da ciò anche le varie figure autorevoli sono chiamate a comprendere che il potere liberante è solamente quello del Dio crocifisso, l’unico in grado di fare dell’accompagnamento un servizio alla persona e alla comunità. Le sue braccia inchiodate e aperte sono testimonianza che il vero potere vuole l’alterità dell’altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli resurrezione[17].
Mi piace pensare allora che siamo chiamati ad esercitare la pedagogia dell’incarnazione perché resi capaci di assumere la realtà dell’altro, prendersi cura dell’umanità ferita, bisognosa di salvezza, e perché allenati a praticare la pedagogia eucaristia come riconoscenza e offerta di vita, espressione dell’assoluto dono di sé, sacrificio perché l’altro cresca e impari l’arte di vivere e di rispondere all’Amore.
[1]Papa FRANCESCO, Christus vivit. Esortazione apostolica postsinodale, ELLEDICI, Torino 2019, pp. 142-146.
[2]Ibid., 166-170.
[3]GIACCARDI C. – M. MAGATTI, Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Roma 2014.
[4]GIACCARDI C., https://www.festivalnazionaleeconomiacivile.it/economia-civile-legami-chiara-giaccardi/ultima consultazione 11 marzo 2019.
[5]POTENTE A., La religiosità della vita. Una proposta alternativa per abitare la storia, Icone Edizioni, Roma 2004.
[6]Gen 3,16
[7]Eb 5,8
[8]DELL’AGLI N., Autorità e obbedienza. Percorsi formativi, in AA.VV., Obbedienza tra libertà e appartenenza. Io cerco il tuo volere, Il Calamo, Roma 2009, pp. 126-27.
[9]STEVANI M., Orizzonte di fede e realismo umano. Per una vita consacrata più “incarnata”, LAS, Roma 2016, pp 203-243.
[10]CANTELMI T. – R. BARCHIESI, Amori difficili. La crisi della relazione interpersonale e il trionfo dell’ambiguità,Ed. San Paolo, Milano 2017, pp. 200-201.
[11]GILLIGAN C., Con voce di donna, in Maschio-femmina: dall’uguaglianza alla reciprocità, a cura di Sandro Spinsanti, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 160-166.
[12]Gal 4,19
[13]1Cor 4,14-16
[14]F. MARCHESINI DETOMASI, «… ma tra voi non sia così!». Spunti per un’educazione al servizio di autorità, Bologna, EDB, 2002, pag.13.
[15]2Cor 1,24
[16]J.VANIER, Glorifiez Dieus dans votre corps, Parole et Silence, Paris 2010, pag. 64.
[17]O. CLÉMENT,Il poterecrocifisso, Qiqajon, Comunità di Bose, Magliano 1999.