N.03
Marzo/Aprile 2002

Chiamati alla santità: Antonio e i santi della Parola

Il titolo della relazione “S.Antonio ed i santi della Parola” pare sottintendere una classificazione della santità a partire da categorie desumibili da specifiche dimensioni della fede: ci sarebbero allora i santi della Parola, e quelli della carità, i santi educatori, ed i santi della preghiera, per non parlare dei santi penitenti, o dei santi pastori. Senza voler negare una certa utilità a queste classificazioni, che hanno il merito d’identificare con chiarezza l’ambito di vita cristiana maggiormente evidenziato da questo o quel santo, tuttavia non pare una via capace di dare i criteri di fondo necessari per una più matura teologia della santità cristiana.

 

Santità e Parola di Dio, un intreccio vitale

La santità cristiana, per quanto si presenti in una molteplicità sorprendente di forme ed espressioni, è nella sua più intima e sorgiva realtà solamente una, aderente com’è al mistero di Cristo. Non possiamo non rifarci qui alle fondamentali basi poste dal documento conciliare Lumen Gentium: il nucleo essenziale della santità cristiana non sta tanto in questa o quella virtù, ma nella piena conformazione a Cristo, di cui le singole virtù non sono che l’espressione. Santità significa pertanto assunzione di tutte le dimensioni della fede cristiana, nella loro completezza ed integrità. Questo significa che non possiamo perdere la prospettiva olistica, cioè della totalità, od integralità: se aumenta la qualità della tua preghiera questo dovrebbe riflettersi in una migliore qualità della tua vita fraterna, se stai crescendo nella vita comunitaria, questo dovrebbe tradursi anche in un più serio impegno civile, storico e pubblico, e così via. In altre parole un’autentica crescita nella santità dovrebbe essere contrassegnata dalla maturazione contemporanea di tutti gli aspetti della vita cristiana. In secondo luogo significa anche che studiare le varie manifestazioni della santità cristiana lungo la storia diventa veicolo non per apprendere questa o quella singola virtù, ma la totalità del mistero cristiano.

La teologia spirituale ha fornito un contributo qualificato alla chiarificazione di questa problematica applicandosi in modo specifico alla riflessione sulla categoria di esperienza spirituale. Fondamentalmente essa viene descritta come sintesi nella vita del credente, della grazia della fede, o momento soggettivo della fede, e la verità della fede, il “credendum”, il dato oggettivo della fede. Giovanni Moioli seppe dare contributi di grande lucidità proprio sul tema dell’esperienza spirituale come incontro tra due polarità della fede: quella soggettiva e quella oggettiva. È infatti nell’incontro fra polarità oggettiva e soggettiva, che l’uomo viene costituito come credente. Come osserva Moioli: “La fede in se stessa non esiste, esiste invece il rapporto tra l’uomo e la rivelazione, rapporto in base al quale l’uomo viene costituito come credente”[1].

Stando così le cose la maturazione della fede sarà misurata dalla maturazione della relazione del credente con l’oggetto della fede, cioè col mistero pasquale. In ultima analisi la maturazione di fede si determina nella relazione del credente con la persona di Cristo Signore, crocifisso e Vivente. Non si dà pertanto santità cristiana al di fuori d’un riferimento al mistero di Cristo nella sua integralità. Detto in altra maniera, sarebbe impensabile relativizzare o limitare il riferimento al mistero Cristo “ad alcuni aspetti”, quasi a voler circoscrivere l’adesione al dato rivelato, quasi che alcuni aspetti possano essere messi in qualche modo da parte. Gli esempi nella storia della spiritualità potrebbero essere numerosi, frequentemente accentuazioni unilaterali di questo o quell’aspetto della vita di fede hanno condotto a conseguenze aberranti. È una tentazione che diventa tanto più pericolosa quanto più pretende di fare a meno della mediazione della Parola, e dei sacramenti della Chiesa.

Nella misura in cui la santità cristiana è profonda radicazione nel mistero pasquale allora tutti i santi sono “uguali”, poiché identico è il loro anelito ad immedesimarsi al medesimo mistero di Gesù Cristo. Tuttavia questo viene poi assunto in modalità soggettive che sono talvolta talmente diverse da concretizzarsi in fenomenologie esistenziali quasi opposte. Passiamo qui dal polo oggettivo, al polo soggettivo dell’esperienza della fede, in cui osserviamo l’illimitata varietà di modi in cui i credenti hanno personalizzato il medesimo contenuto di fede. L’oggetto della fede può infatti venire assunto, internalizzato, ed espresso secondo un numero illimitato di modalità soggettive. Le spiritualità differiscono tra loro non tanto a livello dottrinale, quanto piuttosto nelle modalità di vivere il mistero della fede. Nel caso dei santi canonizzati poi troveremo una sorta di “genialità spirituale” capace d’interpretare spiritualmente un’epoca per un’intera generazione, o forse, nel caso di pochissimi santi, anche a livello universale. Questa “genialità spirituale” consiste nella capacità d’indicare alcune modalità specifiche di fare sintesi del mistero cristiano, segnando una strada, uno stile di personalizzazione della fede. La varietà d’accenti, timbri ed intensità, modulata dalle variazioni storiche e culturali, fanno nascere le spiritualità storiche, le più riuscite delle quali sanno interpretare un’universalità talmente forte da divenire riferimento per intere generazioni attraverso i secoli, e forse attraverso anche i confini religiosi…

Tutto questo discorso può apparire astratto e teorico, ma si collega invece, alla preoccupazione ermeneutica che ci consente di risalire fino a quei valori permanenti che anche oggi, ognuno di noi può ritrovare per crescere nella fede. In questa ricerca sarà importante tenere presenti i “nodi dinamici”[2] dell’esperienza spirituale, cioè quegli aspetti utili a definire la qualità cristiana dell’esperienza. Essi potranno essere sviluppati secondo linee e proporzioni diverse, ma nell’insieme qualificano in modo imprescindibile un’esperienza spirituale come cristiana, e la loro analisi diventa criterio di valutazione della maturità di fede: il riferimento a Gesù Cristo crocifisso e risorto, il senso dell’essere peccatori e della grazia, il riferimento alla parola ed al sacramento, il senso della storicità paradossale dell’essere cristiano e dell’escatologia, il cristocentrismo nella visione di Dio e dell’uomo, l’integrazione della Chiesa.

Il rapporto con la Parola di Dio costituisce un “nodo dinamico” di grande rilievo. Esso si è espresso in molti modi, ma resta centrale perché è connesso al riferimento a Gesù Cristo, e non possiamo parlare d’esperienza cristiana se non in riferimento alla persona di Cristo. È vero che la santità cristiana, particolarmente dopo la controriforma tridentina, non ha sempre conosciuto il riferimento diretto alla Parola di Dio. Non dobbiamo avere remore ad esprimere su questo un giudizio critico, e segnalare come questo abbia prodotto pericolose distorsioni nella stessa esperienza di fede. Il problema è articolato perché lungo i secoli vi furono molti modi di vivere il rapporto con la Parola di Dio: mediato dai grandi cicli pittorici, dalle devozioni, dalle vite dei santi, dai pii esercizi, dalle forme catechistiche e via dicendo. È evidente però che più ci si allontana dalle fonti bibliche dirette, più aumenta il rischio d’una assimilazione parziale, frammentaria e deformata dello stesso mistero pasquale. Un esempio tipico di questo può essere dato dalla diversa modalità di accostare la passione del Signore, e dal dolorismo che ne scaturisce. Quando il credente è guidato ad una contemplazione sempre più individuale, a staccarsi dalla liturgia, e attraverso la fantasia a rendersi presenti alla scena evangelica, si arriva così alla configuratio, la ricostruzione mentale, giungendo al compianto, all’imitazione ascetica, fino al dolore fisico volontario. Alla fine il patire per immedesimazione al Cristo sofferente diveniva “il punto di arrivo d’una beatitudine rovesciata”. La spiritualità finiva col trovare nel dolore il movente principale d’un progetto di perfezione, e cadeva così nel dolorismo, cioè in una teoria che attribuisce al dolore un ruolo centrale per la vita spirituale. Dico questo come esempio di distorsione dell’esperienza spirituale legata ad una separazione dal contatto vivo con la Parola evangelica, che porta ad un vangelo che è proprio il contrario del Vangelo… Alla luce di quanto abbiamo detto la domanda del nostro titolo diventa: come S.Antonio ha affrontato il nodo dinamico della relazione alla Parola di Dio nel suo cammino di fede?

 

La Parola di Dio in Francesco

Dopo le premesse fatte è evidente che la santità della Parola cui è utile confrontare Antonio sarà la santità francescana, a cui approda nella sua maturità giovanile, e nel cui ambito compirà la sua straordinaria parabola apostolica, oltre che ovviamente, la santità monastica nel cui contesto il giovane Antonio riceve la sua formazione. Uno dei segreti dell’originalità di Antonio sta proprio nell’essere emblematicamente sulla linea di confine fra la grande tradizione monastica, da cui deriva e di cui è straordinario erede, ed il nuovo orizzonte francescano degli ordini mendicanti, di cui diviene presto qualificato interprete profetico, in un’epoca di grandi cambiamenti, per molti versi non dissimile alla nostra. Radicato nella tradizione monastica in cui ha ricevuto la sua formazione, vigoroso germoglio della nuova pianta francescana.

Per comprendere il rapporto di Antonio con la Scrittura è necessario parlare anche della relazione che con essa ebbe Francesco. È evidente infatti che senza questa cornice fondamentale rischieremo un’interpretazione inevitabilmente riduttiva e parziale del modo di stare “sotto la Parola” che fu tipico di Antonio. Sul tema del rapporto di Francesco con la Parola vi  sono ovviamente molte pubblicazioni[3], il mio scopo in questa relazione è solo aprire la finestra di qualche prospettiva.

La ricerca della comunione col Padre si è nutrita in Francesco d’un contatto assiduo e fedele dell’insegnamento del Signore, il santo evangelo fu per lui gioioso annuncio ascoltato: “Questo io voglio”. Era per lui una notizia emozionante che avveniva nel cuore, evento spirituale capace di rinnovare in lui la stessa esperienza sorgiva che fu dei Dodici. Come per tutti i cristiani, dopo che il Signore ed i suoi testimoni oculari hanno terminato la loro vicenda storica, anche per Francesco l’ascolto e la predicazione del vangelo sono legati alla lettura della parola scritta. Anche per Francesco la lettura delle fragranti “parole del mio Signore” divenne scaturigine della sua esperienza di fede, spirituale e vocazionale. Tutta la sua esistenza sta sotto l’evento della parola scritta, ascoltata, letta, pregata, assimilata e mantenuta viva nella fede. Accogliendo questa parola Francesco non accoglieva solo dei contenuti mentali, ma una relazione con Dio, da trasmettere ai fratelli. Pietra angolare della sua vita fu una lettura appassionata ed emozionata della pagina sacra, perno del suo agire sia personale che comunitario e fraterno. La sua fraternità era nutrita, illuminata, accompagnata da una Parola attraverso la quale l’amore, il calore, e la luce di Dio comunicavano soprattutto una relazione. Il suo inoltrarsi emozionato nel mistero del vangelo inizia a specificare un primo grande ambito di esperienza spirituale. È quello in cui Gesù Cristo, il Cristo della Pasqua, morto e risorto, diventa, attraverso la mediazione della parola, il riferimento assoluto del credente. Consiste in questo il “genio spirituale” di Francesco? In fondo la tradizione monastica precedente aveva costruito per secoli la propria vita di fede su questo modello. Dimorare, “stare nella casa” della Parola, era il programma del monaco che, mettendosi nella Parola, polo oggettivo esterno a sé, in realtà finiva col raccogliersi, trovare il proprio centro in essa. Come ed in quale contesto Francesco rinnovava questo secolare modello d’esperienza?[4]

Iniziamo a scoprirlo osservando il suo non voler avere “altra regola al di fuori del Vangelo di Cristo”. Il suo approccio al vangelo, la sua evangelicità non sta negli aspetti ascetici radicali, ma in questo: non voler altra regola che il Vangelo. Già all’inizio del secolo dodicesimo S. Stefano di Muret, fondatore di Grandmont, aveva scritto di volere per sé solo la “regola delle regole”, il Vangelo di Cristo, la sola via lungo cui un cristiano può sperare di far parte di entrare nel Regno dei Cieli. A distanza di un secolo troviamo in Francesco il proposito, comune ai movimenti penitenziali laicali, di prendere con estrema serietà le parole stesse del testo sacro. Per Francesco non sono parole da interpretare in senso allegorico, ma indicazioni da mettere in atto con radicale immediatezza. Siamo vicini a quella miscela d’entusiasmo religioso e di letteralismo evangelico che non di rado produce pericolose derive fondamentaliste. Non è la via seguita dal francescanesimo, e come esso abbia evitato questo pericolo è problema cui è necessario rispondere.

Aiuta a farlo André Vauchez[5] osservando come, nei suoi scritti Francesco da una parte inviti ad osservare la Regola “sine glossa”, dall’altra però non utilizzi mai le espressioni “alla lettera”, o “letteralmente”, come al contrario faranno i suoi agiografi. Come mai? Il fatto è che Francesco si sforzerà sempre di rimanere il più vicino possibile al testo, senza mai cadere però in un letteralismo arido. Il suo rifiuto della “glossa” è in realtà il rifiuto di tutto ciò che s’interponeva fra testo sacro e credente, facendo correre il rischio a quest’ultimo di scansare l’appello diretto del Vangelo al cuore. Così possiamo leggere il Testamento di Francesco ai nn. 38-39 (FF 130): “E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola, e in queste parole dicendo: ‘Così si devono intendere’; ma come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere spiritualmente e con purezza la Regola, e queste parole, così cercate di comprenderle spiritualmente, e senza commento, e di osservarle con sante opere sino alla fine”. D’altro canto, nella Ammonizione 7 (FF 156), Francesco utilizza per l’unica volta il termine “alla lettera”, leggiamo: “Sono uccisi dalla lettera i frati che non vogliono seguire lo spirito della Scrittura divina, ma piuttosto desiderano sapere le sole parole e spiegarle agli altri”.

In altre parole occorre per Francesco fare una lettura “sine glossa” ma non letterale. Come superare l’apparente contraddizione? La risposta ci viene tenendo presente come per l’uomo medievale il rapporto lettera-spirito, equivaleva a quello materia-forma, pertanto la lettera serviva ad incarnare lo spirito, che essa stessa contiene. Così iniziamo a comprendere come ci possa essere una lettera dalla quale si viene uccisi, ma anche una lettera da cui si può essere vivificati. Il rispetto letterale del testo della regola non era finalizzato ad un’osservanza puntigliosa, ma ad una più piena penetrazione del suo senso. Esprimeva insomma l’esigenza d’una coerenza personale, senza fermarsi alla lettera, per lasciarsi coinvolgere dal senso delle parole, ed impegnarsi a percorrere la via a cui esse aprivano (vedi l’uso del verbo “cominciare”). Lo scopo della lettura della regola, era lo stesso del Vangelo: far coincidere l’interno con l’esterno, l’interiorità con i comportamenti, le parole con le scelte, per giungere ad una piena conformità al Cristo. Un’ulteriore annotazione ci aiuta in questo contesto, e cioè come Francesco, per evocare le relazioni fra uomo e Dio, non utilizzi mai il verbo “imitari”, ma il verbo “sequi”; così nel capitolo XXII della Regola non Bollata parla del “Signore Gesù Cristo, di cui dobbiamo seguire le orme” (FF 56).

Non è un particolare da poco, ci viene infatti indicata non una imitazione letterale, ma un sequela responsabile, e creativa. È una preziosa indicazione di metodo: si tratta di cercare nell’esempio di Cristo quegli atteggiamenti di fondo, capaci d’illuminare e sostenere le scelte della vita. Dunque il proposito di conformarsi a Cristo rientrava in quella fedeltà allo Spirito Santo che spingeva Francesco a considerarlo il vero ministro generale dell’ordine (2 Celano 193, FF 779). Da qui la sua insistenza ad osservare la Regola ed il Vangelo, spiritualmente, e di comportarsi (“ambulari”, “conversari”) spiritualmente, od in tutta semplicità, termini in lui, di fatto, sinonimi. Giustamente allora Vauchez può concludere che in Francesco possiamo trovare una lettura evangelica “spiritualmente letterale”, espressione di uno “spirito della lettera” che si oppone ad uno “spirito della carne” designante quella lettura del Vangelo fatta per soddisfare la propria vanità, per annunciarla agli altri senza preoccupazione di applicarla a sé, o peggio per desiderio di lucro, come richiamano varie Ammonizioni (nn. 7, 20, 21). Di fronte a questa lettera che, secondo l’espressione paolina, “uccide”, Francesco fa però vedere come ci sia anche una lettera che dà la vita, nell’apertura e nella disponibilità ad ascoltare l’Evangelo che la Regola attualizza. Il modo di leggere il Vangelo di Francesco non è dunque fondamentalista, poiché è meno preoccupato del testo della lettera che degli atteggiamenti contenuti e descritti in esso. Su questa scorta possiamo ora passare ad analizzare la parabola evangelica della vita di Antonio.

 

Una spada ti attraverserà l’anima

Non dobbiamo stupirci, a partire dalle premesse sopra descritte, che Francesco, con il suo richiamo a vivere spiritualmente “seconda la forma del Santo Vangelo”, aprisse nuovi spazi di libertà nella cristianità medievale, elettrizzando molti giovani ardenti. Fra questi il monaco Fernando, della canonìa agostiniana di Santa Cruz in Coimbra. Mi pare che potremmo tentare una sintesi, che è già avvio d’interpretazione della sua vita, a partire dagli schemi agiografico-spirituali della santità monastica medievale che teorizzano il triplex bonum, il triplice bene dei monaci: incipientibus desiderabile coenobium, ingredientibus aurea solitudo, perfectis evangelium paganorum. È uno schema che permette di sintetizzare la biografia di Antonio, mostrandone la realizzazione in uno stato non più monastico.

Il desiderabile coenobium Fernando lo vive nel periodo della sua formazione portoghese, nei cenobi agostiniani di Lisbona prima, e di Coimbra poi. Tutti i biografi riconoscono il rilievo ed il valore dell’intensa formazione biblica, culturale, teologica ricevuta in Portogallo da Antonio. La sua formazione iniziale si consuma nel cenobio, sotto la guida di maestri esperti, che avevano studiato presso i Vittorini di Parigi, e con l’ausilio di biblioteche ben fornite. Sappiamo poi come la Regola agostiniana inviti ad un’assidua lectio divina, poiché ritiene che aumenta la perfezione del sentire e del capire, istruisce alla preghiera ed al vivere ciò che si è pregato, modellando una vita in cui la fede plasmi realisticamente il vissuto.

L’ansia dell’evangelizzazione che proietterà il giovane Fernando fuori degli spazi canonici del monastero, in Marocco prima, e poi in tutta Europa, tradisce in modo fin troppo evidente la presenza di un valore assimilato, e fatto proprio, condensabile nella formula “evangelium paganorum”. Tale valore lo vedremo vissuto nello straordinario zelo apostolico con cui in sette anni, dall’autunno del 1222 al giugno del 1231, Antonio brucia senza risparmiarsi tutta la sua vita. Sarà proprio in questi sette anni, come frate minore, che vivrà la praedicatio come modalità concreta di porsi a servizio della Parola, discostandosi dal modello monastico in un’intensa opera d’evangelizzazione. Un momento di snodo decisivo della sua parabola esistenziale è costituito tuttavia dall’aurea solitudo che Antonio vive dal fallimento della missione in Marocco (nell’inverno del 1220-21) fino all’autunno del 1222, periodo trascorso in gran parte all’eremo di Montepaolo in Romagna.

Non si tratta di presentare Antonio come un santo che prima ha studiato, poi è stato nell’eremo, e poi ha predicato, come fossero aspetti che si sono succeduti meccanicamente nella sua vita, ma di cogliere il fondamento dell’esperienza spirituale di Antonio. Esso sta nel suo desiderio di fedeltà ad una Parola che non è semplicemente da studiare, ma da vivere con tutto se stessi. Ci aiuta a comprendere l’anima di Antonio l’analisi di ciò che accade dal 1220 al 1221: lascia il suo ordine religioso, si lancia in un’avventura missionaria rischiosa, s’ammala gravemente, sperimenta l’insuccesso, rischia la vita in una navigazione pericolosa, alla fine lo troviamo ramingo, sconosciuto, e dimenticato in un eremo disperso della Romagna. Si tratta d’una crisi esistenziale che segnerà definitivamente il resto della sua vita. Ci sono nella vita delle persone dei momenti di passaggio che possono essere rifiutati, aggrappandosi disperatamente al passato, subiti con rassegnazione passiva, oppure possono essere accolti, lasciandosi portare dal vento dello Spirito e dalle profonde correnti dell’amore. Antonio seppe farlo, sicché la sua vita fu davvero attraversata tutta, come da una spada, dalla Parola: una Parola da studiare, ascoltare, meditare nel silenzio, annunciare a tutti i fratelli. Fa appena in tempo a ricevere l’ordinazione sacerdotale, a 25 anni, che la sua storia s’incrocia con quella dei frati minori. Eccolo dunque raggiunto dalla Parola annunciata dal sangue dei protomartiri francescani, e lui messe biondeggiante nel campo del Regno, si lascia mietere da questa parola nuova. Il vangelo ai pagani non era certo una novità per il giovane canonico, se ne sente provocato ed appellato al punto da abbracciare il saio, mosso dal desiderio di prendere il posto di quei frati, e di continuare la loro missione, mescolando al loro il suo sangue. Vive così l’ideale di Francesco: la Parola è da vivere, da rivolgere a se stessi, prima che agli altri. Le urne dei martiri portate nel suo monastero dovettero sembrargli una vera annunciazione. Le cose però non andarono secondo i suoi piani, finché la sua nave è sospinta dai venti avversi in Sicilia. Impossibile che Antonio non abbia visto in tutto questo una sorta di segno di Giona alla rovescia. Se Giona era il profeta che non voleva andare lì dove era stato inviato, Antonio fu invece il profeta che per eccesso di zelo volle andare lì dove non era stato inviato.

Uscì da questa missione fallita profondamente trasformato con tre doni: in primo luogo il “segno di Giona”, la conversione all’obbedienza piena al Signore, vivere affidato alla volontà di Dio valesse più dell’eroismo d’una scelta arbitraria. Se Giona fu il profeta che difendeva il nome del figlio Israele, anche contro Dio, Antonio sarebbe dovuto diventare il profeta che imparava a mettere la gloria di Dio sopra ogni altra gloria umana. Ma non c’era nessuno che gli spiegasse cosa dovesse fare, e dovette comprenderlo da solo nel silenzio, e nel nascondimento. La dimensione del deserto d’altronde, non durò solo durante l’eremo di Montepaolo, ma fu una dimensione stabile di tutta la sua vita. Conosciamo ancora i “loca eremitica” in cui si rifugiava nella sua itineranza apostolica in Francia, e sappiamo come fu l’ultimo “dendrita” della storia della Chiesa, utilizzando un grande noce come cella di ritiro, a Camposampiero. Oltre a questo segno di Giona, però Antonio riportò anche un segno anche fisico di questa lotta con Dio, e come Giacobbe riportò la “lussazione dell’anca”, Antonio uscì da questa esperienza con una salute irrimediabilmente compromessa, memoriale della propria umana fragilità e dell’esigenza d’appoggiarsi su Dio. Terzo ed ultimo dono il fuoco della Parola acceso nel cuore, lo stesso fervore che l’aveva fatto uscire dal monastero di Coimbra, per offrirsi evangelizzatore per il Marocco, lo sosterrà in una formidabile impresa evangelizzatrice durante i sette anni della sua maturità apostolica, che lo rivelerà alla Chiesa, ed al mondo, come infaticabile annunciatore e servitore della Parola. Davvero tutta la sua vita fu sotto il segno della Parola, attraversata dalla spada della Parola.

 

La lectio divina di Antonio

Dalle fonti biografiche possiamo dedurre che anche come frate minore Antonio non abbandonò mai l’assiduo, quotidiano contatto con le Scritture che aveva appreso ed assimilato negli anni di formazione monastica. Gli spazi di ritiro nei loca eremitica erano da lui dedicati a questo contatto, ne abbiamo preziose testimonianze, come questa di una delle antiche biografie del santo, la Benignitas : “In uno dei tempi liberi, per dedicarsi più comodamente all’orazione e allo studio della sacra Scrittura, si trasferì presso un certo luogo eremitico, detto Camposampiero”, lì fu fatta allestire una cella per lui, e per due suoi compagni, Luca e Ruggero, perché “si dedicassero anche loro all’orazione e alla contemplazione”[6].

Ancora la Benignitas cita poi le attestazioni di coloro che lo conobbero personalmente, i quali affermavano che “come un altro Girolamo aveva una tale pratica dell’Antico e del Nuovo Testamento, da conoscerli quasi a memoria”. Leggendo i Sermones, ci riesce difficile dubitare del fatto che conoscesse effettivamente la Scrittura a memoria, del resto sappiamo come fosse normale nel monachesimo medievale richiedere fra i requisiti d’ammissione al noviziato il fatto d’aver appreso almeno il salterio a memoria. D’altronde un’altra fonte biografica, la leggenda Assidua, ci riferisce l’espressione entusiasta del papa Gregorio IX, che dopo aver ascoltato Antonio lo indicò come “arca del Testamento”.

A questo punto dobbiamo ricordare un importante documento francescano, e cioè la lettera di Francesco ad Antonio (FF 251-252): “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni (legas) la sacra teologia ai frati, purché in tale occupazione (studium), tu non estingua lo spirito della santa orazione e devozione, come è scritto nella Regola. Sta bene”. È utile notare che a quel tempo legere theologiam significa semplicemente fare la lectio sulla Scrittura, e se lo studium era la meditazione, l’orazione e la devozione indicavano il fine dell’applicazione alla Scrittura. Essa infatti non doveva condurre alla “scienza che gonfia” ma al vero amore per Gesù Cristo.

I Sermones non sono pertanto una raccolta di predicabili, la raccolta delle sue prediche, Antonio infatti predicava in dialetto, nelle lingue vernacole delle popolazioni, secondo gli studiosi dovette apprenderne diverse, ma le lectio preparate da Antonio, vescovo di Francesco, e quindi di tutti i frati, per i quali svolgeva il ministero di spiegare la Parola. Ce lo ricorda la Vita prima: “Come per divino volere fu giunto a Padova, predicava solo di tanto in tanto, ché lungo l’inverno si applicò interamente agli studi, e su richiesta del vescovo di Ostia si dedicò a scrivere i Sermoni per le feste dei santi venerati nel corso dell’anno”[7]. In realtà se noi osserviamo l’opera dei Sermones vediamo come coprano le letture bibliche per tutto l’arco dell’anno liturgico, spiegate secondo i tradizionali quattro sensi: letterale, allegorico, morale, anagogico: “Nell’erba è indicata l’allegoria, che edifica la fede, nella spiga è indicata l’applicazione morale, che forma i costumi, nel chicco pieno l’anagogia, il senso mistico, che tratta della pienezza del gaudio, e della beatitudine angelica”[8]. Non riusciamo ad entrare nella lettura di queste pagine antoniane senza tenere presente che esse sono in ultima analisi una raccolta di numerosi schemi di lectio divina offerti da Antonio ai confratelli, secondo i vari sensi delle Scritture, per tutto l’anno liturgico. Questo lavoro della lectio divina era considerato da Antonio particolarmente necessario per i frati predicatori, ed a loro si rivolge in modo speciale, poiché il predicatore è come un fabbro che deve forgiare le armi per la lotta spirituale: “Leggiamo nell’Ecclesiastico: Il fabbro seduto all’incudine osserva il suo lavoro del ferro, la vampa gli brucia le carni e deve lottare contro il calore del forno. Il rumore del martello gli rintrona gli orecchi, mentre i suoi occhi sono fissi sul modello del vaso. Applica il suo cuore all’esecuzione dell’opera e sta attento per rifinirla alla perfezione (Eccl. 38, 29-31). Fabbro deriva da ‘fare’ ossia da lavorare il ferro, ed è figura del santo predicatore della Chiesa, che fabbrica le armi dello spirito. Egli deve sedere vicino all’incudine: deve cioè applicarsi allo studio ed alla pratica della Sacra Scrittura, per esercitarsi in quello che predica”[9]. Per Antonio dunque il predicatore deve prepararsi alla sua opera con un duro lavoro su di sé e sulla Parola.

Antonio penetra nel senso delle Scritture attraverso un commento spirituale che fa perno soprattutto alle continue concordanze, egli leggeva la Scrittura con la Scrittura, cercando i passi paralleli di ogni testo, e lasciandosi portare da essi. Sono poi frequenti le soste per richiamare i suoi lettori al fatto che la parola commentata è proprio per coloro che stanno ascoltando: lo fa con applicazioni, con passaggi al discorso in forma diretta, con brevi invocazioni a Dio Padre, o a Gesù Cristo. È chiaro, infatti, che il fine della sua lectio non è quello di un maestro di teologia, le sue non sono dispute scolastiche, o lezioni universitarie, ma esistenziale, e d’utilità spirituale. Si farebbe confusione affermando che la finalità degli scritti antoniani sarebbe quella della conversione morale, riducendo l’insegnamento di Antonio ad una mera predicazione penitenziale, non è vero: “Perciò a gloria di Dio e per l’edificazione delle anime, a consolazione del lettore e dell’ascoltatore, dal senso più profondo della Sacra Scrittura e ricorrendo ai vari passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, abbiamo costruito una quadriga, affinché su di essa l’anima venga sollevata e portata, come il profeta Elia, in cielo per mezzo della frequentazione delle verità celesti”[10].

La conversione morale era certo una preoccupazione della lettura antoniana delle Scritture, ma solo come gradino intermedio, che aveva in realtà come obiettivo la “consolazione delle Scritture”, tale consolazione era effetto d’un cammino di conversione e di fede, e d’una illuminazione. In realtà gli scritti antoniani ci danno prova d’una matura e completa dottrina spirituale e mistica. Se Antonio si proponeva di guidare il lettore e l’ascoltatore ad una comprensione più profonda delle Scritture era perché riteneva questa l’unica via per giungere a leggere e gustare il piano d’amore e di redenzione di Dio, così come si dipana nella storia d’Israele, della Chiesa, e personale.

 

Conclusioni per noi

Quali conclusioni possiamo trarre da questo lungo percorso? Un primo insegnamento, che ci viene dalla modalità francescano-antoniana d’accostare e vivere la Parola, è che essa o è comunione con “colui che dialoga con te” (Gv 4, 26) o è scienza che gonfia, e “menzogna”, cioè il contrario della “testimonianza” che è la pienezza della verità, la consistenza della verità evangelica. Ciò che avevano colto assai bene Francesco ed Antonio, è che il peccato radicale della parola è il dire ciò che non è, il parlare d’un bene che si manifesta all’esterno, ma poi manca di presa nel vissuto reale. I santi c’insegnano che non bastano i contenuti mentali. Nella Chiesa d’oggi non è questo che fa difetto: abbiamo scuole, giornali, pubblicazioni, molti pulpiti in cui possiamo esprimere le nostre idee, e spesso si tratta di concetti articolati e ad un certo livello di elevatezza. Quello che ci manca spesso è invece l’armonia del “fatto” con il “detto”, una consistenza che non sempre riempie la conoscenza, per cui la verità detta, non corrispondendo alla realtà delle cose, finisce con il divenire menzogna. Noi stessi falsifichiamo con il nostro vissuto le cose vere che diciamo, e diventiamo così non credibili, trasmettitori di doppi messaggi, la nostra vita dice infatti spesso l’esatto contrario delle nostre belle lezioni scolastiche.

Un secondo insegnamento importante che mi pare di trarre è quello dell’esperienza della Parola come annunciazione. Sia per Francesco che per Antonio varie situazioni esistenziali furono come il plettro che, pizzicando le corde d’una Parola sopita nel cuore, suscitarono nella loro anima un’annunciazione, la comparsa d’una concezione spirituale prima inesistente, nuova, capace di dar corpo ad una “parola interiore”. Francesco ed Antonio, come Maria, concepirono attraverso l’orecchio, e dettero vita, attraverso un fedele ed assiduo servizio della Parola, ad una nuova presenza di Dio nella storia. Anche noi siamo chiamati a dare vita a Dio, attraverso l’incarnazione esistenziale della “parola interiore” che giace nel nostro cuore e che forse è ancora sopita, ma che il Signore vuole risvegliare. Ognuno di noi sarà a vari stadi di questo processo: ci sarà chi deve ancora ricevere questa annunciazione, chi la sta comprendendo solo ora, forse alcuni di noi dopo anni stanno mettendosi in movimento finalmente per riuscire a realizzarla, e chi più avanti può già contemplare i frutti di questa terra promessa.

Una terza conclusione importante mi pare che possiamo trarla dal “nome nuovo” ricevuto da Antonio, egli infatti non predica per conto proprio, dopo la missione fallita in Marocco non sarà più il libero battitore, ma l’apostolo che svolge una missione a lui affidata in perfetta docilità ed obbedienza. L’annuncio francescano del vangelo diventa per Antonio una vera identità donata, un’identità di figlio che annunzia ai fratelli l’amore del Padre. Alla radice dell’esperienza apostolica francescana vi era questo dato di fatto: i frati minori non facevano dipendere la loro identità dal ministero della predicazione che avevano assunto. La loro identità proveniva dalla loro esperienza di Dio, e dall’esperienza profonda della loro vocazione, da questo nasceva il loro ministero. Possiamo allora chiederci se alle volte il nostro annuncio non rimane inefficace proprio perché è motivato dal fatto che noi cerchiamo la nostra identità nel nostro ministero, anziché far nascere il nostro ministero da un’identità profonda, maturata nella nostra relazione con Dio. All’origine dell’annuncio della Parola vi è infatti la forza dell’identità e della vocazione personale. L’evangelizzazione avviene infatti per “esemplarità” intesa non in senso banalmente moralistico, ma in senso testimoniale, di trasmissione di una Parola non propria, ma che ha plasmato, modellato e modificato la vita di chi la trasmette.

Quarta conclusione, Antonio, Francesco e gli altri frati minori, andarono sempre per il mondo “a due a due”, il loro annuncio fu sempre quello della fraternità, il loro nome era di “frati”, Antonio non cercò la sua gloria, il suo prestigio, ma di creare vere relazioni fraterne con gli altri. Con questo abbiamo un importante invito a smascherare le nostre tentazioni d’onnipotenza: la comunità è il luogo in cui cercare di cominciare a vivere ciò che apprendiamo dalla Parola, e ciò che poi vogliamo annunciare di essa. Essa è il luogo per vivere e crescere nella minorità secondo le parole di Matteo 23, 12: “Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”. Antonio rimane un frate minore, rinunciando al dominio sugli altri, che la conoscenza della Parola avrebbe potuto procurargli. Dopo il biglietto di Francesco valgono per lui le parole di Agostino: “Per voi vescovo, tra voi cristiano” che in Antonio potrebbero suonare così: “Per voi ministro della Parola, tra voi frate minore”. Questo atteggiamento di minorità impediva ad Antonio di tenere sotto tutela i fratelli a cui aveva amministrato le “fragranti parole del Signore”. Non era solo una preoccupazione d’umiltà, ma l’esigenza di rispettare la vera finalità d’ogni autentico apostolato, che non è creare delle persone dipendenti, ma dei figli di Dio, liberi e responsabili, poiché il vero maestro è lo Spirito Santo, quel maestro interiore che agisce nel nostro cuore. Un vero annuncio cristiano non può trascurare d’insegnare a riconoscerne l’azione e la presenza.

Infine un’ultima conclusione, come il Signore “designò altri settantadue davanti al suo volto in ogni città e luogo dove stava lui stesso per venire” (Lc 10, 1), così il Signore designò ed inviò davanti al suo volto il suo servo Antonio; il versetto di Luca riecheggia il profeta Malachia che annuncia l’invio dell’angelo del giudizio. Antonio fu davvero l’angelo, l’annunziatore inviato per preparare l’accoglienza del volto di misericordia del Figlio. È questa la responsabilità degli evangelizzatori: la predicazione del volto misericordioso del Figlio avvicina il giudizio finale, ma possiamo chiederci se il volto di Dio viene annunziato davvero come ce lo presenta il Vangelo. La compattezza dell’esperienza evangelica di Antonio rimane per tutti allora un coraggioso richiamo.

 

 

 

Note

[1] MOIOLI G., L’esperienza spirituale, Glossa, Milano 1992, p. 58. 

[2] MOIOLI G., op. cit., p. 105.

[3] Per questa analisi cfr. POZZI G., Dolore e dolorismo, in AA.VV., La cognizione del dolore ed i suoi spazi, Accademia di architettura di Mendrisio, 2002.

[4] Rimando qui a due testi: AA.VV., Parola di Dio e Francesco d’Assisi, Cittadella, Assisi 1982; ed un utile sussidio pastorale, BOLIS S., Francesco e la parola, Ed. Porziuncola, Assisi 1999.

[5] VAUCHEZ A., François d’Assise entre litteralisme evangelique et renouveau spirituel, in AA.VV., Frate Francesco, Atti del XXI Convegno Internazionale, Assisi 1993. 

[6] Fonti a. antoniane n. 3, Padova 1986, pp. 548-550, c. XVIII, 1-2.

[7] Fonti a. antoniane n. 3, Padova 1986, p. 492, c. XII, 2. 

[8] Fonti a. antoniane n. 1, Padova 1981, pp. 330. 

[9] Sermones, Prologo n. 2, Padova 1994, p. 19. 

[10] Sermones, Prologo n. 5, Padova 1994, p. 21.

 

Bibliografia

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Nota bibliografica antoniana

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  1. ANTONIO, Sermones dominicales et festivi ad fidem codicum recogniti, 3 voll., EMP, Padova 1979.
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GAMBOSO V., (a cura di), Fonti agiografiche antoniane, 4 voll., Centro Studi Antoniani, EMP, Padova.