Trasformati dalla Parola per annunciare Cristo al mondo: la formazione del chiamato all’ascolto
Educarsi all’ascolto nella fase del discernimento significa concreta mente cercare e vivere il momento del “giudizio”, cioè della lettura e della valutazione dei desideri e delle resistenze del cuore. La persona-chiave è qui, evidentemente, la guida spirituale con la quale vivere il proprio dialogo di comunicazione e ascolto. Questo lavoro, infatti, ognuno deve farlo per se stesso; ciascuno deve “leggere e valutare” i propri eventi interiori e spirituali, con il significato che essi assumono. Si può dare qualche indicazione, però si tratta, alla fin fine, di un cammino profondamente personale e … originale[1].
È con l’aiuto della guida spirituale che può illuminarsi, nella riflessione e nel confronto, il proprio vissuto, per coglierne il dinamismo più profondo e autentico, quello che lo Spirito Santo ha posto dentro al chiamato e che si manifesta, spesso, in un alternarsi vario di emozioni e sentimenti, proprio perché la vita è ricca, complessa e non è facile coglierne, in un unico momento, il significato interpretativo globale. Ma noi, attraverso l’esame della nostra storia concreta, possiamo cogliere certe “coordinate”, che sono costitutive del nostro essere, e che riguardano il pensiero di Dio su ciascuno di noi e sulla nostra comunità.
Quale ascolto per colui che cerca discernimento?
Le coordinate ci diranno, in maniera abbastanza chiara, che il nostro vissuto non è casuale o dominato da un destino cieco, ma va letto secondo delle linee interpretative che ci permettono di dire: “Veramente sto vivendo questo? Questo è quanto desidero, chiedo, o è quello che temo e da cui scappo? Questo è quanto offro a Dio, ora, con tutto il mio cuore ? O è quello che mi fa paura presentargli?”.
La dimensione dell’ascolto… questo dimenticato!
L’atteggiamento fondamentale che aiuta l’ascolto è quello della simpatia, ed è tipico di chi, prima di tutto, considera l’altro degno di essere ascoltato e preso in considerazione; e proprio nell’essere ascoltati con attenzione e serietà, si entra un po’ alla volta nel proprio mondo interiore e nel proprio particolare modo di vedere le cose; si scoprono i propri schemi mentali e il proprio modo di impostare il ragionamento.
Tutto ciò richiede la capacità di decentrarsi, di fare silenzio interiore: il silenzio dal proprio punto di vista, dalla preoccupazione di sé, dalle distrazioni della mente, dalle paure del cuore di coinvolgersi e lasciarsi toccare. Questo silenzio non è facile né naturale: in altre parole è la capacità di ascoltare. E qui si impone una riflessione: secondo una statistica, l’ascoltare occupa il 42% della comunicazione, il parlare occupa il 32%, il leggere il 15%, lo scrivere l’11%; eppure, non ci sono corsi né lezioni che ci insegnino ad ascoltare, così come ci viene insegnato a leggere, a scrivere e a parlare[2].
“Ho ascoltato il silenzio”
Era questo il titolo di un famoso libro dello psicologo e spiritualista H. J. M. Nouwen, che fu anche il primo di una lunga serie di pubblicazioni che lo resero famoso e lo fecero conoscere anche da noi per la sua capacità di declinare insieme la dimensione della psicologia e quella della spiritualità. Esso descrive, nello stile del diario quotidiano, le scoperte fatte durante la sua permanenza in un monastero trappista, nella fase di un periodo sabbatico che egli si era preso all’interno della sua attività di conferenziere ed insegnante. Direi che, in sintesi, potremmo cogliere tre aspetti fondamentali che aiutano a capire come questo slogan abbia una sua particolare attualità anche per tutti noi.
È importante, di tanto in tanto, concederci una pausa di “silenzio”, un’oasi silenziosa ove la nostra vita possa un attimo rifiatare, riposare e fare il punto della situazione. Non si può continuare a vivere in maniera frenetica e sempre di corsa, nella “pastorale del canguro” che salta da un impegno all’altro. Ma occorre individuare un tempo ed un luogo per concederci questo spazio.
Un altro aspetto importante dell’esperienza di Nouwen fu quello che, durante la sua permanenza in monastero, egli fu seguito ed aiutato dal Padre Abate che gli diede dei consigli preziosi per capire meglio le dinamiche e le mozioni della sua vita spirituale e di quella psicologica, ed egli fa chiaramente intendere come questa Guida sia essenziale per ogni processo di crescita interiore “olistica”.
Un terzo, fondamentale aspetto è la possibilità di interpretare il silenzio come un momento… che parla, che aiuta a leggere meglio il mondo dei sentimenti e delle emozioni, che permette di ripercorrere in profondità il tracciato della propria esperienza relazionale e delle figure significative che in essa ci sono, che aiuta a cogliere, usando la terminologia junghiana, ciò che in noi c’è di “persona” (la maschera e l’apparenza…) e ciò che in noi c’è di “ombra” (il limite spesso negato o represso), per elaborare meglio l’integrazione del nostro vissuto e riannodare i fili spezzati della nostra vicenda personale. È essenziale per ognuno avere uno spazio, un tempo, un luogo, una persona che ti faccia assaporare il gusto di… ascoltare il silenzio[3].
UN CUORE CHE VIVE L’ASCOLTO
Perché è docile
Riflettiamo insieme, ora, aiutati da un breve excursus biblico, sul senso della “docilità del cuore”.
Sapienza e ascolto
3,7: Ignorans egressum et introitum meum / 3,7: Non so come regolarmi
3,10: Dabis ergo servo tuo cor docile / 3,9: Concedi al tuo servo un cuore docile
In greco suona così: “kai dòseis to doùlo sou kardìan akoùein”… e darai al tuo servo un cuore per ascoltare!
Le citazioni sopra riportate provengono da 1 Re 3,7.9. Salomone sale al trono al posto di suo padre Davide, che ha messo insieme per la prima volta le tribù d’Israele e addirittura stabilito rapporti economico-politici con i popoli vicini. Dentro alle tribù israelitiche stesse sono mescolati i Cananei, i Fìlistei, i Fenici, gli Ittiti, ecc., che hanno culture e religioni diverse. Davide aveva imposto il dominio con la forza del suo esercito. Ora si trattava di avviare un rapporto di scambio, di collaborazione, di convivenza, di confronto tra le diversità della cultura, della religione e dell’organizzazione sociale. Una realtà politica così consistente ora doveva anche mettersi in relazione con le altre grandi unità politiche quali l’Egitto, la Siria, l’Arabia ecc. Israele aveva la sua tradizione normativa e la sua storia. Come porsi di fronte alla nuova realtà?
Salomone è ricordato nella tradizione biblica come il “re sapiente”. Tale titolo gli è stato dato per il fatto che ha aperto il suo popolo al confronto culturale con questo grande mondo, di fronte al quale per la prima volta le tribù venivano ora a trovarsi. Prima erano abituate alla vita entro gli ambiti geografici e culturali di ogni singolo territorio tribale. L’atteggiamento che la Bibbia ha considerato come la chiave del successo di Salomone è definito nella richiesta di Salomone. Salomone avrebbe avuto bisogno di un forte esercito per mantenere le conquiste di suo padre David, oppure avrebbe avuto bisogno di grandi ricchezze per rispondere ai bisogni della nuova grande organizzazione che stava per nascere. Salomone chiede “un cuore capace di ascoltare”. Questo è il significato del cuore “docile”. Il criterio per sapere regolarsi è l’ascolto. Un ascolto che attinge alla tradizione normativa, all’ispirazione attuale (1 Re 3, sogno di Gabaon e 1 Re 9,1-9) e al confronto con le nuove situazioni che risultano dall’incontro con popoli e culture diverse. Tutta la tradizione sapienziale sta alla base di tanta letteratura biblica, ha la sua radice nell’ascolto della tradizione e delle nuove esperienze di vita. Due libri sapienziali come Giobbe e Qoelet rappresentano la fatica del superamento di posizioni tradizionali sempre riaffermate (contestazione) proprio attraverso l’ascolto-confronto della realtà esperienziale dentro e fuori Israele. Anche Samuele, introdotto nella Bibbia come l’uomo la cui storia è all’insegna dell’ascolto, sarà colui che introdurrà nelle tribù grandi cambiamenti stimolato dall’ascolto delle richieste della nuova situazione all’esterno e dalla parola di Dio nel suo interno. E ciò non gli è costato poca tensione!
L’esilio babilonese: disfatta o rinascita!
La lettura dell’esilio avvenne su due versanti opposti di ascolto, secondo il dilemma manzoniano: “Può essere castigo, può essere misericordia”. È un dato di fatto che questa esperienza ha riplasmato la fede e la sua stessa formulazione. Israele si è messo in ascolto e ha ricompreso la sua esistenza in rapporto a tutto il mondo. Ha allargato gli orizzonti della comprensione della stessa azione di Dio: è passato dal “suo” all’unico Dio di tutta la terra e di tutti popoli.
Il periodo maccabaico e il confronto con l’ellenismo: fedeltà o chiusura!
L’identità del giudaismo si sentiva minacciata dall’innovazione della cultura greca giunta anche in Palestina con l’ellenismo. Ma nello stesso tempo ha operato un ascolto e un confronto che ha preparato “la pienezza del tempo” rendendo possibile l’annuncio del vangelo nel mondo greco-romano.
Come Maria… (Lc 2,18-19)
Vg: 2,19 Maria autem conservabat omnia verba haec conferens in corde suo
Cei: 2,18-19 Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano / Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
Interconf.: 2,18-19 Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono del le cose che essi raccontavano. / Maria, da parte sua, custodiva gelosamente il ricordo di tutti questi fatti e li meditava dentro di sé.
Sembra che ci sia in Maria un ascolto e un confronto tra la parola annunciata che riguardava ciò che il suo figlio doveva essere, ciò che ora stava succedendo, e quello che i pastori andavano raccontando. La sua comprensione delle parole tanto grandi con cui Luca descrive l’annunciazione, diventa reale di fronte agli avvenimenti e alle testimonianze che altri adducono.
Conclusione
Mi pare di cogliere nell’atteggiamento dell’ascolto da parte di questi personaggi o comunità alcuni dati:
– Una distanza tra la primitiva comprensione del messaggio, della missione, e della realtà e quella che successivamente si va formando;
– Una disponibilità che gradualmente si va accrescendo, anche se all’inizio provoca perplessità, reazione o contestazione;
– Una capacità di “silenzio” circa l’immediata sensazione di sapere “già”;
– Una positiva disposizione che gradualmente porta ad aprirsi alla comprensione di sé e del proprio essere e stare nel mondo e in relazione a Dio.
Tutto questo complesso processo si potrebbe quindi chiamare “capacità di ascolto” o “cuore docile”.
Perché è semplice
Un aiuto a capire la dinamica del “cuore semplice” ci viene dalla “preghiera semplice” di Gesù, così come la ricaviamo dal Vangelo di Matteo (Mt 11,25-30). Questa che accostiamo è un gemma preziosa, simile alle preghiere nel Vangelo di Giovanni. Lo stile e la intensità accostano questa benedizione alla preghiera sacerdotale di Gv 17, con cui Gesù chiude il testamento ai suoi discepoli nell’ultima sera, durante la Santa Cena.
Per comprendere i tre movimenti di questo stupendo “cantico semplice”, è importante ricomporne la cornice. Matteo, nel paragrafo precedente, ha appena descritto il rifiuto opposto a Gesù dalle città benestanti sul lago di Tiberiade: Corazin, Betsaida e Cafarnao, indifferenti alla sua parola e alla sua azione.
Dopo questa preghiera, entrerà in scena l’intellighenzia giudaica, le alti classi della aristocrazia e del sacerdozio ebraico, che poi vorranno la sua morte. Gesù, con questa preghiera, dichiara esplicitamente chi sono i suoi amici e compagni di viaggio: i poveri, i semplici, che possono essere poi trasparenti per vivere l’intimità con lui e il Padre; i “nèpioi”, in greco, gli “anawìm” in ebraico: gli oppressi, i piccoli, gli umili, gli indifesi… Questa è anche l’unica preghiera di Gesù riferita dai Sinottici; le altre sono brevi invocazioni al Getsemani e sulla Croce, mentre il Padre nostro è insegnato ai suoi discepoli.
La prima strofa è una benedizione, un ringraziamento che sale a Dio come incenso, come le mani alzate nel sacrificio della sera. In Gesù è caduto il velo dal volto del Padre, ma lo possono contemplare solo occhi che non siano altezzosi, superbi e pieni di sé. Non sono, quindi, gli occhi spenti degli orgogliosi che vedono in Gesù solo un modesto predicatore giudaico, il figlio di un artigiano, degno solo di ironia per le sue stupide velleità messianiche…
Nella seconda strofa c’è una zoomata sulla figura di Cristo, così come i poveri sanno vederla. La descrizione è legata ad un termine fondamentale della Bibbia, il conoscere, che nel mondo semitico, con un’ardita analogia, dice la pienezza, anche sessuale, dell’intimità e dell’amore. Mosé aveva sperato di guardare il volto del suo Dio liberatore: Go ’El; solo Gesù lo conosce, sino al punto di possedere tutto quello che è di Dio. È lui che può abolire la distanza invalicabile tra il Dio Infinito e l’uomo finito.
La preghiera di Gesù nella terza strofa è un appello per tutti i deboli, gli oppressi, gli ultimi, i semplici e gli anawim… L’immagine del giogo, usata dalla tradizione giudaica per indicare la Legge e le sue esigenze, viene spogliata da Gesù dal suo aspetto di peso e di imposizione. È una dimensione dolce, ma non meno esigente. Una relazione con Dio, non più regolata dal freddo dovere o dalla paura del giudizio, come spesso abbiamo imparato e vissuto… È un amore filiale, spontaneo, pieno, “la strada bella – dirà Geremia – prendendola si troverà pace per i nostri cuori” (6,16)[4].
La realtà del Regno è ciò che è rivelato agli “in-fanti”, a coloro che non possono ancora parlare, e nascosto agli altri: cioè la conoscenza reciproca tra Padre e Figlio. Non è rivelata ai sapienti e agli intelligenti: sapienti sono coloro che sanno sempre come vanno le cose di quaggiù… intelligenti coloro che le dirigono come vogliono… La sapienza di Dio è quella delle Beatitudini: i sapienti non la capiscono, gli intelligenti se ne difendono; è stupidità e debolezza ai loro occhi.
Gli infanti diventano i protagonisti… dal cuore docile: sono coloro che non sanno parlare le parole colte e sofisticate, leziose e studiate, ma conoscono il linguaggio semplice, trasparente e cristallino… perché Dio non si affaccia alla finestra della nostra mente, ma bussa alla porta del nostro cuore. L’umile di cuore è il népios, l’anawim, il piccolo, il servo, l’ultimo, il bambino stupito che è in noi… L’umiltà, per la cultura greca e per noi non è una virtù, ma semmai una debolezza; per la Bibbia è la qualità fondamentale di Dio: un amore umile.
Ritroviamo la bellezza dolce e riposante del Salmo 131: “Come bambino svezzato in braccio a sua madre, io sono tranquillo e sereno…”. Il piccolo, il semplice pone la sua mano in quella grande e avvolgente di Abbà e si lascia da lui portare e da lui accoglie ogni dono e ogni parola. È il guancia a guancia di Osea 11,1-4. È la sapienza del cuore che ci fa penetrare nelle cose più nascoste e quindi entrare nell’orizzonte di Dio, un orizzonte non cibernetico e virtuale, ma reale! In una cultura che esalta l’adulto grimpeur, arrogante e rampante, privo di scrupoli e di vincoli etici, che porta i bambini ad essere sempre più prepotenti ed egoisti, è la riscoperta dello stupore semplice e grato.
Afferma Bernanos: “L’infanzia può essere riconquistata da tutti, ma solo attraverso la via della santità”. In questo senso ci è vicina la piccola Teresa di Lisieux. “Santa Madre di Dio, conservami un cuore di bambino, puro e trasparente come una sorgente di montagna” (De Grandmaison). E in noi c’è un bambino da accettare, amare e di cui prendersi cura… Sapremo noi farlo?
Perché è trasparente
Ma la trasparenza del cuore è un mito irraggiungibile o un dono? Vivere con “trasparenza” è un valore straordinario che ben si declina con chi persegue la via dell’ascolto. Attenzione però… esiste anche un mito della trasparenza. Lo rileviamo quando ci diciamo: “Amare vuol dire comunicare con gli altri, quindi amerò qualcuno quando la comunicazione sarà perfetta, quando non ci saranno più segreti tra noi due”. Questo ci porterà inevitabilmente a delle frustrazioni profonde.
Vivere il dono della trasparenza significa essere “figli della luce”, perché trasparenza vuol dire essere un cristallo che non crea distorsioni nella percezione degli altri, dell’amico. Trasparenza vuol dire amore di tutto ciò che è verità, sguardo di comprensione e di accettazione di tutta la globalità dell’amica o dell’amico. E invece noi, di solito, cerchiamo il negativo, cerchiamo quello che innesca le micce della critica, della gelosia, dell’invidia sottile, dell’indifferenza, della competitività. Facciamo fatica a valorizzare quei segni di positività che gli altri cercano di compiere, il messaggio di costruttività che ci viene inviato talvolta in maniera sofferta e faticosa. Eppure questa è la vera solidarietà dell’ascolto: capacità di fiducia reciproca e di ottimismo, sincerità profonda perché la verità rinsalda un rapporto e, se lo frantuma, credetelo, non era un vero rapporto[5].
Ho parlato di fiducia nel rapporto di dialogo-ascolto; lasciatemi adoperare un’altra parola, che è insieme sorgente e punto di arrivo di una relazione profonda, una fiducia che diventa fede. Allora vorrei concludere il discorso su questi criteri, che abbiamo cercato di individuare, con una delle più famose poesie di Trilussa, un poeta che nel suo dialetto romanesco sapeva scrivere versi di intensa umanità.
Questa poesia porta il titolo “La vecchietta cieca”:
Quella vecchietta ceca che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: “Se la strada nun la sai
te ci accompagno io, chè la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso
de tanto in tanto te darò una voce
fino là in fonno, dove c’è un cipresso,
fino là in cima, dove c’è la Croce…”.
Io risposi: “Sarà… ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede…”.
La ceca, allora, me pijò la mano
e sospirò: “Cammina”. Era la Fede.
LE VIE DELL’ASCOLTO
La via della interiorità
Rientrare in se stessi è essenziale… non è un optional, è costitutivo per l’uomo stesso. In noi c’è una duplice forza: la forza centripeta che ci porta dentro di noi; la forza centrifuga che ci spinge costantemente fuori da noi stessi, in una costante frenesia da allontanamento e fuga… È proprio questa forza centrifuga che noi privilegiamo… Essa è tipica dell’uomo degli anni ‘90, di quest’epoca post-moderna.
Se ripercorriamo l’analisi fatta dallo psicanalista Silvano Arieti, a partire dagli anni ‘40 del Novecento, ecco che dopo l’ansia, l’alienazione, la rabbia, la depressione, ecco l’homo pavidus, ecco l’homo fugiens[6]. Giona fugge dalla missione a Ninive, perché non entra in se stesso. Elia fugge da Gezabele, in un momento di smarrimento, perché non entra in se stesso. Giuda fugge e compie il suo gesto finale di disperazione, perché non entra in se stesso. Giobbe, Qohélet, Geremia, Osea, Pietro, Paolo, Maria di Magdala non fuggono… perché osano rientrare in se stessi e incontrano il Dio dell’amore, della misericordia, della consolazione.
Occorre recuperare la forza centripeta
Essa ci permette di ricompattare i frammenti della nostra storia, e allora la preghiera può davvero diventare un momento in cui riannodare i fili spezzati della vita…, secondo il racconto di un bellissimo romanzo di Ferdinando Camon, “La donna dei fili”. Ci aiuta a riunificare realtà divise e spesso… nemiche tra di loro.
Bellissimo, a questo proposito il testo di Efesini 2,14-18: “Infatti Cristo è la nostra pace: egli ha fatto diventare un unico popolo i pagani e gli Ebrei; egli ha demolito quel muro che li separava e li rendeva nemici. Infatti, sacrificando se stesso, ha abolito la legge giudaica con tutti i regolamenti e le proibizioni. Così, ha creato un popolo nuovo, e ha portato la pace fra loro; per mezzo della sua morte in croce li ha uniti in un solo corpo, e li ha messi in pace con Dio. Sulla croce, sacrificando se stesso, egli ha distrutto ciò che li separava. Come dice la Bibbia: Egli è venuto ad annunziare il messaggio di pace: pace a voi che eravate lontani e pace a quelli che erano vicini”. Privilegiare la forza centripeta ci permette di amare il senso del “provvisorio” che dovrebbe contraddistinguere la nostra vita, perché non distratti da realtà esterne: è la spoliazione…
Si racconta che un giorno il Rabbi di Varsavia ricevesse la visita di un giornalista occidentale. Questi, entrato nella sua stanza, vide solo un letto, un tavolo, una sedia e una cassapanca con pochi libri sopra. “È veramente spoglia la sua stanza, Rabbi” gli disse il giornalista, veramente sorpreso. Il Rabbi lo guardò con un piccolo sorriso e gli rispose: “Anche lei, per la verità, porta solo poche cose con sé; ha solo una piccola valigia…”. “Eh sì – disse il giornalista – ma io sono qui proprio di passaggio!”. “Anch’io sono solo di passaggio” gli rispose soavemente il Rabbi.
Ci si avvia alla fase adulta della vita e della fede quando si ama, si cerca e si vive l’interiorità. L’interiorità porta al silenzio; il silenzio conduce all’umiltà; l’umiltà porta alla Verità intesa nel senso greco: a-létheia = svelamento. L’esteriorità invece porta al parlare tanto di sé; questo privilegia solo l’apparenza esteriore e spesso l’apparenza è matrice di falsità e menzogna. Com’è indicativa, sotto questo profilo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14)!:
“Poi Gesù raccontò un’altra parabola per alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri. Disse: Una volta c’erano due uomini: uno era fariseo e l’altro era un agente delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri. Io sono diverso anche da quell’agente delle tasse. Io digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno. L’agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me che sono un povero peccatore! Vi assicuro che l’agente delle tasse tornò a casa perdonato; l’altro invece no. Perché, chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato”.
Alcune piste
Vorrei, solo per flash, indicare alcune piste, che sono dei passaggi obbligati per giungere alla interiorità, seguendo alcune suggestioni bibliche.
Dalle parole alla Parola: il prodigio della Parola fa sentire nuove le cose antiche. Is 55,10-11: “La mia parola è come la pioggia e la neve che cadono dal cielo e non tornano indietro senza avere irrigato la terra e senza averla resa fertile. Fanno germogliare il grano, procurano i semi e il cibo. Così è anche della parola che esce dalla mia bocca: non ritorna a me senza produrre effetto, senza realizzare quel che voglio e senza raggiungere lo scopo per il quale l’ho mandata”.
Dal Dio dei miracoli al Dio della Croce: ci aiutano le parole sussurrate dal Centurione sotto la Croce: “Questi è veramente il figlio di Dio” (Mc 15,39). Dalla logica del merito a quella del dono nella gratuità (Lc 18,26-27): “Quelli che lo ascoltavano domandarono a Gesù: Ma allora chi potrà mai salvarsi?. Gesù rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio”.
Dalla propria conversione al Perdono del Padre misericordioso; come dimenticare la fantasia di Dio con il “figlio prodigo” (Lc 15,11 ss.) e con gli operai che ricevono lo stesso salario, pur avendo iniziato il lavoro in ore diverse del giorno? (Mt 20,1-16). Dal lasciare qualcosa al trovare Qualcuno.
È la ricerca della “con-centrazione” su Gesù, espressa dalla parabola della perla in Mt 13,45-46: “Il regno di Dio è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose. Quando ha trovato una perla di grande valore, egli va a vendere tutto quel che ha e compera quella perla”. Dalla chiusura all’apertura: questo passaggio può essere scandito da due parole chiave del Vangelo, che Gesù rivolge ai suoi discepoli: “Seguimi…” (Mc 1,16; 2,13), “Andate…” (Mc 16,15).
Dal progetto personale alla Persona di Gesù: “Come sei diverso, Signore, da come ti avevo incasellato nei mie schemi” (Mt 16,9; Gv 13). Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani… “Ma Gesù se ne accorse e disse: Uomini di poca fede, perché state a discutere che non avete pane? Non capite ancora? Non ricordate i cinque pani distribuiti a cinquemila uomini e le ceste avanzate? Avete dimenticato i sette pani distribuiti ai quattromila uomini e le ceste riempite con gli avanzi raccolti?”.
Una via privilegiata
Ma c’è una via privilegiata all’interiorità: l’amicizia… Potremmo anche dire: l’ascolto della propria guida spirituale. Con le stupende parole di Antoine de Saint-Exupéry possiamo ritradurre questo aspetto così: “È un prenderti teneramente per mano per entrare dolcemente in te stesso”.
La via dei sentimenti
Le emozioni colorano l’esistenza ora di tinte vivaci, ora di tinte cupe… Senza di esse il nostro quotidiano sarebbe piatto, monotono e insignificante. Esse sono i “colori del cuore”… I nostri stati d’animo hanno un forte potere di amplificazione: invadono la vita e occupano la totalità dell’esistenza. Senza emozioni sarebbe un non vivere, ma placarle aiuta a vivere meglio. Nella vita è meglio passare “sentendoci”, che essendo sordi! (V. Buttafava). “Tu che conosci il cuore…” dicono gli apostoli a Gesù dopo la Resurrezione.
I sentimenti hanno sempre una zona di mistero perché hanno a che fare con le sfere più intime della vita. Esse sono presenti anche nei modi di dire: “I feel blue… vedo nero… rosso dalla vergogna… verde dalla rabbia… bianco come uno straccio…”. È importante capire ciò che avviene e che cosa lo fa sorgere, esprimere e manifestare in un certo modo. Il fatto che una emozione sia piacevole o spiacevole dipende da quanto essa apporta o toglie al nostro Io in stima, benessere, sicurezza, felicità, amore…
L’emozione è la nostra immediata reazione ad una realtà valutata come buona o un allontanamento da qualsiasi oggetto considerato come cattivo. Essa si modula attraverso: percezione; valutazione intuitiva legata al piacere o dispiacere; cambi fisiologici; memoria affettiva, nel senso che il passato colora il presente e l’emozione ha una particolare intensità in base al vissuto precedente; immaginazione circa gli effetti futuri: “Te l’avevo detto che se la sarebbe presa con me… vedrai che mi lascerà…”.
Nella vita tutti sperimentiamo degli stati affettivi che non vanno oltre alle sensazioni di benessere o malessere, di piacere o dispiacere. Crescendo divengono sempre più numerosi in quantità ma anche acquistano modalità più differenziate, più intense o pacate: euforia, allegria, gioia, consolazione, pace, collera, ira, aggressività, rabbia contenuta… Le emozioni sono collegate alla immagine che la persona ha di se stessa nella relazione con un altro, e quindi dal modo di concepire l’altro rispetto a se stesso… I “mi piace e non mi piace” di quando eravamo bambini, pian piano si trasformano in vere e proprie emozioni più differenziate, a cui non sempre sappiamo dare un nome… L’altro può essere un pericolo, oppure mi manca, oppure ne percepisco l’affetto e la bontà e queste mi mettono a mio agio. L’emozione spesso non avviene ad un livello conscio e non sempre, pur provandole, riusciamo anche a capirle.
Ma da come le gestiamo dipende una buona parte della nostra felicità. Nel bambino esistono poche emozioni, legate al proprio benessere e alla gratificazione dei bisogni fisiologici: fame, sonno, male… Egli esprime le sue sensazioni in base al piacere o al disagio, attento ad evitare la sofferenza e a prolungare una situazione gradevole. Nella vita c’è chi si autoesclude da ogni forma di piacere e chi ne diventa solamente schiavo…
Alcuni criteri di riferimento
La vita è un valore positivo e la capacità di godere delle cose della vita è un segno di maturità. Occorre distinguere la radice del piacere: diverso è quello che deriva dal cibo, alcool o sesso, piuttosto che da un incontro o da una relazione affettiva. Il piacere è breve e fugace, è un esperienza che fa parte della serie “toccata e fuga”… Il piacere non crea novità, ma instaura meccanismi di rapporto ripetitivo; non si tratta di evitarlo, ma di non trasformarlo come ultimo e unico fine della propria vita. La persona umana è fatta per cercare, per tendere a qualcosa o qualcuno che va oltre se stessa. Ognuno di noi vive anche la dimensione dell’accoglienza, la gioia come dono, come effetto collaterale di un certo modo di vivere la vita[7].
La via della Parola
Dio parla attraverso quello che noi siamo e sentiamo, ma parla soprattutto attraverso i testi biblici. La Parola, per poter parlare, deve trovare chi la ascolta[8].
Vediamo due aspetti.
La Parola va presa per qualcosa che viene “detto”, per il suo contenuto, e non per un “dire”, separata quindi da colui che la enuncia e la propone. Altrimenti diviene un idolo, cessa di essere la parola di un Altro e diviene il prolungamento di noi stessi, dove siamo noi a metterci al posto di Dio e fargli dire le cose che noi vogliamo sentirci dire…
La Parola ha importanza e verità a partire dagli effetti che suscita nella nostra esistenza e nei rapporti con il prossimo. Soltanto a partire da questi effetti possiamo dire che la Parola di Dio ha parlato ed è stata ascoltata…
Quale è il nostro rapporto con la Parola?
Alcuni cristiani ricorrono prontamente alla parola biblica in occasione di un discernimento e in maniera più estesa ogni qualvolta sono alla ricerca di una risposta. Il rischio, tuttavia, è quello di “impadronirci” della Parola di Dio, soprattutto in un momento di interrogativi. Alcuni gruppi e movimenti spirituali, hanno la consuetudine di proporre ai propri fedeli di aprire la Bibbia a caso, così ci si imbatte in un certo testo, in una certa promessa. Così ce ne impadroniamo e vorremo credere che tutto filerà liscio così come quella parola ci ha detto; e invece le cose possono andare in una maniera diversa e allora viviamo la delusione più profonda e siamo scossi nelle nostre certezze di fede. In una tale situazione non è Dio che deve essere interrogato sulla affidabilità della sua Parola, ma siamo anzitutto noi, sul modo in cui ci siamo impadroniti di essa, in cui l’abbiamo fatta parlare e l’abbiamo attirata nel senso dove più ci conveniva. L’abbiamo sottomessa alla nostra volontà e ai nostri desideri e poi le rimproveriamo di averci fuorviati…
Ci sono delle persone, anche nel discernimento, che ricorrono alla Parola di Dio, come molti oggi ricorrono all’oroscopo per leggervi un avvenire e un esito felice. Per un realistico accesso al reale occorre rinunciare al nostro immaginario, alla nostra maniera di chiuderci e di rinchiudere gli altri, e la Parola di Dio stessa, nelle idee e negli schemi che già ci siamo prefigurati, a quei giochi di immagini che vengono prese per certezze e verità. Di questi giochi di immagini possiamo prendere coscienza solo nel momento in cui vacillano…
La Parola non è un oroscopo né un oracolo che annuncia le cose belle che noi ci aspettiamo. È fondamentalmente una Persona, prima di essere un detto, è un dire, è Colui che parla. Noi possiamo aderire al contenuto della Parola in una maniera che la dissocia da colui che la enuncia; e allora il contenuto può prendere qualsiasi senso, diventa area di proiezioni in cui ascoltiamo soltanto quello che vogliamo udire o abbiamo paura di udire, in cui ascoltiamo noi stessi e non più un altro. Qui si vede più che mai l’importanza della Guida Spirituale che media il contenuto della Parola. La presenza di una Guida Spirituale può aiutare un giovane o una persona a trovare Dio, presente nell’intimo della sua angoscia e della sua faticosa e sofferta ricerca, nel profondo di ciò che noi viviamo e non nel suo annullamento. Il miracolo non è che Dio trasformi la nostra realtà, ma che venga a dimorarvi: tutto il resto è dato in sovrappiù…
“Anche se camminassi in una valle oscura, non temerei alcun male, poiché tu sei con me” (Sal 23,4). Il primo discernimento “ascoltando la Parola”, è il riconoscere questa presenza di Dio nella situazione attuale, così come essa è… La Parola non può essere dissociata né da colui che la enuncia né da colui che la ascolta, perché non potrebbe raggiungerlo nella singolarità di ciò che egli vive. E sarebbe una lettera morta e mortifera!
Che cosa richiede allora l’ascolto della Parola?
Certamente una disposizione interiore focalizzata su Dio, in modo che la Parola udita ritorni e rimandi alla sua sorgente. Quando si vuole applicare troppo presto la Parola a se stessi (“che cosa mi dice?”), si disconosce la Parola vivente capace di lavorare in noi al di là di ciò che noi percepiamo di essa o di quello che comprendiamo lì per lì. Ricordiamo che la Parola è un seme gettato per terra: la produzione di frutti e di effetti troppo rapidi è segno di una terra poco profonda, in cui il lavoro di maturazione non è avvenuto silenziosamente e lentamente. Così, nella lettura dei testi sacri, l’attribuirci troppo in fretta la Parola udita, fosse anche una bella promessa che ci dona armonia e serenità…, ci priva di una ricchezza più grande, che è la ricerca e l’incontro del Dio che parla in questo modo. È lui che lavora nel profondo di noi stessi.
La Parola ascoltata
Sappiamo, dalla parabola del seminatore, che la Parola di Dio può restare senza nessun effetto su persone che la odono, ma non hanno una sufficiente interiorità per accoglierla. L’effetto della Parola – dabàr, che opera quello che dice, dipende dalla Parola stessa, ma anche da colui che la riceve. Dio accetta questa sfida: mette a rischio la sua parola, la espone al pericolo che essa si perda. La Parola non ha niente di una parola magica che si pretende produca effetti per il semplice fatto che viene enunciata. Ho conosciuto persone che mettevano sotto il guanciale la Bibbia, o il Padre nostro o la preghiera a qualche santo (anche s. Antonio…), sicure che così il Signore le avrebbe protette ed esaudite. Essa resta sempre una parola rivolta all’uomo, che non ci esonera dalla nostra responsabilità di ascolto, cioè dalla fatica del rispondere… È questo il senso di Maria che conserva e medita nel suo cuore momenti, fatti e avvenimenti per poter sempre meglio rispondere al suo Signore nel fluire della vita del figlio, e rendere attuale il suo Fiat.
Gli effetti della Parola possono essere talvolta individuabili e visibili, ma molto spesso si nascondono nelle pieghe carsiche della nostra vita e rifluiscono all’aperto magari dopo molto tempo. Qui occorre stare molto attenti: ci sono dei movimenti dove gli altri ascoltano la Parola e dicono che essa ha questo o quel significato per una persona a cui loro hanno pensato: magari, addirittura, individuando in lei i segni di una chiamata vocazionale. E così succede che la Parola ricevuta dagli altri per l’interessato, questi si sforzi di farla propria e riceverla anche lui stesso con una operazione illusoria e volontaristica.
Molte volte gli effetti più profondi della Parola non sono quelli che producono delle scelte o delle decisioni immediate, anche vocazionali, ma quelli che portano ad una riconciliazione interiore, alla riconquista della propria identità perduta, al riannodare i propri fili spezzati, mediante il riconoscimento dei sentimenti veri che operano in noi. Solo valutando le sue ferite e le reazioni che esse suscitano in noi, la persona può cominciare il suo itinerario di liberazione. C’è un faraone che ci tiene schiavi all’interno di ogni cuore umano… e la Parola può liberarci da lui aiutando a prendere coscienza della sua presenza e di come agisce in noi. Cristo, nella Pasqua, attraversa la morte, ogni morte dell’uomo, e ci introduce nel campo di una vita nuova e riconciliata, amante e amata, benedicente e benedetta. Ma per vivere questo passaggio, bisogna saper “localizzare” i luoghi della nostra esistenza dove operano la morte, il conflitto, la tensione…
È importante allora non valutare gli effetti della parola solo in chiave “mozionale” (decido di…) o “emozionale” (mi piace fare questo o quello). Sempre la parabola del seminatore è istruttiva: gli effetti di una gioia immediata ed emozionale potrebbero non essere sufficienti (Mt 13,20). La gioia, la speranza, la dolcezza sono ottime cose, ma quale può essere il loro senso vitale se esse si riducono solo ad assicurare la nostra comodità e il nostro esclusivo benessere umano e spirituale? Tutt’altra cosa si può dire della gioia che si ripercuote sul rapporto con gli altri: una gioia che è la tonalità del servizio e dell’apertura all’altro[9].
Vorrei indicare questa via che porta all’Ascolto della Parola, sulla quale tra poco ritorneremo in maniera anche più intensa, con le parole di una monaca di Clausura, che ha fatto dell’ascolto il filo conduttore della sua vita:
“Ascolta Israele. Il senso della Parola che si fa preghiera è fondamentalmente questo, cioè l’ascolto, l’attenzione a ciò che Egli dice di Sé, del Suo permanere e del Suo operare e del tuo essere in Lui e per Lui. Ascolta. Certamente, mentre ascolti perdi il ‘gregge’ come l’Amata del Cantico. Resti ‘spaesata’ solo perché trovi l’ubicazione esatta della dimora dove Lui ti accoglie. Ascolta: tu entri già nel Suo riposo. Tu pregusti il definitivo. Ti abbeveri alla fonte che zampilla per la vita eterna. Eppure tu sei qui. Intorno a te non c’è un punto di appoggio, un riferimento qualsiasi di orientamento, un rifugio nella lotta, un sollievo nell’arsura. Nulla è cambiato. Hai incontrato Dio? Ma è proprio vero? ‘E dov’è il tuo Dio?’. Guardati attorno. Qui non scorre latte e miele. Qui non ci sono ‘città dove abitare’. Tutto è ancora deserto. Tutto è ancora asprezza, arsura, fatica e affanno.
Ascolta, lascia risuonare nel più profondo del tuo cuore la voce che ti ha chiamata, allora, all’inizio. La voce che sul monte ha solennemente pronunziato per te il Suo Nome e la Sua Volontà. Quella Voce ha forse già perso il Suo timbro e ti pare si sia persa nel turbine di vento e sabbia che ha stravolto intorno a te l’aspetto del paesaggio, il profilo delle cose, senza togliere tuttavia nulla all’aridità del suolo, alla secchezza dell’aria, alla solitudine del tuo cuore. Ascolta. Aggrappati con tenacia alla consapevolezza di quell’incontro con la Sua Parola, anche se il dubbio di un ricordo che si sbriciola contro l’evidenza di una realtà tanto diversa, crea in te ondate di nostalgie e di aneliti. Ascolta. Ascolta e abbandonati… L’avvenimento più grande in assoluto di tutta la multimillenaria storia dell’intero universo, dei milioni di mondi, delle immense galassie è avvenuto fra le pareti di una stanzuccia dove la piccola Maria di Nazareth ha abbandonato la sua esistenza nelle mani del suo Signore. ‘Come avverrà questo?’, ‘Non temere, Maria’, ‘Si faccia di me come hai detto’. Nessun dramma, nessun chiasso. L’abbandono più semplice, più umile, più intero.
E il silenzio custodisce e protegge il ‘Si faccia’, il ‘Fiat’ che accende la luce della nuova creazione, come nell’arcana sinfonia del silenzio trinitario si erano accesi i luminari sulla informe massa della materia posta in essere dal ‘Fiat’ creatore e come nel silenzio di una notte senza tempo, la Sapienza del Verbo si era lanciata, in un gesto di obbedienza, fuori dal seno dell’Eterno, verso l’incredibile avventura dell’Incarnazione. Di fronte alle grosse esigenze di una vocazione che ti si manifesta, non hai altro atteggiamento da assumere che uno stupore fatto di semplicità e di umiltà: abbandonandoti con dolcezza nelle Sue mani, acconsentendo con pienezza alla Sua iniziativa, trovi subito la serena gioia che proviene dall’essere nel posto giusto. Il silenzio che avvolge questa aurora di una tua pasqua, ha tutta la pregnanza delle cose divine…”[10].
CHIAMATI ALL’ASCOLTO E ALLA TRASFORMAZIONE
NEL SEGNO DELLA PAROLA
Amos 8,11.13: “Verranno giorni, – dice Dio, il Signore, – in cui io manderò la carestia in questa regione. Non di pane avranno fame, non di acqua avranno sete, ma di ascoltare la parola del Signore. Ovunque cercheranno con ansia la parola di Dio, da nord a sud e da ovest a est. Ma non la troveranno. In quel giorno, anche ragazzi e ragazze in ottima salute verranno meno per la sete”.
Sappiamo che la radice etimologica di “parola” è “parabolè”, una parola greca che significa “similitudine”, e quindi qualcosa che assomiglia… quasi a dirci che la parola umana in se stessa è sempre imperfetta e ha bisogno di tante mediazioni per raggiungere il nucleo della verità che essa vuol comunicare. La stessa Parola di Dio, come abbiamo visto, ha bisogno di mediazioni e non è casuale che Gesù parlasse spesso proprio con il linguaggio figurato e mediato della parabole.
Essa significa anche “discorso”, che è un insieme di parole, ma proprio per questo potrebbe creare la confusione di un significato preciso e mirato, dietro una cortina fumogena di tante parole. E credo che la proposta massmediatica ce ne dia costantemente una miriade di esempi…
Vorrei riportare due citazioni che mi sembrano significative per esplorare il senso della parola. Pr 18,20: “Ciascuno raccoglie i frutti delle sue parole, ognuno si sazia del frutto dei suoi discorsi: come dire che morte e vita sono in potere della lingua…”. Altrettanto forte l’affermazione di Qo 10,14: “Lo stolto dice molte parole, ma nessuno conosce l’avvenire. Chi può dire che cosa capiterà in futuro?”. L’insensato moltiplica le sue parole, quasi in un delirio di onnipotenza, ma molte volte questo multiloquio diventa una triste e tragico soliloquio…
Diceva Gabriel Marcel che la parola si può esprimere in un monologo (molti si parlano addosso); si può esprimere in un dialogo (è questo è veramente il miracolo di una reciprocità consegnata e ricevuta); oppure si esprime in un trilogo, dove non sono tre persone a parlare, ma due che parlano fra di loro e una delle due ha più potere dell’altra, ha sempre ragione: la sua parola è ultimativa e definitiva. Anche questa situazione si ripete spesso sia a livello comunitario che di coppia… Ma forse ci è utile qui ricordare un aspetto che diviene fondamentale nell’uso della Parola nel dialogo spirituale, soprattutto quando questa Parola deve essere accolta e ad essa ci si consegna.
La Parola è il dono dello Spirito durante la Pentecoste
At 2,4: “Tutti furono riempiti di Spirito Santo e si misero a parlare in altre lingue, come lo Spirito Santo concedeva loro di esprimersi”. Essa si manifesta con una forte carica di novità, nella casa del centurione Cornelio (At 10,44-47): “Mentre Pietro stava ancora parlando, lo Spirito Santo venne su tutti quelli che lo ascoltavano. I credenti di origine ebraica che erano venuti con Pietro rimasero molto meravigliati per il fatto che il dono dello Spirito Santo veniva dato anche ai pagani. Inoltre li sentivano parlare in altre lingue e lodare Dio. Allora Pietro disse: Come si può ancora impedire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi?”.
Paolo, imponendo le mani sui discepoli giovanniti di Efeso, li aiuta ad avere il dono dello Spirito per capire in profondità la parola di Gesù (At 19,4-6): “Allora Paolo spiegò loro: Quello di Giovanni era un battesimo per quelli che accettavano di cambiar vita; egli invitava la gente a credere in colui che doveva venire dopo di lui, cioè in Gesù. Dopo questa spiegazione i discepoli di Efeso si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù. Quindi Paolo stese le mani su loro, ed essi ricevettero lo Spirito Santo. Cominciarono a parlare in altre lingue e a profetizzare”.
La Parola fa crescere
Essa fa crescere il bambino che è in noi: questa è una legge veramente fisiologica ed educativa, perché il bambino apprende molto per imitazione e soprattutto attraverso le indicazioni della parola stessa, da parte delle persone che per lui sono significative. Gli Atti degli Apostoli possono aiutarci a trovare alcuni interessanti testi di… crescita, proprio attraverso la forza della Parola.
At 6,7: “Intanto la parola di Dio si diffondeva sempre di più. A Gerusalemme il numero dei discepoli cresceva notevolmente, e anche molti sacerdoti prestavano ascolto alla predicazione degli apostoli e credevano”.
At 12,24: “La parola di Dio si diffondeva sempre di più e il numero dei credenti cresceva”.
At 19,20: “Così la parola del Signore si diffondeva e si rafforzava sempre più”.
L’agente fondamentale della crescita resta sempre la Parola di Dio e non noi stessi. Per questo occorre sempre ricordare che l’animazione vocazionale e anche l’accompagnamento stesso rientrano nella dinamica
dei “servi inutili” del Vangelo. Fondamentalmente la Pastorale Vocazionale è un problema di relazione con la Parola e con Gesù e non tanto di organizzazione e di efficienza, come una certa pastorale tenderebbe a far credere… L’esempio più evidente è lo scacco matto che riceve Paolo, pur con il suo straordinario discorso all’Areopago di Atene.
La Parola fa tornare alle sorgenti vere della Vita
…come il testo di Amos ci suggerisce. Essa è in grado di fare verità in noi e di restituirci al nucleo più profondo e più intimo del nostro io. Essa ci permette di rifare memoria del nostro vissuto e di trovare in esso quali sono stati i momenti di vera creatività. Nel contatto con la Parola noi possiamo trovare veramente la pace e la guarigione che il nostro cuore, spesso ammalato, stanco e dubbioso, va cercando. È il recupero di quelle parole che sono “care” a ciascuno di noi e che diventano canzone, poesia ed orazione vera per la nostra esistenza.
La Parola è uno sguardo penetrante sul presente e un’avventura e una sfida per il futuro
Mi pare che la parabola che meglio riesce a rendere questo aspetto sia quello del granello di senape (Mc 4,30-32): “E Gesù diceva: A che cosa somiglia il regno di Dio? Con quale parabola ne parleremo? Esso è simile a un granello di senape che, quando viene seminato nella terra, è il più piccolo di tutti i semi. Ma poi, quando è stato seminato, cresce e diventa il più grande di tutte le piante dell’orto. E mette dei rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Un seme che cresce e diviene grande come un albero… È questa la realtà dell’accompagnamento vocazionale? Questo seme diviene il segno, nel chiamato, ma anche nella guida spirituale, della propria infinitesimale piccolezza, dello scoraggiamento, della fatica di crescere nella vita, del cambiamento e dei rischi che esso comporta da accettare, della fertilità e fecondità, del servizio, del consegnare la propria vita ad un Dio che la custodisce con estrema tenerezza.
È un invito ad affrontare l’avventura della vita insieme con Gesù. Ecco allora Pietro incontrato da Gesù (Gv 1,40-2): “Uno dei due che udirono Giovanni e andarono con Gesù si chiamava Andrea. Era il fratello di Simon Pietro. La prima persona che Andrea incontrò fu appunto suo fratello Simone. Gli dice: Abbiamo trovato il Messia (Messia o Cristo vuol dire: Salvatore inviato da Dio). Andrea acompagnò Simone da Gesù. Appena Gesù lo vide gli disse: Tu sei Simone, il figlio di Giovanni. Ora il tuo nome sarà Cefa (in ebraico Cefa è lo stesso che Pietro, e vuol dire: Pietra)”.
È l’invito a diventare “pescatori di uomini” (Mt 4,18-22). È la chiarata di Levi Matteo, dal suo banco delle imposte, quando forse egli stava aspettando veramente qualcosa che cambiasse la sua vita. (Mt 9,9): “Passando per la via, Gesù vide un uomo, un certo Matteo, il quale stava seduto dietro il banco dove si pagavano le tasse. Gesù disse: Vieni con me! e quello si alzò e cominciò a seguirlo. Più tardi, Gesù si trovava in casa di Matteo a mangiare. Erano venuti anche certi agenti delle tasse e altre persone di cattiva reputazione e si erano messi a tavola insieme con Gesù e i suoi discepoli. Vedendo questo fatto, i farisei dicevano ai suoi discepoli: Perché il vostro maestro mangia con quelli delle tasse e con gente di cattiva reputazione? Gesù sentì e rispose: Le persone sane non hanno bisogno del medico; ne hanno bisogno invece i malati”.
È la storia di Maria di Nazareth, che riceve l’annuncio del suo destino e di una avventura possibile solo a Dio… (Lc 1,26-38). Ma vedo anche Maria di Magdala che viene incaricata di vivere una missione di annuncio (Gv 20,11-18): “Maria era rimasta a piangere vicino alla tomba. A un tratto, chinandosi verso il sepolcro, vide due angeli vestiti di bianco. Stavano seduti dove prima c’era il corpo di Gesù, uno dalla parte della testa e uno dalla parte dei piedi. Gli angeli le dissero: Donna, perché piangi? Maria rispose: Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno messo. Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui. Gesù le disse: Perché piangi? Chi cerchi? Maria pensò che era il giardiniere e gli disse: Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: Maria!. Lei subito si voltò e gli disse: Rabbunì! (che in ebraico vuoi dire: Maestro!). Gesù le disse: Lasciami, perché io non sono ancora tornato al Padre. Va’ e di’ ai miei fratelli che io torno al Padre mio e vostro, al Dio mio e vostro. Allora Maria di Màgdala andò dai discepoli e disse: Ho visto il Signore!. Poi riferì tutto quel che Gesù le aveva detto”.
È una Parola capace di partire dall’ora presente che io vivo, come la preghiera del vecchio Simeone; una Parola che si fa preghiera raccogliendo la mia situazione qui e adesso… Sento questa Voce … non so bene a cosa mi chiama, qui ci vuole ascolto, molto ascolto… l’importante è che io riconosca questa voce e le dia la mia risposta.
LE RESISTENZE ALL’ASCOLTO[11]
L’ostacolo ben visibile del “tutto e subito”
Tra gli ostacoli dell’ascolto da parte del chiamato, mi sembra che il più evidente potrebbe essere quello che potremmo chiamare la rinuncia allo stile del “tutto e subito”! Questo modo di vivere, anche se non porta necessariamente a conseguenze gravi, produce l’incapacità pratica a prendere sul serio ciò che non è immediatamente attraente, che non arreca piacere e magari richiede anche fatica. Forse la maggior parte dei giovani, che vorrebbero cercare davvero il senso della propria vita, non superano la fatica della partenza, perché trattenuti da questa atmosfera di dissipazione e superficialità, intesa come ricerca di un immediato edonismo o piacere sensibile.
A questo primo ostacolo se ne aggiunge un altro, che può sembrare umiltà, (ma non è così!): è la sensazione che Dio non sa che farsene di me, e quindi questa parola che ascolto, non mi riguarda o mi tocca poco da vicino; io mi sforzo di cercare, ma non trovo una parola fatta veramente per me. Magari non lo si confessa direttamente, tuttavia si vive una certa rassegnazione, frutto di sfiducia, che è pericolosa, perché impedisce di fare sul serio.
L’ostacolo più sottile della paura del cammino
Un ulteriore ostacolo che nasce nella dinamica dell’ascolto è paura inconscia che questo cammino di ricerca vocazionale mi richieda troppo sforzo; magari il Signore mi fa giungere degli appelli di cui io ho paura, delle richieste di Dio che io vorrei esorcizzare. E se mi chiedesse di fare la scelta di … Con un tale sentimento di fondo, che non voglio guardare in faccia, non si può cominciare mai seriamente.
Un altro ostacolo che si frappone per vivere con pienezza l’ascolto, è di natura psicologica o psicofisica; non avendo il coraggio di guardare in faccia e di accettare un mio difetto o handicap personale, psicologico o fisico che sia, resto sempre nell’indecisione. Andando a fondo, dovrei prendere di petto quel difetto, quella incapacità, ma non sapendo come affrontarla, finisco con il non varcare mai la linea di partenza. Per alcuni, poi, l’ostacolo più sottile nella via dell’ascolto potrebbe essere di natura teologica: “Come posso impegnarmi per il Signore dal momento che, guardandomi bene, ho talora dei dubbi sulla fede e non sono forse nemmeno certo dell’esistenza di Dio?”.
È certamente una difficoltà reale, e può paralizzare il primo passo, quello della partenza. In realtà, Dio lo si conosce solo quando… lo si ama, perché Dio è Amore; lo si conosce solo quando ci si muove verso di Lui, perché Dio è un infinito abbraccio di Accoglienza; lo si conosce solo quando comincio a dedicarmi a Lui, a donarmi, perché tutto in Dio è Dono. Avendo però paura di questi primi passi, rimango sempre al di fuori dell’ascolto e del cammino di ricerca.
Resistenze quasi impercettibili, ma determinanti, nel vivere l’Ascolto
Detta in parole semplici, potrebbe identificarsi con la paura di agire per dei motivi diversi dagli ideali di Amore, dono e servizio a cui vorrei ispirare la mia vita. Per esempio io posso rintracciare in me stesso/a la paura della responsabilità, l’indifferenza nei confronti del mondo e della società; e ancora, complessi non superati dall’infanzia, o traumi non assorbiti nella sfera della sessualità; soprattutto potrei provare angoscia davanti alla vita e alle responsabilità che essa comporta. Tali motivazioni, soprattutto il senso di inferiorità e sfiducia che minano alla radice l’identità di tanti giovani, prima di aver ottenuto la prova del proprio valore e una corretta autostima di se stessi, possono entrare in gioco per ognuno che sente la sua vita come… chiamata, possono perfino farci sminuire la forza della dimensione soprannaturale e della grazia presente in ogni Vocazione.
Il Signore risponde a s. Paolo, che lo invoca accoratamente per essere liberato da una difficoltà che non riusciamo a identificare, ma che evidentemente lo faceva soffrire molto, nel suo servizio verso di Lui e nella sua missione: “Paolo, ti basta la mia Grazia” (2 Cor 12,9). In colui che è in discernimento della sua chiamata, può esserci la paura che la sua scelta vocazionale sia dovuta, in fondo in fondo, ad una fuga da problemi non risolti; e questo porta a ritenere che solo dopo aver risolto tutti i problemi… si potrà rispondere al Signore.
Questo è un errore enorme, oltre che una pretesa un po’ onnipotente: “Prima risolvo i problemi, poi Signore, farò qualcosa anche per Te…”. A parte il fatto che alcuni problemi potremmo portarceli con noi per tutta la vita, e quindi più che risolverli si tratta di imparare a convivere con essi… ciò significa anche rimandare ad un tempo indeterminato il discernimento, rimanendo in una specie di limbo di attesa, che ben difficilmente scomparirà. È chiaro che alcuni problemi molto gravi, come la presenza costante di un peccato grave, dovranno essere risolti prima di entrare nella fase del discernimento.
Però vi sono molte inibizioni e paure, molti complessi e difficoltà, che tutti portiamo con noi, (mentre uno pensa di esserne solo lui il portatore!), ed essi non impediscono di varcare il limite di partenza. Adagio adagio, davanti a Dio, è importante imparare umilmente ad accettarci, a lasciarci sciogliere dalla Parola (la lectio divina è efficacissima contro questi grovigli interiori!), a fidarci di quel cammino da affrontare coraggiosamente, perché è questo il sentiero che porta alla vetta del discernimento.
Vorrei proporvi, a questo proposito, una semplice parabola:
“Un uomo che andava molto fiero del suo prato all’inglese, si trovò ad avere una grande quantità di soffioni. Provò ogni metodo a lui noto per sbarazzarsene, ma continuavano ad essere presenti nel prato. Alla fine scrisse al ministero dell’agricoltura. Enumerò tutti i tentativi fatti e concluse la sua lettera chiedendo: Cosa faccio ora?. A tempo debito giunse la risposta: Le consigliamo di imparare… ad amarli”.
L’ostacolo della preoccupazione
Anziché definirla con termini astratti, ci riferiamo a due pagine della Scrittura in cui ricorre la parola “preoccupazione” (in greco “mérimnai”). In Luca 10,41 troviamo la parola “preoccupazione”, a cui però si aggiunge il vocabolo “affanno”. L’episodio è quello di Marta e Maria, là dove Gesù rimprovera Marta dicendo: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti affanni per molte cose”. L’ostacolo è dunque il preoccuparsi, l’affannarsi, l’essere travolti dalle cose da fare. Chi ne è “fuori”, alzi la mano!
La preoccupazione è una delle cause più generali della nostra incapacità a conoscere e ascoltare la Parola: la preoccupazione per “mille cose da fare”, dal treno o dall’autobus che non bisogna perdere, al riuscire a fare bella figura, alle persone che dobbiamo incontrare, alla lezione che dobbiamo imparare, alle risposte che dobbiamo prevedere, e via dicendo. Di tutti questi affanni si riempie la nostra esistenza.
Non a caso san Paolo, parlando della libertà del cuore, (è appunto nella libertà del cuore che si può conoscere la volontà di Dio), suggerisce: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! Io vorrei sapervi liberi da preoccupazioni” (1Cor 7, 29-32).
Ci sarebbe da meditare molto su queste parole, non facili da comprendere; in fondo, quando uno compra è impegnato a non fare un cattivo affare e ogni cosa richiede una certa attenzione. Tuttavia, ciò che Paolo vuole stigmatizzare, è quella continua preoccupazione che non ci permette mai di avere un momento per essere noi stessi; e anche quando lo troviamo… è un’oasi, mentre il resto è un deserto. Invece, dobbiamo giungere a trasformare tutto il deserto in oasi. Tutto dovrebbe essere vissuto in profonda serenità, in unione con Dio, nella pace; la ricerca di Dio non deve limitarsi a qualche minuto, bensì deve essere estesa alla intera esistenza.
Il “disordine” nella vita
Emerge un altro grosso ostacolo: il disordine del vivere. Disordine del vivere, significa la quotidianità della vita che diviene fonte di ansia. Avviene quando la mente e il cuore sono avvolti da inquietudini, fantasie, previsioni cariche di apprensione oppure di esaltazione, per cui ci proiettiamo sul futuro senza vivere il presente. È importante che chi vive l’ascolto possa mettere bene a fuoco il disordine della vita che si porta dentro e gli impedisce di vivere serenamente la vita e di progettare serenamente il futuro. Tale disordine spesso è inconscio; molta gente, pur essendone continuamente vittima, non pensa alla necessità di controllare la fantasia o il proprio modo di pensare.
Di fatto, la salvezza nostra consiste, per esempio, nel dover scendere alla prossima fermata dell’autobus, nel dover stare attenti al semaforo, nel dover rispondere al cellulare; allora la mente si riordina un poco perché quelle azioni, una dopo l’altra, ci tengono occupati. Il disordine diventa conscio quando vogliamo pregare sul serio, o vogliamo stare in silenzio, da soli. Per questo la grandissima maggioranza della gente ha paura della solitudine e non sa come passare un quarto d’ora in preghiera.
Quando bisogna tenere la propria mente in ordine, si viene presi dall’ansia, dall’angoscia, perché non abbiamo l’abitudine a controllarci. Il disordine della vita è uno dei più grandi ostacoli all’ascolto e al discernimento vocazionale, proprio perché non si riesce mai a concentrarsi su pensieri seri. Potremmo anche dire che il “nemico” procura continuamente di alimentare in noi una vertigine di pensieri confusi, anche se non sono tentazioni gravi o peccati; gli preme di più l’oscillazione degli umori, la vertigine dei pensieri, che non un vero peccato, una vera resistenza a Dio, che magari ci metterebbe sul chi va là. Accorgerci del nostro disordine del vivere è un grande passo avanti.
Alcuni suggerimenti per il controllo del pensiero e del cuore
A partire da quanto abbiamo sin qui detto, proviamo a proporre qualche rimedio per camminare verso il controllo della mente e del cuore, di cui parlano tutti i grandi padri e le grandi madri della vita spirituale. Questo controllo della mente e del cuore viene espresso anche con altri termini: libertà del cuore, pace interiore, dominio di sé, controllo delle emozioni, serenità, comunione profonda con Gesù, imitazione del silenzio di Maria. È un’arte difficile e importante. Una persona non si può dire matura fino a quando non ha imparato una misura sufficiente di controllo della mente e del cuore, ossia delle emozioni, fantasie, previsioni, sentimenti, turbamenti, ansie, angosce, entusiasmi, anticipazioni del futuro.
Quanto ai rimedi, anzitutto bisogna convincersi di non avere il controllo della mente e del cuore, e di averne bisogno. Quindi chiederlo, invocarlo, implorarlo: “Metti, Signore, una custodia alle mie labbra. Signore, custodisci le mie orecchie, i miei occhi, la mia fantasia, il mio cuore, perché io possa cercarti nella pace”. La preghiera che nasce dalla convinzione di questo bisogno è il primo gradino.
Poi, è molto importante il controllo dei sensi. Che cosa leggo, che cosa vedo, che cosa guardo, che cosa dico? Butto fuori tutti i miei sentimenti appena emergono, senza dominarli? Oppure (anche questa è una forma di non controllo) li ricaccio dentro soffocandoli, reprimendoli, e così mi turbinano dentro in forme di ansietà, paure, inquietudini, rivalità, invidie?
Ma il mezzo fondamentale che Dio ci mette tra le mani, per arrivare a un controllo serio, non artificiale, a un controllo naturale, spontaneo, semplice è il vivere l’attimo presente. Non nel senso di spremerlo, come se poi non ci fosse più nulla, bensì per gustarlo, perché è qui, dentro a quest’ora presente, che Dio mi ama e che io lo amo. Ricordate la preghiera del vecchio Simeone: “Ora, lascia o Signore, che il tuo servo vada in pace…”. Ora, qui e adesso!
Concentrarsi dunque sul servizio di Dio, ora! Dio vuole da me quello che ora sto facendo e mi dà la grazia per questo momento. Vivere quindi giorno per giorno la missione, la grazia, la luce, il sacrificio, la rinuncia del momento. Questo semplicissimo strumento è veramente risolutivo delle angosce, e anche di tutte le preoccupazioni inutili: affidarsi a Dio nel presente, concentrandosi su ciò che stiamo facendo, vivendolo nella certezza che Dio è qui, mi ama, e che stasera, domani, dopodomani, mi darà le grazie necessarie, e che se c’è da prevedere qualcosa oggi per domani, allora ho la grazia di prevederlo (non di anticiparlo), con umiltà e calma.
Il chiamato che vive il cammino del proprio discernimento e ha la grazia di essere di fronte a scelte qualificanti della vita, ha il dovere di verificarsi e crescere nella capacità di vivere con gioia il momento presente, per coglierne la ricchezza ed arrivare, poco a poco, ad un certo dominio della mente e del cuore, cosicché possiamo offrire noi stessi come un sacrificio gradito a Dio[12].
Ma quali sono le condizioni dell’ascolto?
Queste indicazioni sono importanti sia per chi ascolta che per chi vive il ministero dell’accompagnamento spirituale. Ogni realtà di ascolto autentico, l’abbiamo già anticipato, nasce nel clima del silenzio. È il tempo della teshuvàh, del rientrare in se stessi… Infatti, ogni parlare umano è dire qualcosa a qualcuno: qualcosa che deve anzitutto nascere dentro di noi stessi. Ogni vera comunicazione esige spazi di silenzio e di raccoglimento.
L’ascolto ha bisogno di tempo. Non si può comunicare tutto d’un colpo, in fretta e senza grazia. È importante prendersi il tempo necessario, anche perché alcune realtà sia nell’accoglimento che nella proposta, debbono avere il loro giusto tempo di maturazione. Non bisogna spaventarsi dei momenti di ombra. Luci e ombre sono vicende normali della comunicazione. In alcuni momenti tutto sembra chiaro, in altri frangenti, le stesse chiarezze sono adombrate da frammentazione, confusione e dubbio, non si sa da dove partire, non si sa come dire…
La trasparenza raggiungibile, in questa vita, non è mai assoluta. È una meta che ci mettiamo, come l’abbiamo messa noi stessi all’inizio di questo nostro itinerario. Ma essa è un punto di arrivo, più che un punto di partenza. Pudore, riserbo, rispetto sono garanti dell’ascolto vero e della disponibilità all’accoglienza di quanto ci viene consegnato. Tutto dipende da come viene vissuta la comunicazione, in quanto essa deve sempre garantire una assoluta riservatezza e confidenzialità.
La comunicazione coinvolge sempre in qualche modo la persona che comunica, come anche chi ascolta quanto gli viene detto. Questo coinvolgimento può avvenire in maniera graduale, perché c’è sempre da fare i conti con quella nostra indifferenza e con il nostro cinismo che creano in noi un “muro di gomma”, come direbbe J. Vanier, su cui molti eventi della vita vanno a sbattere e rimbalzano via… Prima di essere preoccupati di che cosa o come rispondere a quanto si è ascoltato (vale per la guida e per colui che fa il cammino del discernimento!), è essenziale mettersi in ascolto vero, autentico, profondo, docile e semplice, rendendosi sensibili anche alle sfumature più piccole, per cogliere le ricchezze, o eventualmente i blocchi, della comunicazione.
L’autentico comunicare comprende sempre l’intenzione di suscitare una risposta in chi ascolta, e quindi diviene un atto di reciprocità. Occorre mettersi sulla stessa lunghezza d’onda, sia per i modi che per i temi della comunicazione. Essenziale, dunque, non è solo il dire, ma in pari misura, lo è anche l’ascoltare con attenzione e partecipazione, sapendo che questo avvia un processo di cambiamento in entrambi i protagonisti del dialogo spirituale.
L’ascolto si esplica anche in alcuni atteggiamenti relazionali
Atteggiamento di stima
Il punto di partenza, necessario come si è visto, è la considerazione positiva e l’accettazione incondizionata dell’altro. È il dono della stima, per cui si possono criticare e non accettare certi comportamenti, ma rimane sempre la stima e la fiducia nell’altro, per quello che è prima ancora di quello che fa o dice.
Atteggiamento di responsabil1ità
Comunicazione responsabile significa comunicazione coerente, trasparente, tutta tesa nelle sue componenti (verbali, gestuali, sensoriali e metasensoriali) a tradurre ed esprimere la verità e la positività dell’essere umano. Richiede la capacità di essere autentici, lasciando cadere le maschere e i ruoli dietro cui siamo tentati di nasconderci.
Atteggiamento di simpatia
L’atteggiamento di simpatia è tipico di chi, prima di tutto, considera l’altro degno di essere ascoltato e preso in considerazione; e proprio ascoltando con attenzione e serietà, entra un po’ alla volta nel suo mondo interiore e nel suo modo di vedere le cose, scopre i suoi schemi mentali e il suo modo di impostare il ragionamento. Diventa empatia quando si riesce a “mettersi al posto dell’altro”, nei suoi panni, per sentire i suoi sentimenti “come se” fossero nostri, per pensare “come se” il suo modo di pensare fosse il nostro. Ciò richiede la capacità di decentrarsi, di fare silenzio interiore: il silenzio dal proprio punto di vista, dalla preoccupazione di sé, dalle distrazioni della mente, dalle paure del cuore di coinvolgersi e lasciarsi toccare.
Atteggiamento di complementarietà
Le Comunicazioni possono essere di diverso tipo, per quanto riguarda la posizione dei due interlocutori: parallele, quando ciascuno comunica i suoi piani e interessi, senza lasciarsi toccare dalle parole dell’altro (è il cosiddetto “dialogo tra sordi”); reattive, quando i due si esprimono in modo istintivo, e spesso aggressivo, quello che sentono; simmetriche, caratterizzate da una tendenza esasperata alla parità assoluta di ruoli e diritti, con minimizzazione e paura delle differenze. Tuttavia, le comunicazioni più efficaci sono quelle complementari o reciproche, nelle quali ciascuno riceve e offre, è disposto ad aiutare e ad essere aiutato, nella diversità di ruoli e di competenze. Ognuno riconosce il bisogno dell’altro, di ciò che il partner è e gli può dare. Si acquista così la capacità di lavorare assieme, di dipendere, di dare e ricevere, d’integrare le proprie ricchezze d’essere attraverso il rinforzo reciproco e lo scambio.
Atteggiamento di flessibilità
L’atteggiamento flessibile è proprio di chi stabilisce rapporti di complementarietà, di chi non si ritiene il detentore ma piuttosto il cercatore della verità e rimane aperto, per riconoscerla, dovunque si trovi. È libertà dalla esigenza esagerata di aver ragione, di dire l’ultima parola (confronta il trilogo di G. Marcel), di ottenere consenso, di fare discepoli e conversioni ad ogni costo. A volte, l’atteggiamento di rigidità manifesta l’insicurezza interiore e la paura di non essere nella verità, per cui si assume un certo atteggiamento “sicuro” per convincersi di essere nel giusto o di crederci veramente in quel che si dice. “Ci si può fare un idolo persino della verità, perché la verità, scissa dalla carità, non è Dio; ne è soltanto l’immagine, un idolo che non dobbiamo né amare né adorare” (B. Pascal, Pensieri)[13].
L’ESITO DELL’ASCOLTO
La scelta vissuta nella parola “‘Al tirà: Non temere!”[14]
Per scegliere è importante chiedere il dono di un cuore libero dalla paura. C’è una parola assai importante nella S. Scrittura, che viene ripetuta ben 366 volte nella lingua ebraica, nell’arco della Bibbia; una parola per ogni giorno dell’anno, anche di quello bisestile: “Al tirà… Non temere”.
La vita finalmente libera dalla paura significa coraggio ritrovato, fermezza di propositi assunti e un cuore sereno e riconciliato. È una sicurezza che si basa sulla fiducia di una Parola, quella di Dio, che opera quanto dice: “Come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo e non vi ritornano senza irrigare e far fecondare la terra; così ogni mia parola non ritornerà a me, senza operare quanto desidero; senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata; ogni mia parola… ogni mia parola…”.
È il canone stupendo, che fa parte del repertorio dei canti giovanili e che attinge la bellezza del testo da Isaia 55,10-11. È una forza d’animo nuova che ci permette di accettare, nella trepidazione, ma anche nella certezza di non essere soli, quella parola di “invio” con cui il Signore raggiunge la vita di ciascuno. È la possibilità di ritrovare una posizione eretta, capace di guardare non più per terra, curva sotto il peso della propria fragilità e paura, ma di guardare le cose e le persone diritte, di guardare gli altri negli occhi per capire quello che veramente vivono e provano; di guardare in alto per cercare quello spiraglio di cielo, di azzurro che ridà entusiasmo, forza, calore ad una vita spesso duramente provata. È il bellissimo messaggio che arriva dal miracolo della guarigione che Gesù opera nei confronti di una donna “ricurva” raccontato da Luca in 13,10-17:
“Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era sabato. C’era anche una donna malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e non poteva in nessun modo stare dritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia. Posò le sue mani su di lei ed essa subito si raddrizzò e si mise a lodare Dio. Ma il capo della sinagoga era indignato perché Gesù aveva fatto quella guarigione di sabato. Perciò si rivolse alla folla e disse:In una settimana ci sono sei giorni per lavorare: venite dunque a farvi guarire in un giorno di lavoro e non di sabato!. Ma il Signore gli rispose: Siete ipocriti! Anche di sabato voi slegate il bue o l’asino dalla mangiatoia per portarli a bere, non è così? Ebbene, questa donna è discendente di Abramo; Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere liberata dalla sua malattia, anche se oggi è sabato? Mentre Gesù diceva queste cose, tutti i suoi avversari erano pieni di vergogna. La gente invece si rallegrava per tutte le cose meravigliose che Gesù faceva”.
Certo, la capacità di fare fronte alle paure può manifestarsi anche con delle modalità negative, perché frutto di un indurimento del cuore, di una repressione dei sentimenti, di una non accettazione della propria fragilità; e tutto ciò diventa spavalderia, sfrontatezza, ostinazione. È quello che la Bibbia stigmatizza con una sola parola: il cuore indurito, la… “sclerocardia”! La condizione di “creatura” rende l’uomo strutturalmente fragile. Per questo c’è in lui una radicale “tensione”… alla Vita, alla Salvezza, alla Trascendenza, in un progressivo cammino di abbandono e di liberazione interiore.
È quel messaggio stupendo che cogliamo nella finale del Vangelo di Marco. Le donne vanno al sepolcro, al mattino presto, quando il sole sta per sorgere; come non pensare che il sole sorgivo è Gesù risorto? Vedono la grande pietra del sepolcro rotolata via, e nel loro cuore subentra un senso profondo di timore, di sbigottimento, di spavento. Ma il messaggio dell’angelo arriva chiaro e profondo: “‘Al Tirà: non temete… È risorto… non è qui; vi precede in Galilea, come già vi aveva detto” (Mc 16,1-8). E allora andiamo! Se Lui ci precede, se Lui cammina davanti, perché temere? E ricorda: la paura di oggi porta in sé anche la fiducia di domani.
Ad una condizione…
Vogliamo esprimere questa condizione essenziale, con una parabola che viene dalla sapienza giapponese.
“Un saggio maestro giapponese, noto per la saggezza delle sue dottrine, ricevette la visita di un dotto professore di università, che era andato da lui per interrogarlo sul suo pensiero. Il saggio maestro, secondo l’usanza, prima di tutto servi il tè: cominciò a versarlo, colmando la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare tranquillamente, con una espressione serena e sorridente. Il professore guardava il tè traboccare, ed era talmente stupito, da non riuscire a chiedere spiegazione di una distrazione così contraria alla norme della buona educazione. Ad un certo punto non riuscì più a contenersi: È ricolma! Non ce ne sta più! Esclamò spazientito. Come questa tazza – disse il saggio imperturbabile – tu sei ricolmo della tua cultura, delle tue sicurezza, delle tue congetture erudite e complesse. E allora, come posso parlarti della mia dottrina, che è comprensibile solo agli animi semplici e aperti, se prima non vuoti la tua tazza?”.
Ricorda: dove c’è orgoglio, autosufficienza e presunzione, non c’è posto per la piccola, grande parola: “’Al Tirà: Non temere”.
Note
[1] BUBER M., Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Bose 1990.
[2] MANENTI A., Vivere insieme: aspetti psicologici, Dehoniane, Bologna 1991; “La comunicazione” pp. 65-85.
[3] NOUWEN H.J.M., Ho ascoltato il silenzio: diario da un monastero trappista, Querinana, Brescia.
[4] cfr. FAUSTI S., Una comunità legge il Vangelo di Matteo, Dehoniane, Bologna 2001.
[5] DAL MOLIN N., Itinerario all’amore, Paoline, Cinisello Balsamo 1988.
[6] La teoria di Silvano Arieti e alcune note sulla cultura post-moderna sono presentate in maniera più completa nel testo di DAL MOLIN N., Verso il Blu: lineamenti di psicologia della religione, Messaggero, Padova 2001, pp. 27-50.
[7] BISSI A., Il battito della vita, Paoline, Milano 1998.
[8] MARTINI C.M. – VANHOYE A., Bibbia e Vocazione, Morcelliana, Brescia 1983; in particolare il capitolo “La Parola di Dio”, pp. 18-29.
[9] MEGUERDITCHIAN N., Psicologia e discernimento spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp.62-75.
[10] UNA MONACA DELLA VISITAZIONE, Nel deserto giorno per giorno, Queriniana, Brescia 1991, pp.115-118.
[11] Queste note sono elaborate da parte mia in maniera libera e personale, avendo tuttavia come punto di riferimento l’esperienza indicata nel testo di MARTINI C.M. E ALTRI, Il Vangelo per la tua libertà: l’itinerario spirituale del Gruppo Samuel, Ancora, Milano 1991. Esse hanno anche una concretizzazione nell’itinerario del Gruppo Sichem: un cammino di un anno di discernimento vocazionale, che viene organizzato per i giovani e proposto loro in collaborazione dal CDV e dalla PG della diocesi di Vicenza.
[12] Per applicare meglio i suggerimenti sopra citati alla vita quotidiana, si consiglia SION V., Vivere l’attimo presente, Gribaudi, Torino 1995.
[13] MANENTI A., Vivere insieme, “’Al tirà Dehoniane, Bologna 1991; in particolare pp. 78-85.
[14] La riflessione sulle parole” è proposta ed elaborata in maniera molto precisa e profonda nel testo di COSTACURTA B., La vita minacciata: il tema della paura nella bibbia ebraica, Analecta Biblica 119, ed. Pontificio Istituto Biblico, Roma 1988, pp. 257-278.