«Con occhio contento» (Sir 35,10)
Incontro per il clero e la vita consacrata
Incontro per il clero e la vita consacrata in occasione della 56a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni
Centro Regionale Vocazioni Emilia Romagna, Modena 9 maggio 2019
L’originale espressione “con occhio contento” si trova due volte nel Siracide, al cap. 35, a pochi versetti di distanza. E curiosamente si trova nel posto più sbagliato, là dove il saggio parla delle tasse; non so chi possa avere l’occhio contento quando gli arriva la cartella esattoriale. Ma qui ovviamente si tratta di tasse sacre, della decima e delle primizie, e quindi è naturale che l’occhio sia contento, perché è il tributo che si paga a Dio.
Ecco il passo: “Il sacrificio dell’uomo giusto è gradito, il suo ricordo non sarà dimenticato. Glorifica il Signore con occhio contento, non essere avaro nelle primizie delle tue mani. In ogni offerta mostra lieto il tuo volto, con gioia consacra la tua decima. Da’ all’Altissimo secondo il dono da lui ricevuto, e con occhio contento, secondo la tua possibilità, perché il Signore è uno che ripaga e ti restituirà sette volte tanto” (Sir 35,9-13).
Il collegamento tra il dono, la gioia del donatore e la ricompensa divina richiama almeno altri due passi del Nuovo Testamento. Uno è costituito dalla famosa sentenza di Gesù, assente dai Vangeli, “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” o, come letteralmente traduce l’ultima versione, “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35), che rappresenta la conclusione del famoso discorso di Paolo agli anziani-presbiteri di Mileto. Paolo afferma che queste sono “le parole del Signore Gesù”. E pur ammettendo, come direbbe un raffinato esegeta, che questo è il Paolo lucano, e quindi che questo Gesù è quello paolino-lucano, la frase è talmente incisiva e riassuntiva del Vangelo che, anche qualora non appartenesse alle ipsisissima verba Jesu, Gesù l’avrebbe sicuramente fatta propria.
L’altro passo neotestamentario si trova nel Vangelo di Marco, dopo l’episodio dell’incontro con l’uomo ricco, che suscita il ben noto dialogo sulle ricchezze tra Gesù e i discepoli e si conclude con una promessa esorbitante: “non c’è nessuno che abbia lasciata casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,29-30). È una promessa iperbolica, certo, ma non campata per aria. È iperbolica: pensiamo che il saggio Ben Sirah, pur debitamente ispirato, non riusciva ad immaginare se non una ricompensa sette volte più grande della rinuncia, ed era già esagerato. Gesù spara addirittura il centuplo – essendo una persona con i piedi per terra aggiunge anche le persecuzioni – e poi ci mette, botto finale, la vita eterna.
È poesia o realtà? Sarebbe offensivo pensare che il Signore componga delle poesie alle nostre spalle, quasi sbeffeggiando una realtà spesso diversa. Perché la realtà, è vero, è spesso diversa. Non solo per i consacrati, ma per tutti i cristiani. Non è che seguendo il Signore e offrendo a lui la propria vita ci si trovi magicamente contenti, appagati, centuplicati – ma basterebbe anche settuplicati – nella ricompensa e “beati”. Qualche volta l’occhio è scontento, la decima è una tassa pesante da pagare, le persecuzioni interiori ed esteriori – specialmente quelle che provengono dai confratelli e dalle consorelle – prevalgono sulla beatitudine e il centuplo diventa quasi punitivo: pensiamo alle cento case che stanno qualche volta sul nostro groppone, come le strutture religiose o parrocchiali disabitate (forse Gesù prevedeva la crisi vocazionale?) o i cento fratelli presbiteri che non ci siamo scelti, o le cento sorelle e le cento madri (forse di madri un po’ meno) con cui condividiamo la nostra vita religiosa o i cento campi promessi da Gesù, che a volte sono campi da calcio parrocchiali in perdita economica e pastorale. Il centuplo è un’arma a doppio taglio, che non necessariamente rende l’occhio contento.
Eppure, dicevo, la parola di Dio non è mai pura poesia. Non risulta da alcuna parte che il Signore aderisca ad una visione romantica della vita né tantomeno che si diverta a prenderci in giro. La realtà deve essere diversa e, stando a quando ci ha promesso, deve essere più o meno così: lui ci dona tutto perché il nostro occhio sia contento, perché assaporiamo già ora la beatitudine del dare, perché il settuplo o il centuplo non siano zavorre ma motivi di gioia, perché la nostra vita ministeriale e consacrata sia una testimonianza anticipata della vita eterna. Se lui ci dà tutto e noi qualche volta abbiamo l’occhio scontento, evidentemente non sappiamo accogliere il suo dono. C’è qualche ostacolo, qualche trave nel nostro occhio, che impedisce la gioia. È normale, perché la gioia piena sarà solo nella visione “faccia a faccia”, nella pienezza del regno; ma non è normale che ci assestiamo sulla scontentezza e il malumore, che ci abituiamo a vivere e girare per la strada con una trave nell’occhio: cosa, tra l’altro, molto fastidiosa.
Siamo dentro al duomo di Modena, una delle meraviglie dell’arte e della fede medievale. Indico semplicemente tre occhiate nelle quali ci imbattiamo qui dentro, come aiuto a togliere la trave dal nostro occhio.
L’occhio di Dio su di noi
Lo sguardo del mistero
La prima occhiata è quella gettata dal Signore su di noi. È l’origine di tutto. Quando uno entra in Duomo, viene raggiunto a est dallo sguardo del crocifisso ligneo del XIII secolo e a ovest dalla luce che passa attraverso il grande rosone, realizzato dai maestri campionesi tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Due grandi occhi salvifici: la luce della grazia e il buio della croce, ciò che per definizione rappresenta lo splendore di Dio e ciò che per definizione rappresenta la vergogna degli uomini; due occhi che abbracciano la gloria e l’umiltà, il cielo e la terra, l’innalzamento e l’abbassamento. Assume qui una pregnanza particolare il passaggio di Evangelii Gaudium264 – da questo fondamentale documento è tratto il motto di queste giornate, “come se vedessero l’invisibile” (n. 150) – nel quale papa Francesco scrive: “Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita!”.
Tutto il resto è conseguenza, risposta, accoglienza. Non so se questo richiamo all’origine della nostra vita e vocazione, riesce ancora a stupirci o se ci siamo abituati troppo all’idea. Personalmente fatico a meravigliarmene ancora, ma capisco che è un peccato – non in senso morale, ma nel senso comune di perdita di un’opportunità – e capisco che tante tristezze e delusioni, scoraggiamenti e fatiche, tanti occhi scontenti, provengono da questa carenza di stupore. E cerco allora di recuperare la meraviglia – che non è solo l’inizio della filosofia, come voleva Platone, ma anche la chiave della gioia di vivere – per quello sguardo che sta all’origine della mia (e della vostra) esistenza, della chiamata al battesimo, della vocazione al ministero. Così il primo atto del nostro ministero e della nostra consacrazione non è in realtà un “atto” di vedere, ma una “passione”, la consapevolezza di essere guardati: non è un’attività, ma una passività: ravvivare la vocazione, lasciandoci di nuovo raggiungere da quello sguardo, da quella luce, da quella croce gloriosa, che un tempo ci ha conquistato.
“Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani”, dice Paolo a Timoteo (2 Tim 2,6). Il verbo “ravvivare”,ἀναζωπυρεῖν, è composto da tre concetti e si potrebbe tradurre con “ridare vita al fuoco”. Paolo non chiede di “accendere” il fuoco, come se il dono ricevuto da Timoteo con l’imposizione delle mai fosse spento; dice di “ridargli vita”. Questo verbo rimanda all’uso di coprire la brace con la cenere, alla sera, e di ravvivare al mattino la brace soffiando via la cenere con la bocca o con un mantice. Durante la notte la brace non si spegne, ma si affievolisce, e basta un po’ d’aria per farle riprendere vita. Il carisma del ministero ordinato non si spegne mai – la teologia del carattere custodisce il senso della fedeltà di Dio ai suoi doni – ma si può affievolire; il dono di se stessi nella consacrazione non muore, ma si può svigorire. La notte e la cenere non risparmiano nessuno, neanche i consacrati, i presbiteri e i vescovi: la notte del peccato e la cenere dell’abitudine, la notte dei fallimenti pastorali e la cenere dell’incomprensione e della solitudine ci visitano spesso. Ma la brace non si spegne: attende solo l’ossigeno che la possa ravvivare. Qual è l’ossigeno? Fare memoria dello sguardo del Signore. Sentirsi visti da un occhio buono e misericordioso. È questo il soffio che fa volare via la cenere: ritornare spesso, nel pensiero e nella preghiera, alle origini anche temporali della nostra vocazione, a quel primo momento nel quale abbiamo detto di sì ad una chiamata che ci chiedeva di lasciare tutto, seguirlo, parlare di lui e testimoniare lui. Senza questa boccata d’ossigeno, senza un rapporto solido con il Signore, senza lasciarsi contemplare da lui, tutte le azioni pastorali sono destinate prima o poi a deludere e la trave ritrova tranquillamente il suo posto nel nostro occhio.
Sapersi osservati costantemente da Dio non ha niente a che fare con un invadente Grande Fratello, ma ha molto a che fare con una custodia buona e premurosa. È l’occhio di Dio ad essere contento di noi. Lo dice il meraviglioso Salmo 139 (138): “Signore, tu mi scruti e mi conosci (…). Osservi il mio cammino e il mio riposo (…). Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda”. Forse ci viene da ridere, se ci guardiamo allo specchio: una meraviglia stupenda, noi che conosciamo bene i nostri limiti e spesso ci sentiamo così inadeguati? Eppure sarebbe un’offesa al Creatore se ci ritenessimo delle mezze cartucce, se ci considerassimo meno che capolavori, perché gli faremmo capire che lui ha fallito creandoci così. Partiamo di qui, dal recupero dello sguardo contento del Signore su di noi.
Il nostro occhio sui fratelli e le sorelle di fede
Lo sguardo della comunione
L’aula a tre navate del Duomo di Modena custodisce, come ogni chiesa, l’assemblea dei fedeli. Qui il Signore ci raggiunge con la sua Parola: l’ambone del presbiterio originario è imponente e ci sovrasta, il leggio del presbiterio provvisorio è molto meno imponente e il pulpito, aggiunto nel XIII secolo a metà cattedrale, ricorda il desiderio della parola predicata di raggiungere il popolo di Dio. Il pulpito esterno, verso piazza Grande, aggiunto all’inizio del XVI secolo, rafforza la predicazione popolare e l’orientamento della Parola alla città. Evangelii Gaudium indica per due volte la necessità che chi annuncia la Parola sia un “contemplativo della Parola” (cf. nn. 154 e 164). Il tabernacolo, nella cripta, custodisce l’eucaristia e ricorda la fedeltà di Dio, la sua presenza costante. Ma è soprattutto l’altare, sacrificio e mensa, a rappresentare il Signore Gesù, il fondamento della comunione tra di noi, nella realtà del suo corpo e sangue offerto e condiviso. Nel duomo, essendo cattedrale, è presente anche la cattedra episcopale di San Geminiano, terzo segno della comunione fraterna. La comunità cristiana, fin dagli inizi, si è raccolta attorno alla parola, all’eucaristia e al vescovo, coadiuvato dai presbiteri e dagli altri ministri. Secondo la Costituzione conciliare Sacrosantum Concilium, la “principale manifestazione della Chiesa” si ha proprio qui, quando si celebra l’eucaristia presieduta dal vescovo insieme ai ministri, con la partecipazione del popolo di Dio (cf. n. 41). Qui ci sono dunque tutti i motivi della comunione tra di noi.
La comunione è motivo di gioia. Il brevissimo Salmo 133(132) lo esprime con particolare efficacia: “Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme! È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come la rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion. Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre”. Certo che, a pensarci bene, è difficile che la rugiada dell’Ermon scenda sui monti di Sion, essendoci tra i due luoghi una distanza in linea d’aria di circa 250 km. Non sarà che il salmista abbia voluto farci capire la difficoltà di vivere insieme, la fatica della comunione fraterna? Il sospetto viene, pensando anche ad un altro passo, questa volta evangelico, nel quale è toccato l’argomento. Nel cap. 18 del Vangelo di Matteo, il capitolo “ecclesiale”, Gesù assicura: “dove due o tre sono riuniti nel suo nome, io sono in mezzo a loro” (cf. Mt 18,20). Con queste parole Gesù non ha garantito l’assenza di tensioni, fatiche e incomprensioni. E quasi per far capire la serietà di questa promessa, nel versetto precedente aveva lanciato questa provocazione: “se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà”. Secondo me si è esposto in modo così impegnativo, perché tanto è sicuro che maisulla terra due persone si accorderanno davvero.
La comunione è faticosa. L’occhio nei confronti del fratello è spesso invidioso e malevolo, propenso a cogliere ciò di cui l’altro è carente – dove ovviamente il metro sono io – rispetto a ciò che lo arricchisce. L’invidia è la radice di molte chiacchiere, per le quali a volte una canonica, un seminario, una curia o un convento assomigliano molto ad un negozio di parrucchiera o un bar dell’Arci (non dico delle Acli). L’invidia è un veleno che annebbia la vista – la sua etimologia latina indica che è un vedere malato – e oltretutto rende scontenti. Perché consiste nel provare dolore per le gioie altrui senza, peraltro, ricavarne alcun vantaggio. Per questo l’invidia, allo scopo di trarre qualche vantaggio, si esprime tante volte con la maldicenza, nel tentativo di abbassare l’altro e innalzare se stessi. San Francesco era terribile – se si può dire così di un santo – contro i frati maldicenti. Tommaso da Celano, nella Vita seconda, scrive: “Fra tutti gli altri viziosi, aborriva con vero orrore i detrattori e diceva che portano sotto la lingua il veleno, col quale intaccano il prossimo. Perciò evitava i maldicenti e le pulci mordaci, quando li sentiva parlare, e rivolgeva altrove l’orecchio, come abbiamo visto noi stessi, perché non si macchiasse con le loro chiacchiere” (Fonti Francescane, 768). Non si vuole ovviamente imbavagliare nessuno e nemmeno togliere lo ius murmurandi, quando è contro il vescovo. Ma gli hatersecclesiastici – e il Signore ne permette tanti anche nelle nostre diocesi – non fanno altro che rovinare il tessuto della comunione.
Per curare la malattia della maldicenza potremmo tentare di allenarci alla bendicenza. È il “gareggiate nello stimarvi a vicenda” di Rom 12,10; tutte le altre competizioni sono vietate.Non dice: gareggiate nel criticarvi a vicenda, o gareggiate nell’abbassarvi a vicenda. E non si tratta di dire sempre che va tutto bene, perché sarebbe ingenuo e irrealistico, ma si tratta semplicemente di spargere apprezzamento verso i confratelli, quando si rilevano dei doni. Uno degli esercizi più difficili è proprio quello di dichiarare stima per l’altro, apprezzamento per i doni altrui, perché sembra quasi di abbassare noi stessi. Ma la gioia più intima viene proprio dall’individuare e comunicare i doni degli altri, perché è una gioia disinteressata, liberante.
Quando l’atteggiamento dell’invidia, così diffuso nella società, si infiltra anche nelle nostre comunità, perdiamo quasi tutte le energie nei faticosi tentativi di ricucire le relazioni, di ridefinire spazi e compiti, di rimettersi d’accordo. Dante Alighieri aveva intuito che in paradiso uno ha l’occhio contento, il contrario dell’occhio invidioso; uno è contento per i doni di un altro e non solo per i propri. Presentando due grandissimi santi medievali, Francesco e Domenico, fondatori di due Ordini che all’epoca di Dante erano spesso in competizione, il Poeta ha questa geniale trovata: a cantare le lodi di Francesco nel Paradisonon è un francescano, ma un domenicano, San Tommaso (CantoXI) , così come a cantare le lodi di Domenico è un francescano, San Bonaventura (CantoXII). Dante suggerisce così che quando riusciamo a mettere da parte la competizione e a provare gioia per i doni degli altri, viviamo già un paradiso anticipato.
Il nostro occhio verso il mondo
Lo sguardo della missione
Davanti alla cattedrale normalmente c’è un sagrato e una piazza, il centro della città. La storia del Duomo di Modena è profondamente intrecciata con la storia della città e del Comune. La prima pietra venne posata nell’anno 1095, quando a Modena il vescovo mancava da quattro anni: era l’epoca delle Lotta per le investiture e il Papa non riusciva ad accordarsi con l’Imperatore. Furono i cives, i militese i clericia decidere concordemente la costruzione di una nuova cattedrale, data la pessima situazione in cui versava la cattedrale innalzata due secoli prima dal vescovo Leodoino. E per alcuni decenni, fino alla fine del XII secolo, le riunioni del neonato Comune, che ancora non disponeva di un palazzo proprio, si tennero in Duomo. Attorno alla cattedrale poi, come avveniva molto spesso, si aprirono a raggiera le principali vie della città; si costituì un capitolo con una scuola da cui nacque l’università, sorse il tribunale e – nelle piazze attigue – si teneva costantemente il mercato: ne sono testimonianza, tra l’altro, le misure di lunghezza scolpite come bassorilievi nell’abside esterna. Un rapporto fecondo, tra Duomo e città, che spiega anche il particolare rapporto dei modenesi con la loro cattedrale.
Tutta la città, si può dire, si sviluppa sulla tomba di San Geminiano. Esisteva la Mutina romana, che ha compiuto da poco i ventidue secoli di vita; e Geminiano ne fu vescovo nella seconda metà del IV secolo, essendo nato verso il 313 e morto nel 397. Il suo corpo venne sepolto in questa zona – in realtà in oltre tredici secoli fu spostato di pochi metri e solo una volta – che era necropoli romana. Appena morì, il suo culto divenne così intenso da consigliare immediatamente al suo successore la costruzione di una prima chiesa, che divenne cattedrale perché la cattedra fu portata qui dalla vicina San Pietro. E da allora il corpo è meta di venerazione da parte di migliaia e miglia di fedeli ogni anno, il cui flusso si intensifica in occasione della Solennità del 31 gennaio. Il messaggio di San Geminiano, che non ha lasciato nulla di scritto – rimane solo la firma apposta a suo nome dal suo segretario, il presbitero Aper, al Sinodo di Milano convocato da Sant’Ambrogio nel 390 – mi sembra che consista soprattutto nella custodia della città e nella lotta contro il male. Geminiano è considerato una specie di “defensor civitatis”: secondo la tradizione operò nei secoli alcuni miracoli per scoraggiare i possibili invasori di Modena e riuscì a farli fuggire. È una leggenda che riecheggia con ogni probabilità l’impegno effettivo del vescovo per promuovere la vita e l’attività urbana, come avviene per altri grandi vescovi del IV secolo nella nostra Regione. Ma soprattutto San Geminiano era noto come esorcista e taumaturgo, come dimostrano anche le sei scene scolpite nell’architrave della Porta del Battesimo, che rappresentano il viaggio del vescovo in Oriente, dove ha guarito la figlia dell’imperatore Gioviano che era posseduta dal demonio. Un pastore dunque che combatte il male, in tutte le sue forme: il male commesso dagli uomini, rappresentato dai nemici invasori; e il male commesso dal principe di questo mondo, che divide e devasta. L’occhio contento del pastore è temuto dai malvagi, perché non scende mai a patti con il male.
Tra le sepolture presenti nel Duomo di Modena ce n’è una particolare, qui vicina alla mia destra: è quella della dottoressa Luisa Guidotti Mistrali, uccisa in Rhodesia – ora Zimbabwe – esattamente quarant’anni fa, il 6 luglio 1979, all’età di 47 anni, dopo 13 anni di lavoro missionario come medico. Il suo soprannome era “Happy Doctor”, la dottoressa felice. Consacrata nell’Associazione Femminile Medico Missionaria, che era stata fondata da Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, era partita per l’Africa nel 1966. Girava da un ambulatorio all’altro e da un ospedale all’altro guidando un’autoambulanza. Spesso portava in giro dei lebbrosi. Parlando dell’arrivo nell’ospedale della capitale, scrive : “Credo che faccia una certa impressione l’arrivo della mia autoambulanza piena di lebbrosi in stato avanzato che cantano” (13 giugno 1971). Luisa vive davvero “con occhio contento” la sua missione. Solo chi ha uno sguardo così gioioso può permettersi di guardare in profondità, fino a scrivere: “vedendo questi corpi deformi, che risorgeranno gloriosi e che col mio lavoro cerco di migliorare, si vive in una profondità nuova il mistero pasquale in cui Cristo è la primizia dei risorti” (Pasqua 1970). Solo l’occhio contento è capace di solcare la fragilità del corpo malato e scorgervi il mistero pasquale.
Parlando dello sguardo sulla città, papa Francesco scrive in Evangelii Gaudium: “Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze” (n. 71). L’occhio contento del ministro e del consacrato sa vedere in profondità: solca i muri delle case per cogliervi tutti i germi di bene seminati da tante persone nella loro vita quotidiana, nella loro attività di lavoro, di assistenza, di cura, di consolazione. Lo sguardo di San Geminiano, lo sguardo di Luisa Guidotti, lo sguardo di ogni cristiano, ministro e consacrato, è “contento” quando resiste alla tentazione della superficialità e diventa uno sguardo contemplativo. Il nostro occhio qualche volta ha bisogno di rinforzi: del telescopio che lo porta a vedere orizzonti molto più grandi rispetto al proprio piccolo orticello, dove spesso esaurisce tutte le proprie energie per auto-conservarsi; e del microscopio, per scoprire tutte le ricchezze che la vita dei piccoli e degli umili nasconde e che tante volte sfuggono allo sguardo.
Dobbiamo confessare che ha ragione il Papa quando denuncia una tendenza autoreferenziale che affligge il cattolicesimo. Troppo tempo e troppe energie vengono spesi per contemplarci a vicenda, finendo a volte per infilarci in discussioni senza fine e solo in parte necessarie. La cura della “comunione” è importante, anzi è essenziale nella Chiesa: purché non venga scambiata per un’operazione rivolta esclusivamente ad intra, ma venga intesa come un momento della missione. Sono le esigenze della missione a fissare l’agenda della comunione, e non viceversa: altrimenti sotto l’ombrello della comunione si rifugiano tutte quelle tendenze intimistiche e quelle strategie per la spartizione degli spazi, la rivalità dei carismi e la divisione delle competenze che serpeggiano continuamente anche tra i cristiani.
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Termino con una piccola confessione pubblica. Ogni sera, quando mi raccolgo per un breve esame di coscienza, mi chiedo quante energie ho speso in quella giornata per la testimonianza, l’annuncio e la missione e quante, invece, ne ho spese per la burocrazia, le beghe e le discussioni interne, quelle che i libri di storia definivano efficacemente “le lotte intestine”. E devo dire – qui la confessione – che spesso il bilancio è problematico: sono rare le giornate dedicate prevalentemente a ciò per cui Gesù ha fondato la Chiesa, cioè l’annuncio del regno nel ribaltamento dei valori mondani; e sono molte invece quelle dedicate ad affrontare le “lotte intestine”, le tensioni intra-ecclesiali o meglio intra-ecclesiastiche. E pensando a figure come Luisa Guidotti o alle tante persone che nella quotidianità si impegnano per la testimonianza del Vangelo e la carità verso gli ultimi, mi vergogno. L’occhio contento è quello che alla sera si può chiudere dicendo: “oggi ho lavorato, come umile operaio, per il regno di Dio”. Che il Signore ci conceda di liberarci dagli sguardi pesanti e malevoli e di guadagnare uno sguardo più attento a ciò che davvero conta: il regno di Dio, l’impegno per l’amore e la giustizia nel suo nome.