L’annuncio della vocazione all’amore verginale nella vita delle comunità cristiane
Individuare come la comunità cristiana può annunciare la vocazione all’amore verginale, non è un tema facile. Io, alla luce della mia sensibilità e della mia esperienza, vorrei indicare sei piste, sei modalità entro le quali la comunità cristiana può annunciare la vocazione all’amore verginale[1].
Educare alla comunicazione
La comunità cristiana esiste e si realizza nella misura in cui si vive, si comunica reciprocamente un’intensa esperienza personale. Relazione e comunicazione: sembrano, questi, due aspetti fondamentali della vita della comunità. Se la comunità non costruisce relazioni autentiche, sincere, profonde, amicali, tessute di affettività e di relazionalità è una comunità spenta e morta. Ma queste relazioni devono avere il sapore della comunicazione, quindi di questo rapporto interpersonale. Nella comunità le persone non possono non comunicare. Quindi la comunicazione deve mettere in gioco queste relazioni interpersonali.
Nella comunità cristiana sono presenti tutti i carismi e tutti i ministeri e non è difficile notare come nelle nostre parrocchie – ed anche nelle nostre diocesi – sia in realtà difficile e faticoso comunicare, cioè creare relazioni interpersonali di complementarietà e di condivisione. Qualche volta si ha l’impressione, nelle nostre chiese, di essere più una federazione, un arcipelago, piuttosto di una comunità, dove la comunicazione diventa esigenza fondamentale e irrinunciabile. Spesso, a me pare, che le nostre comunità si pongano più su ruoli estrinseci, dove le persone si mettono quasi in secondo piano; mentre in primo piano sembra che si pongano i gesti di esecuzione. Prevalgono le strategie pastorali, i piani di esecuzione, i servizi sacramentali e liturgici; e le persone spesso vengono utilizzate per tenere in piedi questa congerie di progetti, di iniziative, di servizi. C’è ancora per molti aspetti , nelle nostre comunità, questa logica dell’utenza. E siccome l’utenza va sempre migliorata – è un fatto direi di mercato – allora occorrono sempre più forze perché l’utenza possa essere soddisfatta dei servizi che si rendono. E allora la comunità qualche volta utilizza le persone, direi, peggio, strumentalizza le persone. La formazione è tutta giocata in funzione di questo utilizzo: si formano i catechisti, per esempio, perché possano compiere questo servizio in maniera più proficua; si formano gli operatori liturgici perché l’animazione della comunità cristiana nella sua dimensione sacramentale e spirituale e liturgica sia sempre più all’avanguardia. Però c’è anche l’effetto opposto: che anche le persone possono utilizzare la comunità come sistema di difesa e quindi in questa prospettiva, in questo contesto le relazioni rischiano di essere molto scontate, stereotipate, e quindi non creare comunicazione e condivisione.
A me pare che la vivacità della vita comunitaria ha un indicatore ben preciso, che è appunto il livello della comunicazione-relazione. Da qui si vede se la comunità ha veramente interesse primario perle persone. Spesso le relazioni nascondono una ricerca di potere tra le persone. Non tutti riescono naturalmente ad influire su altri allo stesso modo, non tutti sono credibili nella stessa misura; e non c’è solo il problema dell’autorità, cioè di chi copre un ruolo di direzione; ci sono tutti questi micro-rapporti di potere che ciascuno esercita o subisce: il modo con cui si riesce ad influire sul prossimo, a indurlo a fare qualcosa che non nasce da lui. In questo contesto e in questa logica è molto difficile che nascano vocazioni. La formazione spesso è giocata più sui ruoli da coprire, sui servizi pastorali da sviluppare, piuttosto che sugli strumenti affinché ciascuno scopra la sua vocazione e la possa vivere liberamente. Quando si parla di esperienze personali comunicate nella pluralità dei carismi, si deve affrontare inesorabilmente anche il problema dei conflitti e delle tensioni: sono, direi, ineludibili. E allora, per affrontarli non basta un appello generico alla carità, o ricorrere all’obbedienza, al silenzio o alla omologazione. La carità non può essere una specie di coperta per nascondere o attutire le difficoltà e le tensioni che inesorabilmente si creano quando si comunica nel profondo.
A me pare che in questo contesto la vocazione all’amore verginale appare veramente come una vocazione tipicamente comunicativa. Chi ha un cuore verginale, chi vive questa dimensione di amore verginale è certamente molto più disponibile a comunicare la propria esperienza e ad arricchire la comunità cristiana di questa esperienza, unica e forse irripetibile, che diventa stimolo per le nuove generazioni a ripensare al proprio ruolo nella comunità cristiana. Spesso c’è un protagonismo che diventa come sbavatura, in certe affermazioni unilaterali personalistiche. Solo chi vive l’amore verginale, chi ha un cuore veramente libero e proteso verso la realizzazione del Regno nella sua vita, può diventare strumento di comunicazione e quindi di stimolo a un’autenticazione della comunità cristiana. Io credo che questa è la profezia dell’amore verginale nelle nostre comunità parrocchiali. Là dove ci sono dei vergini o delle vergini veramente consacrati all’amore di Dio e ai fratelli, là c’è la possibilità di recuperare questo spazio per una comunicazione più profonda, per vincere dunque tutte quelle più o meno conscie ricerche di potere che esistono nelle nostre comunità. Questo mi sembra un primo punto su cui bisogna riflettere attentamente.
Il tema e il problema della affettività
Già è emerso ieri sera. Padre Häring in un suo libro dice che l’affettività è l’ordito e la trama dove affonda le radici la persona intera: trascina tutto con sé, tutto ciò che la persona effettivamente è. Perciò orientare l’affettività è conseguire la definitiva orientazione di tutta la persona.
Questo è un grande obiettivo che le nostre comunità cristiane devono raggiungere o per lo meno verso il quale devono tendere. In fondo a me pare che siamo ancora un po’ vittime tutti di un orientamento culturale e pedagogico in cui si sosteneva che i consacrati devono assolutamente contenere o sublimare con forza qualsiasi affettività. L’affettività sembra quasi un pericolo, perché bisogna acquistare quella indifferenza di sentimenti e di emozioni che altrimenti possono giocare qualche brutto scherzo. Mentre invece bisogna che noi educhiamo l’affettività. I problemi della personalità legati all’affettività sono assolutamente rilevanti.
Allora ecco l’amore verginale, come affettività non sublimata o oppressa, ma come espressione più genuina di un affetto anche umano, che coinvolge appunto tutta la persona verso il Regno, verso Dio che riempie totalmente la vita e la persona, come effettivamente è. Allora io credo che questo è un compito fondamentale della comunità cristiana: quello di educare i giovani, soprattutto gli adolescenti, a gestire la propria affettività in modo maturo. Devono essere guidati e plasmati per orientare e canalizzare tutte le pulsioni che spesso in maniera disordinata bussano al loro cuore. C’è il problema dell’amicizia. Noi vediamo gruppi giovanili che vanno per aria perché all’interno nascono dei rapporti di amicizia o di amore che compromettono le relazioni affettive tra le persone, bastano due occhi languidi per mettere in crisi tutto un gruppo, per scatenare gelosie e contrapposizioni. Quindi bisogna veramente darsi da fare perché la formazione ad un’affettività matura sia uno degli obiettivi fondamentali anche della pastorale vocazionale.
Oggi c’è una specie di erotizzazione dell’amicizia da parte dei giovani; il sesso ha il sopravvento e quindi l’affettività spesso è giocata in questa chiave. E sappiamo quanto è difficile calibrare la sessualità con l’affettività, quanto è difficile educare i giovani a vivere la propria sessualità in maniera corretta, armonica e direi austera. I giovani oggi sono bombardati da centomila stimoli e ci accorgiamo quanto sia difficile armonizzare la fantasia, la sensibilità, le passioni, le reazioni. Se non c’è questo tentativo molto difficile di un’educazione che tenda alla totalità interiore, all’integrità e all’integrazione del mondo interiore, credo che difficilmente potranno nascere vocazioni all’amore verginale. Oggi tutto è giocato sull’esteriorità. È importante per i giovani l’abito, la pettinatura, gli orecchini, e tutte queste situazioni di esteriorizzazione della propria vita a scapito del primato del mondo interiore, della propria interiorità. I giovani fanno fatica ad interiorizzare e quindi in questo contesto veramente l’affettività rischia di partire per la tangente e giocare degli scherzi che poi di fatto ritardano una maturazione armonica e consistente.
Qualche volta l’educazione che noi diamo ai giovani fa riferimento a un sistema etico che tende a formare delle disposizioni interiori ad azioni finalizzate ad uno scopo. E gli scopi spesso, a mio parere, servono esclusivamente agli interessi di chi ha in qualche modo in mano le leve dell’opinione pubblica o della strumentalizzazione del mondo giovanile. Basta pensare a cosa sta succedendo coi grandi vip della canzone che sono in grado di radunare centinaia di migliaia di giovani, dove il sistema di riferimento è soltanto la voglia di imitazione o di scimmiottamento, dove c’è pochissimo spazio per questa interiorizzazione e quindi un controllo, una canalizzazione positiva della propria affettività. Noi dobbiamo sempre più cercare di proporre risposte e valori non direttamente finalizzati a uno scopo, ma risposte alle persone, all’intero ambito dei valori. È il discorso del cuore di cui si parlava don Rocchetta ieri sera: disposizioni di cuore, di mente, di volontà, dove si costruisce un’integrazione anche delle esperienze negative, perché qualche volta le esperienze negative riescono a buttare per aria tutto un cammino educativo. L’incapacità di gestire, di “digerire” le esperienze negative che molti giovani hanno, siamo davanti a fenomeni drammatici: ci sono giovani che si tolgono la vita, addirittura, di fronte ad un’esperienza negativa, traumatizzante. Quindi bisogna vivere questa affettività come integrazione di un impegno, di una disposizione positiva.
Anche l’educazione morale deve essere un cammino di unificazione: non basta presentare degli imperativi, altrimenti la vita cristiana e la comunità cristiana appaiono sempre come lo spazio per i “no”, non per i “sì”, per le proibizioni, non per le risposte sull’amore. In questo contesto l’annuncio dell’amore verginale diventa veramente un annuncio di libertà, di armonia del cuore; un’affettività non repressa, non distorta, non nevrotica, ma vissuta nella pienezza di un ideale dove la volontà riesce a gestire il tutto e riesce quindi a raccogliere e ad armonizzare tutte le funzioni spesso divaricanti e quindi perfeziona l’affettività, perfeziona le emozioni, perfeziona anche le passioni. È questa l’integrità del corpo di cui dobbiamo inesorabilmente parlare.
Quando parliamo di corpo non parliamo soltanto della struttura fisica ma di tutto quello che è la dimensione corporale e deve inesorabilmente coniugarsi con le esigenze dell’anima: perché la consacrazione non è riservata soltanto all’anima, è riservata a tutta la persona, nelle sue componenti di anima e di corpo, perché Colui che chiama è Colui che ha creato sia il corpo che l’anima. La verginità appare come una vocazione ad un amore totale, immediato, quindi come una strada che unifica la persona nell’interno delle strutture più intime del suo vissuto, della sua esistenzialità. Questo amore verginale è capace di riunire tutte le energie sia psichiche sia fisiche sia morali sia spirituali, unificando dall’interno tutta la vita della persona consacrata. Quando questo amore è verginale, cioè libero da ogni ombra di egoismo, e veramente gratuito e personale, diventa estremamente affascinante anche per i giovani, perché diventa come una possibilità, come un centro di riordinamento di tutta l’esistenza, e quindi diventa capace di configurare attorno a sé tutto il resto della propria vita, dando così a tutto, a tutte le esperienze, a tutte le pulsioni, un posto e un senso. L’amore verginale diventa veramente la chiave di lettura di questa riarmonizzazione della vita affettiva, sentimentale, istintiva; e quindi diventa veramente una proposta per una strada percorribile che può affascinare i giovani e può veramente aprire davanti ai giovani una risposta credibile a tutte le loro pulsioni, a tutti i loro interrogativi.
Educazione all’amore di coppia
Nella fecondità un amore è vero. Se andate a vedere il capitolo secondo del Direttorio di Pastorale Familiare della CEI, intitolato “Chiamati all’amore”, in questo capitolo si dice che “è nell’ottica della vita come vocazione all’amore che acquista valore e significato tutta la pastorale familiare (…). Questa nativa e fondamentale vocazione all’amore, propria di ogni uomo e di ogni donna, può realizzarsi pienamente nel matrimonio e nella verginità: sia l’uno che l’altra, nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo ‘essere a immagine di Dio’; essi sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’alleanza di Dio con il popolo”. Questo è ai numeri 23 e 24 del Direttorio di Pastorale Familiare. Questo è detto anche nella Familiaris consortio. Quindi “il matrimonio e la verginità non sono in contrapposizione tra loro; sono piuttosto due doni diversi e complementari che convergono nell’esprimere l’identico mistero sponsale dell’unione feconda e salvifica di Cristo con la Chiesa”.
Quando noi attiviamo dei corsi o degli itinerari di preparazione al matrimonio per i giovani non possiamo non parlare anche di questo. Perché, come dice il Direttorio, “la verginità, in quanto dice l’assoluto di Gesù Cristo e del suo Regno al quale ci si dona e ci si dedica in modo totale e con cuore indiviso, tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento”. Questo è un altro aspetto che la comunità cristiana deve tenere presente. Invece, purtroppo, spesso nei nostri incontri di preparazione al matrimonio, questo tema della verginità è totalmente disatteso. Dice sempre il Direttorio che da tutto questo “ne deriva che un’autentica pastorale familiare deve proporre nella comunità cristiana una stima grande e continua per la verginità, deve aiutare i giovani, i fidanzati, gli sposi, le famiglie ad attingere dall’incontro con chi – sacerdote, religioso, consacrato secolare, missionario – dedica al Regno tutta la sua esistenza, quel supplemento di linfa vitale che permette di vivere con gioia piena la loro vocazione matrimoniale”. Questo è un altro aspetto importante e fondamentale: una educazione vocazionale deve essere articolata, capillare, e deve tener presente che il progetto di Dio non si attua soltanto nel matrimonio, ma si attua proprio dentro questa pluralità di ministeri, di carismi, di vocazioni. Credo che quando parliamo di ministerialità nella Chiesa dobbiamo tener presente tutta la gamma e la ricchezza delle diverse forme di ministerialità. Se vogliamo educare i giovani sposi o i fidanzati a questa radicale libertà che consiste proprio nel decidere di sé secondo il progetto di Dio, non possiamo non tenere presente che ci sono altre persone che sulla stessa spinta decidono diversamente; non per contrapporsi ma per completare il quadro creativo e redentivo di Dio. Questa intrinseca dimensione vocazionale deve far parte integrante di questa azione educativa che dobbiamo assumere nella preparazione sia remota sia prossima al matrimonio e alla famiglia.
L’educazione al servizio
Oggi parliamo molto di volontariato. Ed è una cosa bella: il volontariato è certamente una delle caratteristiche fondamentali del nostro tempo. Molti giovani si dedicano al volontariato. Però, a mio parere, c’è un’insidia dentro questo. Ci sono molti giovani che sentono il bisogno missionario di dedicarsi agli ultimi, ma poi non riescono a voler bene concretamente ai vicini. Tutti si vogliono occupare di drogati, di prostitute da redimere o da liberare dalle schiavitù dei racket, tutti si vogliono occupare di malati di AIDS, e questo è un tema molto esaltante; però poi, gli stessi, quando devono vivere nella comunità cristiana i rapporti normali quotidiani con gli anziani, con i bambini, con i genitori, non sono ugualmente disponibili. E qualcuno addirittura abbandona la comunità cristiana, perché amare i vicini è più faticoso e meno gratificante dell’amare gli ultimi. Questo è un sintomo di una distorsione: che persone generosissime con i poveri e gli emarginati mostrino fastidio in famiglia o in comunità; sentono tutto questo come un peso, come un ceppo che limita i propri ardori, i propri scopi altruistici, e allora l’affettività viene convogliata verso gli ultimi, i quali qualche volta possono anche scoprire che chi li aiuta lo fa anche perché ha un suo bisogno di sanare forse qualche frustrazione, che viene sublimata e tradotta in vari modi nel comportamento caritativo.
Qui la comunità cristiana deve agire in maniera molto profonda e deve ricostruire questa sintonia. La solidarietà verso gli esclusi deve andare contemporaneamente verso i propri simili. La scissione è sintomo di immaturità, è sintomo di un disturbo di personalità.
L’educazione al servizio è educazione a quella compagnia nella quale si devono affrontare i problemi comuni e personali, per uscirne insieme, con chiarezza, con rispetto. Questo mi sembra un altro compito fondamentale della comunità cristiana: educare a un servizio autentico. Prima di tutto armonizzando queste due sponde nelle quali il servizio si realizza. Altrimenti la comunità cristiana viene completamente depauperata di quelle che sono le presenze più significative: noi sappiamo quanti pochi giovani, giovani- adulti ci sono nelle nostre comunità. Ci deve essere una ragione: vuol dire che le nostre comunità non sono in grado di educare a questa presenza, a questa compagnia. E la comunità cristiana ha questa grande ricchezza, che è quella di essere fondamentalmente popolo di Dio, direi – non in maniera dispregiativa – “popolaccio di Dio”: quel popolo che forse non ha caratteristiche così esaltanti, ma che va amato proprio perché è popolo. Questo è il grande problema del rapporto tra le comunità parrocchiali e il rischio di dilatarsi sempre di più proprio su questo terreno della gratificazione affettiva, lasciando le nostre comunità parrocchiali depauperate di quello che invece dovrebbe essere la loro ricchezza più rilevante.
Io credo che qui si colloca anche il servizio nella comunità cristiana dei consacrati nella verginità. Qui a mio parere è fondamentale la presenza delle comunità religiose nelle nostre diocesi. Anche qui, non perché le religiose soprattutto, possono poi essere sfruttate per qualunque tipo di servizio: sono disponibili, sono più buone, e allora sono i tappabuchi; ma la comunità religiosa come segno di questo servizio agli ultimi, agli ultimi non quelli tra virgolette, ma quelli che vivono nelle nostre comunità parrocchiali, cioè gli anziani, che sono le persone che accendono le candele durante la celebrazione liturgica, sono quelli che non sanno rispondere, sono i bambini disadattati che non riusciamo ad inquadrare nei nostri itinerari catechistici. Questa è la Chiesa, questa è la comunità cristiana. Se non si impara a servire la comunità cristiana nelle sue povertà, è inutile che andiamo poi a cercare altrove gratificazioni che diventano veramente dei surrogati che non fanno maturare nel profondo la vita del giovane. E allora bisogna far vedere che il quotidiano, il normale, il ripetitivo ha alcune valenze profetiche, altrimenti si sfasa tutto il discorso e sempre più l’educazione al servizio va fuori dalla comunità cristiana, va fuori del contesto di un’ecclesialità vissuta in maniera normale e quotidiana.
Il cammino della Chiesa nella complessità
Oggi noi facciamo fatica a stare dentro la complessità, e la complessità è una delle connotazioni fondamentali della nostra cultura e della nostra società. Cioè una Chiesa che non sa camminare dentro la complessità, che non sa riflettere su se stessa dentro questa complessità, è una Chiesa che rischia di non incarnarsi.
Quindi non una Chiesa che vive come mondo a parte, sicura, difesa, consolatoria per i buoni, fatta di amministrazione magari modernizzata dei sacramenti, di tanti documenti, di un ruolo ben determinato del prete e dei consacrati. Questa è una Chiesa che forse molti desidererebbero, poiché è una Chiesa che non crea ansia, non crea difficoltà; è una Chiesa dove tutto è chiaro e distinto. Ma io credo che se non costruiamo una Chiesa secondo le indicazioni del Vaticano II, una Chiesa di carismi, una Chiesa della profezia, dove la ministerialità diventa una provocazione, diventa una modalità portante, dove gli organismi di partecipazione vengono veramente vissuti nel clima sereno e fecondo della condivisione della corresponsabilità… noi non attiriamo vocazioni autentiche. A me pare che anche nei ministeri, nella promozione dei ministeri, come i ministeri istituiti o il diaconato permanente, c’è una larvata tendenza alla clericalizzazione e quindi a vivere sempre di più dentro questa Chiesa sicura, tranquilla, ben protetta, dove si attivano i ministeri, però sempre intra-ecclesiali, dove tutto viene giocato ed esaurito all’interno della realtà ecclesiale. La comunità vive questa sua difficoltà a stare dentro una complessità, così come il mondo la presenta: questa è la grande sfida per il prossimo millennio.
Coinvolgimento sicuramente crea delle difficoltà, crea delle incertezze, crea del disorientamento, ma è qui che si fa spazio la profezia dell’amore verginale. Proprio come proposta che va oltre, va oltre le difficoltà, va oltre i confini stabiliti, va oltre gli organigrammi e le strutture acquisite. Qui si colloca in tutto il suo fascino l’annuncio dell’amore verginale: proprio in questa capacità di andare oltre, di scoprire nuovi terreni, di scoprire nuove frontiere, perché la verginità sia veramente questa provocazione, con tutti i rischi che essa comporta. Qualche volta si ha l’impressione che la consacrazione religiosa sia una forma di insicurezza, perché i religiosi e le religiose – in parte anche i sacerdoti – hanno in fondo un futuro assicurato e hanno una vecchiaia protetta. Bisogna uscire da questo equivoco fondamentale, altrimenti noi susciteremmo delle vocazioni non coraggiose, non aperte al futuro, non capaci di assumere il rischio della provocazione del mondo.
Pare che qui c’è una prospettiva di una Chiesa che riflette su se stessa, che sa liberarsi dei propri fardelli, delle proprie incrostazioni, e cammina dentro il mondo. Perché se c’è un Evangelo da portare al mondo, c’è un Vangelo del mondo che noi dobbiamo acquisire. C’è un’anima di verità dentro il mondo. Noi non dobbiamo difenderci dal mondo, non dobbiamo mai coltivare prognosi catastrofiche, e questo anche nei riguardi della gioventù: quante volte si sentono fare giudizi pesanti e negativi sui giovani di oggi, come refrattari a qualunque proposta seria. Stiamo dentro la complessità di questo mondo giovanile così difficile da interpretare; ma se stiamo dentro, se portiamo dentro la vivacità di questo amore verginale, allora si apriranno dei nuovi spazi e la comunità cristiana riprenderà ossigeno, diventerà veramente il luogo dove si cresce insieme e dove si matura insieme. Un servizio autentico: questa Chiesa che si incarna dentro il mondo e che sempre di più condivide i drammi, le ansie e le gioie del mondo, secondo quanto dice da anni l’Introduzione della Gaudium et spes. Sono passati ormai decenni, ma siamo ancora abbastanza inadempienti.
La verginità di Gesù Cristo.
Per ultima, ma non è l’ultima in importanza! Abbiamo detto che la nostra pastorale vocazionale deve essere cristocentrica, dobbiamo recuperare la centralità di Cristo, io credo che noi dobbiamo ripresentare soprattutto il volto umano di Gesù Cristo, cioè dobbiamo far vedere come Gesù Cristo è un vero uomo, non è venuto sulla terra con un copione in tasca, da recitare, preparato prima. È venuto sulla terra per condividere totalmente la condizione umana pur avendo la sua natura divina. Certo resterà sempre un mistero questa sua coscienza, la crescita della sua coscienza di uomo-Dio, e diventa difficile scandagliare questo dualismo, questa integrazione fra il suo essere Dio ed essere uomo, comunque certamente Gesù Cristo non faceva finta di essere uomo, non era soltanto un vestito, era un uomo veramente, in tutto. Quanto è importante andare a leggere i Vangeli con questa ottica e andare a scoprire che anche Gesù Cristo è cresciuto psicologicamente. Il Cristo che stava nel tempio a discutere con i dottori a dodici anni è un ragazzo di dodici anni, che sta maturando la sua obbedienza al Padre, ma non è Gesù Cristo sulla croce, dove l’obbedienza al Padre è maturata attraverso tutta la sua esperienza, di emozioni, di affetti, di pensieri e di rapporti. Ripresentare Gesù Cristo come un superman, come una specie di idolo, rischia di sfasare il fascino della figura di Cristo. Gesù non ha cercato rapporti stereotipati, non ha cercato rapporti scontati: li poteva trovare e là nel deserto, prima di cominciare la sua vita pubblica, ha preso in esame tutte le possibilità di vivere la sua messianità; e aveva a disposizione prospettive stupende, molto facili: “Buttati giù”, “Presentati come un essere straordinario”, “Fai colpo sulla gente, vedrai come si convertiranno tutti”. Anche la gente spesso, come si dice ha l’anello al naso e crede…
Gesù non ha scelto le strade più facili, ha scelto la strada del silenzio, ha scelto la strada del cuore, ha scelto la strada del rapporto personale soprattutto con chi rapporti personali non aveva più. Potremmo citare i grandi incontri di Cristo con le persone: cito soltanto l’adultera: questa donna è finita, condannata a morte; è giusto che muoia perché ha tradito pubblicamente il marito. Ecco i rapporti non scontati, ecco l’obbedienza al Padre come libertà assoluta nei rapporti con le persone. Il Signore non si è spaventato dei giudizi malevoli e negativi nei suoi confronti: “un mangione e un beone”, un uomo che non ha nessuna credibilità perché se la fa con gente che andrebbe emarginata, secondo l’ipocrisia che è sempre presente anche oggi. Questo cammino di speranza che Gesù, passando per le strade della Palestina, ricostruisce e rincuora i suoi interlocutori, diventa paradigma per noi.
Noi dobbiamo riavvicinare i giovani attraverso la nostra catechesi, soprattutto, attraverso i nostri itinerari di iniziazione cristiana, dobbiamo avvicinare Gesù Cristo con questa modalità, cioè colui che vive l’obbedienza al Padre nella libertà totale del suo spirito, liberato il campo da ogni ipocrisia, da ogni rapporto scontato, per essere veramente strumento di salvezza. Tutto questo avviene attraverso il suo cuore verginale. Non a caso il suo cuore è verginale: perché nel suo cuore devono trovare spazio e posto coloro che altrove non avrebbero mai trovato posto.
È in questa prospettiva che si ripresenterà l’amore verginale anche ai giorni d’oggi proprio come un cuore aperto. Ecco la tenerezza, di cui sentivamo parlare ieri sera, questo vissuto personale nel cammino della misericordia. Io credo che oggi vi sia un grande ministero da compiere, che è il ministero della consolazione, che è il ministero della misericordia; e un amore verginale, un cuore verginale può essere veramente, come nessun altro, strumento e luogo di misericordia e di tenerezza. Proprio nella imitazione di Cristo, che è umile e mite di cuore (“Venite a me voi tutti, io vi farò nuovi”) io credo che molti giovani se vengono a contatto con una persona consacrata nell’amore verginale che apre il suo cuore e che diventa punto di riferimento con Cristo, nella imitazione di Cristo, allora veramente l’amore verginale non può essere ridicolizzato, diventa veramente una strada aperta davanti alla comunità cristiana.
E la comunità cristiana ritrova i suoi ritmi, ritrova la sua identità perché ridiventa veramente il luogo dove Cristo regna e Cristo realizza il suo Regno attraverso la pienezza di un amore che sarà per tutti un amore verginale: quando saremo nella vita eterna finalmente saremo tutti vergini, lasceremo sulla terra tutte le scorie della nostra corporeità, delle nostre passioni, dei nostri istinti, dei nostri tradimenti e vivremo così veramente nel Cristo, questa dimensione di totalità. Ed ecco perché la vocazione verginale diventa anticipazione e profezia dei valori escatologici.
Note
[1] Il testo della relazione è stato trascritto da sbobinatura e non rivisto dall’autore. Ciò consente al lettore di percepire l’immediatezza del “parlato” che, salvo pochissimi ritocchi, è entrato nel testo scritto conservandone tutta la freschezza. Naturalmente è inevitabile qualche marginale inconveniente che il lettore troverà spontaneo perdonare.