Il colloquio europeo di Dublino
Dal 28 Giugno al 1° Luglio 2001 si è tenuto a Maynooth, vicino Dublino (Irlanda), l’undicesimo incontro europeo dei responsabili nazionali della pastorale vocazionale. Questo il tema del Congresso: “La formazione di coloro che hanno la cura della pastorale vocazionale”. All’incontro erano presenti circa 60 persone, in maggior parte direttori e delegati dei Centri Nazionali Vocazioni provenienti da diverse aree dell’Europa e non. Dalla Polonia al Portogallo, dall’America alla Germania, alla Spagna, dall’Ungheria al Belgio e Luxemburgo, dalla Svizzera all’Inghilterra, Irlanda, Francia, Austria e Italia.
I lavori sono stati condotti oltre che sulla base di due relazioni di fondo anche con incontri di gruppo per aree linguistiche. Lo scambio delle rispettive esperienze sul piano della formazione e gli interventi in assemblea da parte di alcuni delegati hanno favorito la comunione tra i partecipanti e arricchito il colloquio. In allegato pubblichiamo la relazione presentata da P. Raffaele Sacco e P. Eusebio Hernandez, della Pontificia Opera delle Vocazioni della S. Sede.
IL PERCHÉ DI UNA FORMAZIONE SPECIFICA
DELL’ ANIMATORE E FORMATORE
DELLA PASTORALE VOCAZIONALE
Formare i formatori oggi non è più l’auspicio di un progetto futuribile ma una consapevolezza già tradotta in atti operativi. Le iniziative in tal senso, auspicate dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica e dalla Congregazione per gli istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, e messe in atto da diverse facoltà ecclesiastiche con soddisfacente risposta da parte di educatori di seminari di diverse nazioni, ne sono una dimostrazione. Si può affermare con i dati alla mano che il documento in proposito, emanato nel 1993 dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, ha saputo interpretare un’esigenza universalmente sentita negli ambienti formativi ed ha ottenuto una accoglienza soddisfacente non solo in teoria ma con ricadute concrete. In tale documento si esprimevano queste ragioni per formare i formatori[1];
– l’insufficienza del buon senso: la formazione al sacerdozio e alla vita consacrata non permette più un modo di agire improvvisatoecasuale,nonsoloneiconfrontidell’educandomaanchenellascelta dei formatori dei seminari e degli studentati[2];
– le esigenze del rinnovamento pedagogico non si ottengono soltanto per via didattica (aggiungendo materie di insegnamento e dando nuove informazioni). Occorre, in più, aiutare il formatore a creare in se stesso quella sintesi umano-spirituale che poi egli potrà favorire anche nel candidato al sacerdozio[3], fornirgli una base oggettiva che lo aiuti ad affinare meglio le sue auspicabili predisposizioni innate a tale compito[4] e a farsi capace di valutazioni sagge ed equilibrate il più possibile libere dal trasferire le proprie difficoltà sugli alunni intralciando così il loro normale sviluppo umano e spirituale[5];
– il contributo della psicologia per la conoscenza delle disposizioni umane: “L’educatore deve essere in grado di non illudersi e di non illudere sulla presunta consistenza e maturità dell’aspirante e dell’alunno. Per questo non basta il “buon senso”, ma occorre uno sguardo attento e affinato da una buona conoscenza delle scienze umane per andare al di là delle apparenze e del livello superficiale delle motivazioni e dei comportamenti, e aiutare il giovane a conoscersi in profondità, ad accettarsi con serenità, a correggersi e a maturare partendo dalle radici reali, non illusorie, e dal “cuore” stesso della sua persona”[6];
– la necessaria mediazione filosofica per avvalersi in modo sano degli apporti delle scienze umane, che abiliti ad individuare la loro sottostante (e spesso implicita) visione antropologica onde valutarne la compatibilità con quella cristiana. Guidati dalla stessa mediazione filosofica si è più in grado di ricorrere a tali scienze, senza generalizzazioni indebite e astratte dalle loro conclusioni sempre parziali e senza condizionamenti ideologici che ne snaturano il loro apporto[7];
– l’invito a creare istituti e centri di formazione organizzati esplicitamente a tale scopo[8].
Trattare il tema del perché formare i formatori non ha più l’obiettivo di sensibilizzare ad una esigenza da far nascere, ma quello successivo di mantenere la prassi ancorata alle vere ragioni che l’hanno posta in essere.
I perché più immediati
Iniziamo a trattare il tema con l’accennare a ragioni corrette ma non centrali, di valenza sia positiva che negativa. Abbiamo bisogno di scuole per promotori e formatori perché in alcuni paesi si registra un aumento delle entrate in vocazione e i seminari, per onestà professionale oltre che per motivi di carità, debbono attrezzarsi ad accoglierle. Un’altra ragione in positivo la possiamo trovare nella tendenza, oggi così attuale, alla globalizzazione che nel nostro caso significa una sempre maggiore convivenza e intreccio di culture (e di conseguenza di aspiranti e seminaristi di una stessa diocesi ma provenienti da diverse nazioni): dobbiamo avere degli strumenti per distinguere ciò che appartiene al contenuto universale della vocazione da ciò che è culturalmente contingente e variabile. Un’altra ragione è la varietà di retroscena scolastici dei nostri aspiranti e seminaristi: non sono pochi quelli che provengono da studi tecnici anziché umanisti (più capaci ad essere propedeutici all’acquisizione del pensare teologico), da ambienti secolarizzati anziché dai seminari minori, da retroterra familiari conflittuali o da anni di lontananza dalla prassi religiosa. Anche per queste situazioni occorrono educatori che siano veri pedagoghi che iniziano l’alunno ad una mentalità nuova eventualmente correggendo la precedente. Un’altra ragione è l’ineludibile confronto con le scienze umane, in particolare la sociologia e la psicologia, soprattutto in materia di formazione dove gli aspetti umani e spirituali trovano parecchi crocevia. Ci sono anche motivi di domanda pastorale: in seguito all’aumentata formazione teologica del laicato, al prete di domani saranno poste domande sempre più esigenti in termini di contenuti teologici e di correlate piste attuative nei differenti contesti storici. Nello stesso ordine di esigenze pastorali ci stiamo sempre più accorgendo che nel prossimo futuro il dialogo con i lontani o con altre religioni impongono al presbitero non solo il compito di parlare di Dio Cristo ma anche quello di giustificare il perché parlare di questo parlare e di mostrare la plausibilità e necessità del riferimento a quel Dio e, dunque, va formato più di quanto si facesse fino ad ieri. Fra i motivi di ordine negativo che rendono urgente formare i formatori possiamo elencare i vari disagi che colpiscono la vita odierna del prete e del consacrato: da quelli più eclatanti come l’abbandono, a quelli più sommersi come il rimanere nel sacerdozio ma da “nidificatori” ossia non per convinzione rinnovata ma perché si è trovato un decente equilibrio nel nido della propria situazione. Sulla stessa linea possiamo ricondurre motivi inerenti alla personalità del chiamato oggi: molte ricerche empiriche in merito riscontrano nelle nuove generazioni un io debole non sufficientemente equipaggiato per reggere a decisioni di vita totalizzanti e durature, un io che tende a motivarsi e a decidersi più in base alla forza dei bisogni che all’appello dei valori secondo una mentalità della realizzazione di sé (self-fulfillment) piuttosto che della trascendenza di sé (self-trascendence). Altri motivi li possiamo individuare nelle problematiche affettive inerenti al celibato e più profondamente alla libertà per un amore oblativo, nei conflitti generazionali, nelle difficoltà relazionali o più semplicemente nel calo numerico delle vocazioni che colpisce i paesi cosiddetti più evoluti. La situazione dunque ci spinge, in positivo o in negativo, a porci il problema e a darci da fare.
Giustificare l’impegno in questo settore formativo soltanto sulle ragioni suddette sarebbe investimento miope e di breve durata. Una risposta educativa che nasce per pressione dell’ambiente e viene elaborata in funzione di una situazione contingente non corrisponde ai canoni dell’arte pedagogica che, sebbene stimolata dall’oggi, non si ferma a rincorrere l’oggi ma rispondendo al qui e ora pretende di innescare un processo di crescita nel tempo e garantire un progressivo cambiamento ed evoluzione della persona che sia trans-situazionale. Educare, infatti, non è solo far vivere oggi ma abilitare la persona ad “essere” anche domani e ad “essere meglio” di oggi.
Oltre l’allarmismo e l’efficientismo
Liberi dalla pressione del contingente, ma liberi anche dall’allarmismo. Quando l’esigenza di preparare buoni educatori e buoni animatori vocazionali parte dalla constatazione di traumi educativi accaduti nelle nostre case di formazione, dallo shock per le speranze riposte sui preti giovani ma poi andate deluse, dagli scandali ecclesiali che tanto interessano i mass media… lo sbigottimento e l’ansia del momento spingono a ricercare con frenesia risposte immediate e ad affidarsi senza discernimento ai vari pacchetti educativi oggi esistenti sul mercato vocazionale con miracolistiche speranze di avere finalmente la ricetta riparatoria. Ci si ferma, così, alla fatidica domanda del “che cosa fare?” senza procedere verso quella più fondamentale del “come capire?”. La fretta di riparare il danno e prevenirne altri uccide la tranquillità del riflettere e capire il mistero della vocazione. Non ci interessiamo dei nostri aspiranti e seminaristi per evitare, prevenire, riparare ma per aiutarli a gioire di farsi preti e consacrarsi a Dio. Se l’educatore non si prepara a divenire tale per ragioni di indigenza dei suoi alunni, neanche lo può fare perché si ritrova lui stesso indigente nella sua interiorità. È vero: il buon educatore deve riconoscere i propri limiti di personalità e spiritualità e tentare di superarli per non trasferirli in chi vuole educare ed accompagnare con l’effetto che il cieco guida il cieco ed entrambi cadono nel burrone. A questa indigenza caratteriale si deve porre rimedio.
L’indigenza da evitare è quella ontologica. Quella cioè che, secondo un falso pudore, porta l’educatore a bussare alle scuole di formazione perché ritiene che la propria attuale e personale assimilazione di quel messaggio evangelico che dovrà trasmettere ai suoi alunni (ad esempio il suo concetto di Dio, il suo attuale grado di amore per Lui, la sua più o meno onorevole dignità di risposta, la sua più o meno grande maturità spirituale…) non sia un degno mediatore educativo, qualcosa dunque da tenere fuori dal rapporto educativo perché non edificante per il discepolo. Quando vive così il rapporto fra la propria interiorità e il ruolo ricevuto, si iscrive alla scuola non per migliorare la sua attuale maturità vocazionale ma per compensare, con tecniche e strumenti, la sua presunta indegnità personale nella speranza che la conoscenza acquisita camuffi la propria indigenza. Ciò è sbagliato perché viene evaso uno dei requisiti fondamentali del buon educatore: la disponibilità ad usare la sua stessa esistenza ed esperienza come strumento di relazione educativa ossia la libertà di offrire all’altro l’uso del proprio io senza sentirsi minacciato e senza approfittarsene, il che sarà possibile quando l’educatore ha fiducia nella valenza pedagogica del suo stesso essere prete e persona. Come si fa ad educare l’altro se non mettiamo a sua disposizione la nostra interiorità? Come è possibile illudersi di diventare buoni educatori sperando che la tecnica sopperisca al rischio di lasciarsi coinvolgere nella propria interiorità? Il diploma di formatore dovrà attestare la avvenuta capacità di far parlare meglio il cuore, non l’abilità del tecnico che diagnostica ma non comprende, consiglia ma non si compromette. È nell’incontro di due interiorità che il dialogo educativo trova la sua efficacia. Ormai esistono scuole per tutto: per essere bravi genitori, figli, padri, nonni… per imparare a nutrirsi, respirare, camminare, dipingere e suonare… A volte si accede a queste scuole con l’illusione efficientista che per fare i bravi genitori, figli, padri, nonni… bisogna ritornare sui banchi di scuola perché per intuito personale e connaturalità non ci si ritiene capaci di essere presenza di benessere. Le scuole per formatori non servono per trapiantare organi in corpi incapaci di sopravvivere con i propri ma per affinare quelli già esistenti a compromettersi nel dialogo educativo, altrimenti gli strumenti acquisiti saranno usati come scudi per nascondere la propria interiorità sotto partine di pietosa saccenza. Chi si prepara ad essere educatore non dovrebbe dire come l’eunuco etiope “come potrei capire quello che sto leggendo se nessuno me lo spiega?” (At 8, 31) ma con Giovanni: “ciò che io ho udito con le mie orecchie, veduto con i miei occhi, contemplato con il mio spirito, toccato con le mie mani, ossia il Verbo della vita, questo io annuncio anche a te perché la tua gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).
Quando una persona giusta usa mezzi sbagliati questi agiscono in modo giusto, ma quando una persona sbagliata usa mezzi giusti questi agiscono in modo sbagliato.
Pensiero e dedizione di sé
Non si può entrare nel campo della formazione senza compromettere se stessi. Se si accetta di essere animatore e formatore è per compromettersi. Compromettersi significa entrare nel dialogo educativo con l’uso congiunto del pensiero e della dedizione di sé. L’interiorità altrui si lascia scoprire e toccare dal pensiero e dalla dedizione usati congiuntamente. Il pensiero privo di dedizione fa dell’educatore un consulente distaccato. La dedizione priva del pensiero lo rende un tutore protettivo. L’unione delle due attività ai fini del coinvolgimento educativo non è una scoperta della pedagogia moderna. Già la filosofia tomista l’aveva individuata come la chiave di accesso all’intimità. L’intelletto, con i suoi strumenti di indagine e riflessione, formula una copia del tu nella mente del conoscente (per cui il vero ha la sua sede nel soggetto). La dedizione di sé, con i suoi strumenti di ascolto e accoglienza, lascia che il tu si esprima nella sua interiorità (per cui il vero ha la sua sede nell’oggetto). L’intelletto assimila in sé il tu, la dedizione verso il tu si protende. Con l’intelletto “capisco” l’altro in termini di cause (perché è così), con il dedicarmi a lui lo “comprendo” in termini di significati (che senso ha essere così). Capire è meno di comprendere. Capire perché l’altro piange non significa ancora comprendere il significato del suo dolore (capita infatti che posso dirmi le ragioni del suo stare male ma non mi rendo conto della sua sensazione interiore di morte se non quando leggo sul giornale che si è suicidato). L’educatore abile nel pensare si fa una idea del tu (lo assume in sé) ma rischia di rimanere prigioniero delle pre-comprensioni elaborate e di interloquire con esse e non con la originalità di quel tu. Se, in aggiunta, è anche capace di offrire al tu l’uso del proprio io, se a quello si adatta mettendosi a disposizione perché quel tu finalmente si possa scoprire a se stesso, allora quella copia interiore che con il pensiero ha elaborato servirà a far risaltare meglio la singolarità altrui[9]. Con l’intelletto si conosce il tu, con l’amore ci si compromette con lui, secondo il suddetto modello giovanneo. La mano che vuole spingersi fino a toccare il cuore dell’altro deve essere mossa dalla conoscenza e dall’amore perché se il pensiero identifica la presenza del tu è l’amore a coglierne la realtà ultima. Senza questa dedizione amorosa il conoscere non consegue la sua pienezza perché da solo non è in grado di cogliere la realtà ultima dell’uomo che invece è colta dall’amore. Vale anche per l’educatore quanto Lonergan sosteneva per il teologo, e cioè che la sua dignità ultima sta nella sua personale disponibilità alla conversione, ad un processo di auto-correzione e di esamina del corretto investimento del suo essere[10]. È questa la ragione per cui si raccomanda che gli istituti per formatori, in aggiunta ai contenuti didattici, offrano ai loro studenti occasioni di verifica personale della loro effettiva disponibilità interiore sia con percorsi di introspezione psicologica che con esperienze di natura spirituale.
Un perché che rimanda all’antropologia
Senza cadere nel già criticato allarmismo o nella gratuita critica alla fragilità giovanile, in questi ultimi anni stiamo assistendo ad un fatto che si impone sempre più galoppante. Ormai eclatante nella cultura occidentale è riconosciuto anche dagli educatori di altre culture. Si tratta dello scarto antropologico fra le generazioni. Le vie di accesso alla propria interiorità cambiano vertiginosamente. Il ventenne si definisce in modo molto diverso dal sedicenne e in modo ancora diverso dal quarantenne. La nostra mentalità, in pochi anni, viene surclassata da quella di altri dai quali ci dividono solo pochi anni di età. Il fenomeno emerge evidente quando un gruppo, diverso per età e formazione, si ritrova a discutere uno stesso tema: abbastanza rapidamente appare chiaro come ogni generazione usi peculiari por te di ingresso al tema proposto.
Lo scarto non è, in primo luogo, etico ma antropologico. Quindi molto più radicale di una semplice diversità sui modi di agire. Lo scarto è nella definizione stessa di vita buona. Se non si vede questa differenza di fondo ma si lascia il confronto al livello di derivati etici, la comunicazione educativa si spezza. L’ultimo atto è il silenzio dell’educatore circa lo stesso piano etico sul quale aveva posto la comunicazione. Non trovando su questo piano un punto di contatto, stabilisce con i suoi seminaristi rapporti di acquiescenza, fatti di complicità distratta che non è consenso né approvazione ma solo un prendere atto di una prassi che non si può né accettare né cambiare, riservandosi semmai di ribadire astrattamente i principi e lo slancio retorico con cui ostentatamente li ripete diventa una compensazione alla mancanza della loro efficacia concreta. L’accordo etico presuppone un confronto sulle antropologie di riferimento.
Mi spiego con due esempi.
Incontro due ragazzi, sposati da appena un anno e alle prese con le prime crisi di coppia. Ai miei tentativi di convincerli a soprassedere alla separazione in nome della fedeltà anche nella cattiva sorte, mi rispondono: “lei la chiama fedeltà? Ma questa è ipocrisia! Perché stare insieme, se non ci si ama più? Sarebbe una farsa. Separarsi è un atto di onestà vicendevole”. Da notare che erano due catechisti. Secondo esempio: qualche mese fa in un seminario italiano l’insegnante di filosofia, per far comprendere il concetto della oggettività come ordine intrinseco alle cose, portò il caso dell’aborto procurato come esempio di disordine oggettivo.
Un seminarista della classe ingaggiò un lungo dibattito in aula sostenendo l’idea che l’aborto procurato è giustificato dal principio della paternità e maternità responsabile. Ancor più allibito, quell’insegnante notò che nel corso della discussione altri seminaristi (compresi quelli più devoti) davano ragione al primo perché in favore della libera autodeterminazione della donna. Qualche giorno dopo lo stesso insegnante, che tiene anche il corso di morale sessuale, parlò della masturbazione e un alunno (questa volta non più del primo ma del quinto anno del curriculum) candidamente obiettò “ma che cosa c’è di male in ciò? Dopo, si dorme così bene!”. Il cambiamento non è solo etico ma, alla fonte, nel modo di concepire la vita (nei nostri due esempi il matrimonio e la sessualità).
Ci sono fondamentalmente tre modi di leggere queste diversità:
– Interpretazione moralista. (“I giovani di oggi hanno perso il senso dei valori”). Si interpreta l’agire altrui come rinnegamento o trasgressione di una visione del mondo che si suppone condivisa. È il caso dell’educatore che parte dal presupposto che le nuove generazioni condividano la sua stessa antropologia. Quando questa è disattesa nelle sue ricadute etiche, queste ultime vengono tacciate di incoerenza. Lo scarto delle antropologie fa invece sospettare che quei giovani si ispirino a premesse diverse e alla luce di quelle le deduzioni che per l’educatore sono assurde, per loro sono logiche e coerenti.
– Interpretazione psicologica. (“I giovani d’oggi sono immaturi”). Incapaci di capire che loro usano codici diversi dai nostri, spieghiamo le loro diverse deduzioni come segno di debolezza psicologica. È il caso dell’educatore di seminario che taccia per problema psicologico ciò che invece è un diverso percorso nel formarsi (o deformarsi) la coscienza. Si invocano, così, psicoterapie da pronto intervento perché si scopre che il seminarista trascorre le vacanze con una ragazza, quando poi risulta che la colpa non è dei suoi conflitti inconsci ma del non aver ancora capito perché non si può farlo (“tanto non faccio male a nessuno!”).
– Interpretazione alla luce della antropologia di riferimento. Se qualcosa di nuovo e di diverso appare, vuol dire che c’è una nuova matrice culturale dalla quale la novità è scaturita e nel cui contesto quella novità è comprensibile, coerente e logica e sarebbe strano se non venisse fuori. In questo caso, per correggere il derivato bisogna risalire al suo orizzonte ispiratore.
La sfida è antropologica e, di conseguenza, diventa etica. Antropologia non come teoria astratta ma come criterio pratico, spesso non cosciente ma seguito, per valutare ciò che dà vita e ciò che dà morte. Ciò vuol dire interrogarsi sui criteri oggi emergenti ai quali le nuove generazioni ricorrono (implicitamente o esplicitamente) per formarsi la coscienza morale.
Se il seminarista ha difficoltà di interpretazione e conseguente attuazione del contenuto vocazionale, non è solo per questione di immoralità o di debolezza psicologica. Alla radice più profonda può essere che egli segua una antropologia che gli crea tali difficoltà. La definizione del senso è strettamente collegata alla definizione che il ricercatore dà di se stesso e della sua dignità. È dunque un problema di antropologia e, di conseguenza, di formazione della coscienza (individuale e collettiva). La spiegazione che l’uomo si dà della sua realtà ontologica condiziona la sua sensibilità etica. Cambiando la spiegazione di sé cambia (è favorita o preclusa) la scoperta di ciò che nella vita vale. Questo vale anche per l’esperienza religiosa. L’accesso dell’uomo a Dio è strettamente collegato all’accesso dell’uomo a se stesso: come l’uomo si spiega a se stesso e quale spazio vuole concedere a Dio sono due problemi collegati. Se così, un punto critico nella formazione delle coscienze consiste nell’educare a una corretta impostazione del ragionamento e non solo nel sapere tirare conclusioni comportamentali coerenti. Le difficoltà sono già nelle premesse! (come è possibile, ad esempio, pronunciare un atto di affidamento di me stesso se ho interiorizzato la cultura dell’autoconservazione di me?).
L’etica dipende dall’antropologia perché è quest’ultima a fornirle il sistema simbolico senza il quale l’etica non potrebbe attivarsi. Se, infatti, la persona vuole dare un senso alla sua vita deve disporre di un sistema simbolico che le permetta di leggere il vissuto rozzo e immediato della sua esistenza nel quadro più generale del destino della persona umana in genere e della collettività. L’antropologia fornisce questo sistema simbolico. Cambiando la antropologia, cambia il sistema simbolico e di conseguenza cambia la interpretazione del proprio vissuto. Ad esempio, per la antropologia cristiana Dio si è incarnato nella storia: è in forza di ciò che il cristiano può interpretare la propria storia come evento relazionale con Lui dentro ad una comunità e, di conseguenza, agire in un certo modo anziché un altro. Il sistema simbolico fornitogli dalla sua fede gli servirà da riferimento per dire: questo è sensato e quello no, questo è buono e quello è cattivo… Se quel cristiano rinnega la sua fede, si vedrebbe obbligato a re-inventare di conseguenza la sua simbolica. Lo scarto fra le generazioni avverte che esse usano simboliche differenti: ecco perché, ritornando ai due esempi suddetti, ciò che per quell’insegnante è disordine per il suo alunno è scelta responsabile e ciò che per me definisce la fedeltà per l’altro è la definizione dell’ipocrisia. Qualsiasi antropologia e sistema simbolico è garanzia per la perseveranza e l’efficacia della vocazione sacerdotale? Quale è il nucleo della antropologia cristiana? Essa è una fra le tante o la più ampia e completa? Le antropologie mediate dalla cultura contemporanea sono tutte integrabili con la visione cristiana di vita come vocazione? Le scuole per educatori dovrebbero contemplare queste domande. Il problema è acuto per il dialogo fra le generazioni di una stessa cultura e fra le culture.
Il perché più eccellente
La vocazione è dialogo fra Dio e la persona umana. Dio, interlocutore principale chiama chi vuole, quando vuole e come vuole “secondo il suo proposito e la sua grazia” (2 Tim 1,9). La sua chiamata ha una influenza sull’intera esistenza del discepolo. Comporta, infatti, una esigenza di totalità che investe l’essere concreto della persona in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue relazioni segnandone internamente l’esistenza. È da questo rapporto specialissimo con il Signore e quindi con la chiesa che ne deriverà, come effetto, il servizio al mondo. La sublimità della vocazione è rintracciabile nel suo duplice aspetto di contenuto offerto e motivazione esigita.
Contenuto: Dio ci chiama ad auto-trascenderci in un amore per Lui e per il prossimo simile a quello che ha ispirato la vita di Gesù Cristo, quindi ad un amore nuovo che non nasce dal cuore umano ma che è stato rivelato dal messaggio biblico e dalle parole e gli esempi di Gesù Cristo e, dunque, un amore infuso nel cuore umano dalla grazia divina.
Motivazione: la risposta nasce dall’amore disinteressato per Dio, esente il più possibile da motivazioni utilitaristiche e difensive. (Amo come Cristo perché Cristo è il Cristo, il Figlio del Dio vivo e non per scrupolo di coscienza, obbligo verso i genitori, ricerca della mia immagine…). La sublimità è, dunque, nell’aspetto di trascendenza. “Dio chiama la profondità del nostro essere, il nostro cuore alla libertà per l’autotrascendenza teocentrica”[11].
La trascendenza teocentrica è l’incessante superamento di se stessi per raggiungere Dio che anche attrae a farlo. Si differenzia dalla trascendenza egocentrica il cui obiettivo è ritrovare se stessi in modo più vero ed autentico cercando un’attuazione piena e completa delle proprie potenzialità. Come diversa e più limitata è la trascendenza filantropico-sociale avente come obiettivo la progressiva realizzazione della comunità umana di solito accompagnata dalla maggiore realizzazione di chi collabora a raggiungerla. Per farsi prete non basta avere a cuore la realizzazione della propria esistenza né mettersi a disposizione del servizio ai fratelli. La differenza fra i tre tipi di trascendenza è facilmente comprensibile se ricordiamo che la prima non sempre comporta la totale realizzazione delle proprie potenzialità (la sequela è anche mortificazione) e neanche una migliore convivenza sociale (la sequela contempla anche la spada e la guerra).
Un ulteriore elemento a sostegno della sublimità della vocazione è l’analisi delle modalità con le quali il discepolo si trascende teocentricamente: modalità di conoscenza, moralità e amore. Si orienta a Dio cercando il vero (conversione intellettuale), cercando il vero che è anche buono (conversione morale) e, soprattutto, cercando il vero e il buono che sono anche sommamente apprezzabili (conversione religiosa). Il culmine del cammino ascetico è la conversione religiosa “che consiste nell’essere presi da ciò che ci tocca assolutamente. È innamorarsi in maniera ultra mondana. È consegnarsi totalmente e per sempre senza condizioni, ritegno e riserve”[12].
Questi sintetici tratti della chiamata ci offrono la risposta centrale al perché formare i formatori: per ragioni di sublimità della vocazione sacerdotale e consacrata. Ci vogliono formatori preparati perché la vocazione è un mistero sublime di cui gioire il più possibile. Ritengo che il massimo della formazione sia educare al piacere di essere preti e consacrati.
La sublimità della vocazione
Scrivendo ai cristiani di Efeso (Ef 3,14-21), Paolo confida di aver pregato per loro affinché siano in grado di comprendere quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza umana ma che, d’altra parte, abita già nei loro cuori ed è operante in modo misterioso nelle vicende umane. Prega che facciano esperienza del mistero dell’amore divino che contemporaneamente sorpassa ed è presente. Il mistero ha la duplice caratteristica di essere dentro e oltre il cuore del discepolo[13]. In quanto è oltre, il mistero è una realtà che abbaglia, non si lascia possedere ma onorare, non decifrare ma intravedere. Non si svela nella sua totalità ma ogni nuova conoscenza di esso comporta la consapevolezza di una nuova ignoranza. Il mistero è davanti a noi, come la nube giornaliera o la colonna di fuoco notturna che, costante riferimento degli ebrei, dirigeva il loro cammino nel deserto.
In quanto dentro, è già operante in noi. Quel mistero mai posseduto è tuttavia percepito come presente e sommamente significativo, realtà sperimentabile e rintracciabile nella nostra vita costellata di decisioni, motivazioni, azioni che sono la mediazione storica di tale mistero che, a buon ragione, può perciò essere considerato talmente vero e concreto da riporre in esso il segreto della piena rivelazione della verità di noi stessi. In questo aspetto il mistero è il seme nel terreno e il lievito nella pasta.
Conviene ritornare alla sublimità perché non raramente assistiamo ad un degrado del tema vocazionale, non solo ad opera dei mass media ma anche nelle nostre discussioni intra-ecclesiali. La vocazione al sacerdozio non viene trattato nella sua eccezione più seria di trascendenza e mistero, ma l’attenzione scivola subito sui suoi risvolti più appariscenti e derivati. Il tema attira l’attenzione non per la sua sublimità ma quando diventa problema. Il dibattito slitta subito sulle concretizzazioni (di divieti, difficoltà, requisiti…) che la vocazione comporta, glissando il tema della sua essenza sublime. Ci si illude di parlare di vocazione mentre si sta parlando delle attuazioni derivate (e spesso riduttive) nelle quali la vocazione è inquadrata (e spesso fraintesa). Come è possibile, non dico vivere ma ancor prima capire questi derivati se monchi della loro premessa giustificativa? Come è possibile comprendere ed accettare le concretizzazioni esigite da un orizzonte se quell’orizzonte non viene mai esplicitato, è implicitamente rifiutato o sentito come estraneo alla propria mentalità?
Questa banalizzazione rinvia all’infinito lo stesso processo decisionale[14]. Se il giovane in ricerca si interroga sui derivati della vocazione senza inquadrarli previamente nel nucleo fondante della stessa, non può arrivare ad una decisione per il sì. Ha impostato male il problema in partenza. Non può decidere di amare con tutto il cuore, tutta la mente e tutta la volontà perché è proprio a questi tre livelli che si realizza il blocco. Quando la realtà del mistero, con la sua altezza e sublimità e con la sua profondità e ampiezza, rimane, al massimo, implicita, l’ipotesi di farsi prete anziché suscitare fascino e meraviglia evoca sbigottimento, indifferenza o torpore (blocco a livello affettivo). Non afferrando il nucleo della proposta, il giovane non è in grado di scrutare la profondità dei significati vocazionali ma si interroga “a vanvera” sulla base di informazioni frammentarie come il riferimento a modelli, l’appartenenza al proprio gruppo, ruoli stereotipati o seguendo superficiali “secondo me…”(blocco a livello intellettivo).L’urgenza di dover concludere con una decisione produce ansia e non entusiasmo, per cui la volontà più o meno paralizzata tende a rinviare la scelta all’infinito(blocco a livello volitivo). Anche dietro alle crisi dei preti non è difficile individuare, come origine remota, la mancata presa in considerazione del nucleo sublime della vocazione, per cui alle prime difficoltà sulle clausole di attuazione ci si sente perduti perché già in precedenza privi del criterio interpretativo: dietro a problemi affettivi o a frustrazioni pastorali si nasconde, purtroppo, una atavica confusione a livello cognitivo, una sonnolenza a livello affettivo e una inerzia a livello volitivo.
Il piacere di viverla
Il piacere permanente di essere preti. Non la passeggera gratificazione. Il piacere è una soddisfazione che si ottiene dall’aver realizzato ciò che vale ed è sommamente amabile (è l’effetto della trascendenza di amore). La gratificazione è un appagamento che si ottiene quando qualcosa appaga perché ha colmato una previa mancanza (è l’effetto della trascendenza egocentrica).Qualcosa può gratificare (“ho tutto ma mi sento triste”) come qualcosa può dare piacere ma non gratificare (“nelle tribolazioni sono più che vincitore”). Si vede qui l’importante nesso fra capacità di provare piacere e resistenza alle tentazioni.
Un’altra differenza è la diversa valenza dell’oggetto a cui ci si relaziona. Nella gratificazione l’oggetto è attraente perché procura una reazione positiva: poiché piacevole quindi valido. Nel piacere lo stesso oggetto è attraente perché valido in sé: poiché valido quindi piacevole. Si vede qui l’importante nesso fra piacere e capacità di perseveranza nella vocazione.
Ancora, per ottenere gratificazione non basta sfruttare gli oggetti a proprio piacimento, manipolandoli a seconda dei propri scopi. Per avere piacere occorre usare quell’oggetto nel corretto rispetto della pienezza che ad esso è propria e che è definita dalla sua natura (azioni impulsive, immediate, reattive appagano ma non fanno gioire). Si vede qui l’importante nesso fra piacere e rispetto del contenuto oggettivo dei valori sacerdotali.
Infine, una azione è piacevole quando, oltre a ricercare il suo oggetto specifico, è vissuta anche come tramite per l’elaborazione di un progetto più grande che la supera. Si vede qui l’importante nesso fra piacere e progettazione pastorale[15].
Come esempio di piacere riporto questa confidenza di un prete di 39 anni: “Molti ideali che negli anni giovanili tenevo per irrinunciabili ora sono miti irrisori. Non per sopraggiunto scetticismo o ironia ma perché nel tempo ho scoperto cose ben più profonde di cui io stesso dovevo meravigliarmi. Dagli aspetti della vocazione a me noti sin dall’inizio, sono gradatamente emersi altri che emanano più senso e profondità tanto che mi sembrava venirmi incontro una vocazione differente da quello che avevo scelto entrando in seminario. Mi hanno stupito perché di essi non ne sapevo nulla ma ora comprendo quale pienezza racchiude davvero la vita e quale ombra sbiadita costituivano di essa le mie antiche giornate”. Con una certa vergogna mi fece anche vedere la fotografia della prima messa: ancora con i paramenti sacri, a destra aveva la televisione e a sinistra la nuova automobile regalategli dalla comunità.
Come il lettore avrà già notato, il piacere di vivere la sublimità richiede la convergenza fra le dinamiche spirituali del polo oggettivo (“a che cosa Dio chiama?”) e quelle psicologiche del polo soggettivo (“come la persona umana deve predisporsi a rispondere?”) in modo che la corretta presentazione del messaggio perenne si accordi con un terreno umano predisposto ad accoglierlo[16]. Questo intreccio è un compito e una sfida delle scuole per formatori che, appunto, non si fermano a informare ma pretendono di formare.
Per questa convergenza è utile che le scuole per formatori strutturino i loro programmi secondo due prospettive convergenti. La prima si preoccupa di “oggettivare” il soggetto umano ossia di individuare possibili strutture psichiche (quindi transculturali e transituazionali) di accoglienza del mistero presenti umano che aspira a trascendersi: si potrebbe dire che questa via sottolinea l’orientamento teologico della antropologia[17]. La seconda prospettiva presenta invece l’orientamento antropologico della teologia, cioè il fatto che Dio in Cristo è orientato verso la persona umana indicando a quest’ultima la via per predisporsi ad accogliere tale azione di grazia: la potremmo chiamare la strada che “soggettivizza” la oggettività della cui competenza la teologia detiene il primato[18]. Due prospettive convergenti perché lo scopo è quello di presentare la vocazione cristiana come “unione dinamica della grazia divina con la persona umana” intendendo con questa formula il fatto che la vocazione è attività “totalmente” di Dio ma anche “realmente” dell’uomo, il lavoro di Dio nel cuore della libertà umana ma anche il lavoro di quest’ultima che è chiamata ad amare nella sua accezione più tipicamente cristiana di capacità di stare davanti a Dio come partner dell’alleanza[19].
Di seguito presentiamo tre atteggiamenti interiori (con spunti sulle loro ricadute nella gestione concreta del vivere) che predispongono al piacere di essere preti e che sono validi sia per l’educatore che per l’educando. Essi sono: vivere alla luce del mistero, onorare il mistero, riconoscere il mistero[20].
Vivere alla luce del mistero
“Il consigliere pastorale (come ogni psicologo, anzi ogni uomo) è capace di accettare incondizionatamente le disposizioni psicologiche o i bisogni affettivi della persona. Ma, proprio nella misura in cui egli le ascolta e le comprende nella loro prospettiva religiosa, percepisce nello stesso tempo la distanza tra questi desideri e quelli che lo Spirito del Signore gli fa avvertire leggendo il vangelo: la legge non salva; il perdono è sempre offerto; la zizzania rimane a lungo mescolata con il buon grano; non la pace bensì la spada della lotta per i diritti dei poveri; chi è mio padre, mia madre o i miei fratelli se non coloro che costruiscono il regno della nuova alleanza? L’intervallo così percepito tra certi desideri, anche religiosi, e altri desideri o altre pratiche evangeliche, apre uno spazio cristiano per il consiglio propriamente pastorale: un invito ad analizzare la richiesta, ad approfondire il desiderio e a confrontarli con lo Spirito”[21].
1) Il pensare sapienziale. Per percepire questo intervallo occorre aiutare l’educando a passare da un pensare che constata e spiega ad un pensare che scruta e comprende. Il primo, ben esemplificato dal pensare tecnologico, si muove sul solo piano del fenomeno e quello vuole spiegare. Il secondo, ben esemplificato dal pensare sapienziale, sospetta che il piano del fenomeno (per essere capito non solo in termini di cause fisiche o psichiche ma di senso) rimandi ad un altro più profondo che del primo é il fondamento. Il pensare che spiega ci rende abili sulle cose ma è con il pensare che comprende che diventiamo anche saggi della vita.
La religiosità impoverita di cui parla Godin, quella che non percepisce l’intervallo, è anche il frutto di un affrontarla con il pensiero che spiega ma non comprende. Il prete impoverito si ferma alla riduzione soggettiva che lui ha fatto del credo senza passare a scrutarlo nel suo nucleo oggettivo più profondo. Riduce l’interiorità a luogo della soggettività anziché rispettarla come luogo del superamento di sé perché incontro fra soggettività e oggettività.
Questa povertà di pensiero è abbastanza riscontrabile nei nostri alunni di seminario: quando entrano in teologia, specialmente se già adulti o provenienti da gruppi dalla spiritualità molto caratterizzata, posseggono già una loro rappresentazione interiore di ciò che significa essere prete. Certamente si tratta di una encomiabile traduzione personalizzata del contenuto della vocazione ma – ecco il limite – a questa traduzione rimangono tenacemente ancorati e pongono resistenze se il seminario o le nuove conoscenze teologiche ne denunciano la parzialità se non addirittura la distorsione. Negli anni di seminario la loro attenzione continua ad essere occupata dalle loro personalizzazioni e fanno fatica a fare il passaggio al pensare sapienziale che permette alla loro interiorità di crearsi degli spazi veritativi dove non la loro traduzione della verità ma la verità stessa si rivela e a lei li riconduce. È anche la fatica del passare da una preghiera che si rivolge al Dio “secondo me” a quella più passiva e contemplante che lascia a Dio il permesso di dirsi.
Il frutto del pensare che scruta e comprende è l’uomo saggio che è tale perché capace di trascendere le forme soggettive che egli ha dato al suo esistere in favore del significato universale dell’esistere stesso. Più riesce, nei simbolizzati soggettivi, a cogliere questo strato ontologico più è saggio. La saggezza che comunicherà agli altri sarà il mistero della vita e solo accidentalmente la sua esperienza e i suoi pensieri. Non le sue idee, non la sua esperienza, neanche la sua capacità di sottomettere alle sue idee e alla sua esperienza, ma il saper comprendere e comunicare il mistero della vita è la sua grandezza. Con quel mistero la comunità si identificherà e lo riconoscerà anche come suo. Da notare, dunque, quanto sia importante il pensare sapienziale anche ai fini di diventare un buon leader di comunità.
2) Capacità di trascendere le traduzioni soggettive. “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino quando ci spiegava le scritture?” (Lc 24,32). Il cuore dei discepoli di Emmaus ardeva già nel momento del conversare con Gesù ignoto ma diventano capaci di riconoscere tale ardore solo a posteriori, quando Gesù stesso si rivelerà a loro. Nella conversazione “in diretta” con Gesù risorto ma a loro ignoto, del loro cuore avvertono solo la tristezza di una speranza delusa: “noi speravamo… ma sono passati tre giorni… alcune donne delle nostre sono andati al sepolcro ma lui non lo hanno visto”. In questo momento della esperienza sensibile ciò che avvertono essere l’oggetto del loro cuore è la delusione per una assenza, mentre già in esso vi abitava l’ardore per una presenza del quale avevano l’esperienza ma non ancora l’intelligenza. La delusione è la traduzione soggettiva del loro discepolato, la spiegazione che traggono dal loro vissuto ma non la profonda comprensione. Sanno leggersi in chiave psicologica ma non ancora alla luce del mistero, soltanto in base a quanto essi avvertono, sentono, vedono ma non in base a quanto c’è in loro oltre e nonostante il loro sentire psichico. La nuova lettura la fanno solo dopo. Dice infatti Gesù: siete “tardi” di cuore.
Osserviamo il paradosso del loro cuore abitato simultaneamente da un duplice oggetto: la delusione e l’ardore. Alle loro strutture psichiche quei discepoli danno un contenuto mentre la potenza del Cristo risorto dà alle stesse un contenuto diverso e opposto senza tuttavia annullare il primo. Una struttura alla quale si è dato tonalità di delusione, contiene anche tonalità di ardore. Capita così che alla vita vissuta noi diamo una certa forma espressiva mentre Dio si serve della stessa vita vissuta per infonderle un’altra forma espressiva. Accorgersi di questo è leggersi alla luce del mistero. Per questa lettura non basta il pensare tecnologico che, con la sua tendenza ad analizzare solo le traduzioni soggettive decurtate delle loro radici, fa vivere il momento del dettaglio come se fosse il momento della totalità. Rende tutto troppo vicino e quando tutto è troppo vicino non si riesce a scorgere e a godere nella parte la presenza dell’intero.
3) Lo studio della teologia. Lo strumento che stimola il pensare sapienziale è lo studio della teologia, a patto però che la descrizione che essa ci fornisce della vocazione non venga presa come semplice auspicio augurale ma come resoconto di una realtà già presente nel chiamato sia a livello del suo io attuale che ideale. In quanto descrittiva dell’io attuale, la teologia sensibilizza a cogliere nella vita vissuta del chiamato i segni della presenza del mistero a partire dalla risposta già attuata. In quanto descrive l’io ideale, sensibilizza a cogliere nella stessa nuovi e ulteriori appelli al dover essere.
Sappiamo tutti che le verità teologiche non sono affermazioni statistiche (quelle, cioè, che non escludono la possibilità dell’opposto ma solo la sua probabilità). Non sono però neanche semplici verità utili ossia capaci di rendere conto di un fenomeno che può tuttavia essere spiegato anche con altre verità diverse se non addirittura opposte. Il pensare teologico non richiama semplicemente il modello della coerenza ma quello più stringente della corrispondenza. Secondo il primo, una verità è tale perché collega in modo comprensibile e logico dei fatti che altrimenti resterebbero illeggibili. Secondo il modello della corrispondenza la verità è anche formulazione di ciò che di fatto esiste: corrispondenza, appunto, fra significato attribuito ad una realtà e sua intrinseca essenza. Per il modello della coerenza possono esistere diverse letture e interpretazioni più o meno plausibili dello stesso fenomeno mentre la verità come corrispondenza ha la pretesa di descrizione oggettiva perché intende descrivere ciò che esiste. È la differenza che esiste fra il dire “è così perché è pensato così” ed “è pensato così perché é così”. Quanto le verità teologiche sono da noi prese come corrispondenti e non solo coerenti?
Un esempio di svisamento del concetto di verità teologica. Un prete aveva in direzione spirituale una ragazza coinvolta in una relazione sentimentale di eccessiva dipendenza di lei e altrettanto forte dominazione da parte del suo ragazzo. La ragazza stessa avvertiva il rapporto come peso ma non riusciva a correggerlo per paura di essere lasciata. Il direttore spirituale le dice che una relazione siffatta è a rischio perché “il vero amore si fonda sulla reciproca condivisione”. La ragazza risponde: “lei lo dice perché è prete, ma per me Dio non è così importante”. Quel prete indietreggiò e non seppe più cosa dire. Si lasciò intimorire perché il suo dire, per lui stesso ancor prima che per la ragazza, era una verità solo coerente. Se l’avesse ritenuta verità corrispondente avrebbe dovuto replicare: “non è la mia ideologia che lo dice ma la stessa vita pratica e se anche tu ascoltassi in profondità il tuo cuore ti accorgeresti che è fatto per condividere e non per essere succube”. Ricordando che la relazione richiede condivisione, quel prete lo dovrebbe fare con la consapevolezza che il suo dire sta dando voce ad una esigenza realmente presente in quella ragazza che, oggi inevasa, si fa avvertire come frustrazione.
Senza saperlo, anche i nostri studenti possono avvicinarsi alla teologia con la mentalità postmoderna per la quale non si deve più intendere il concetto di conoscenza e di verità in termini di conformità con il modo in cui le cose sono, per cui alla vecchia metafora dell’avvicinarsi sempre più, da parte del sapere, all’essenza delle cose, ora si sostituisce la metafora della sua utilità a fini pratici (utilità che non si misurano su principi di fedeltà ad un valore oggettivo ma di opportunità)[22]. Con questa premessa lo studio vale se offre vantaggi immediatamente operativi ma inutile se “si perde” nell’indagare sull’essenza delle cose. Quando i contenuti non contano più, la tecnica diventa il criterio supremo[23]. Lo studente studia per l’esame ma sottopone gli autori studiati ad una anestesia estetica che li colloca nella categoria dei letterati o dei poeti e non in quella degli scrutatori della realtà più profonda del mistero.
Onorare il mistero
1) La mediazione storica. Come detto più sopra, vivere con consapevolezza la propria vocazione non comporta soltanto tradurla in risposte personalizzate (io attuale) ma anche percepirne la caratteristica di “oltre” (io ideale). Da attuare ma anche da onorare. Per attuarla occorre fare ricorso alla nostra buona volontà. Per onorarla ci vuole una facoltà di tipo diverso.
Parlando delle modalità di apprendimento dei valori P. Henrici distingue fra mediazione logica e storica[24]. La mediazione logica è il frutto del nostro sentire, pensare e volere. Noi ne siamo i protagonisti dato che siamo noi ad attribuire a qualcosa la caratteristica di valore. Con la mediazione storica, invece, è il valore che si impone a noi come valore e il nostro dirlo obbedisce ad una affermazione che già si imponeva a noi. La mediazione logica è il prodotto del nostro giudizio, quella storica è anteriore a qualsiasi pensiero mediatore. Una è il rovescio dell’altra: quella logica è la nostra risposta, quella storica è l’appello che insinua in noi tracce di se stesso. Si può perciò dire che le mediazioni logiche sono corrette quando esprimono quelle storiche esistenti prima e indipendentemente dalle mediazioni logiche e si può legittimamente sostenere il già citato modello di verità come corrispondenza. Possiamo applicare il concetto di mediazione storica alla forma espressiva del mistero che si attua in noi in forza del mistero stesso e non per nostra iniziativa e dire che è per mediazione storica che il cuore dei discepoli di Emmaus conteneva la presenza di un ardore nonostante le deludenti conclusioni delle loro mediazioni logiche. Mentre con le mediazioni logiche noi apprendiamo come rispondere alla chiamata di Dio, grazie a quelle storiche siamo condotti a percepire il Dio che chiama. Ecco perché diciamo che l’evento di salvezza si attua in noi prima e al di là del nostro pensarlo e preme per ottenere riconoscimento e risposta. Rispondiamo a Dio non solo con il movimento attivo della nostra riflessione e volontà ma anche con un procedimento passivo grazie al quale il nostro cuore ‘viene appreso’ da Dio che, come la luce, si fa percepire senza nessun ragionamento. Anzi, il dialogo vocazionale inizia proprio da questo momento di passività umana, quando “Dio incomincia a parlare nel nostro intimo senza alcun rumore di parole, solleva la nostra anima al suo amore, donandoci una percezione di se stesso, così che, anche se lo volessimo, non potremmo porgli resistenza”[25] ;[26]. Di questa mediazione storica noi tutti abbiamo esperienza nel momento del dubbio: la coscienza ci rassicura delle nostre decisioni come scelte giuste e ragionevoli eppure qualcosa in noi ma che non è da noi ci suggerisce che è meglio non farle perché non ne rimarremo contenti; altre volte facciamo progetti senza il trasporto dell’entusiasmo e all’idea di attuarli ci sembra quasi di morire, eppure li eseguiamo perché avvertiamo che così facendo seguiamo quel fatto misterioso, silenzioso e incomparabile che chiamiamo Dio e la sua volontà. Mentre con la mediazione logica io mi dico qualcosa, quella storica mi dice qualcosa d’altro.
2) Due vie. Per vivere la vocazione abbiamo, allora, a disposizione due vie: la via “scopritiva” della mediazione logica e quella “rivelativa” della mediazione storica. La via “scopritiva” è la via della mente che trova e della volontà che risponde: via che formula, pianifica, attua. La via “rivelativa” è la via del cuore che riceve: si fa accoglienza, rispetta e attende. Con la via “scopritiva”, che usa il pensare sapienziale, ci impegniamo perché il nostro operare non sia semplice risposta al qui e ora ma al mistero che è in noi. Con la via “rivelativa”, che usa l’onorare, ci impegniamo per lasciare spazi al mistero che è oltre di noi. Che le due vie siano diverse ce lo attesta la stessa esperienza: quando riusciamo a distrarci dai nostri risultati (e dai nostri errori) ci accorgiamo che il mistero stesso in noi preme per farsi conoscere in modo indipendente e a volte diverso dal nostro pensarlo. Qualche volta converrebbe esaminare quelle aree della nostra vita che secondo noi non sono mediazione o nelle quali ci sembra che Dio sia assente. Non sono mediazioni logiche ma forse rimangono come mediazioni storiche. Da noi considerata materiale di scarto, permane, nascosta e da noi rinnegata, la scintilla dell’amore divino che si serve anche di quel materiale per scuoterci. E se riuscissimo per magico incantesimo a liberarci di quel materiale, scomparirebbe l’ostacolo della mediazione logica ma anche l’appello di quella storica svanirebbe. Quel materiale di scarto è tale perché forse ci fa sospettare un nuovo volto di Dio che non vogliamo incontrare, che a noi si presenta come Lui vuole e non come vogliamo noi ed è proprio per questa nostra indisponibilità a lasciare che Lui si presenti come vuole Lui che ci arrovelliamo. Da notare la convergenza. Il pensare e il dedicarsi, già menzionati come strumenti privilegiati di accesso all’interiorità dell’educando, sottendono processi simili a quelli della via “scopritiva” e “rivelativa” qui considerati come strumenti privilegiati che l’educando usa per onorare il mistero. Si può perciò dire che dal modo con cui l’educatore si relaziona al soggetto, anche costui imparerà a relazionarsi alla propria vocazione.
3) La giusta frustrazione. La strada “scopritiva” e “rivelativa”, purtroppo, non sempre coincidono. Le mediazioni da noi pensate non necessariamente sono quelle usate da Dio. Pur servendosi di strutture umane, il mistero si incarna in esse come oggetto differenziato rispetto agli oggetti che noi vi abbiamo messo. Il seminarista che dà il merito della sua vocazione alla lotta contro il suo contesto familiare ostile o all’aver rinnegato il proprio passato, non sospetta che è anche grazie a quella storia familiare e personale che l’idea della vocazione si è fatta strada nel suo animo e quella storia da rinnegare è in realtà storia di salvezza perché se in quella storia per lui è difficile andare verso Dio è attraverso quella che Dio è venuto verso di lui. È un disincanto abbastanza frustrante al quale bisogna abituarsi. Se poi ricordiamo che la vocazione, essendo mistero sempre oltre, è realizzabile ma non esauribile, ci accorgiamo che in essa è inevitabilmente insito un aspetto frustrante anche per un secondo motivo: al suo raggiungimento si associa l’astinenza.
Sempre in posizione di libertà nei nostri confronti, la vocazione esige da parte nostra intimità e discrezione. Onorare la vocazione è avere discrezione e, di conseguenza, la disponibilità ad allenarsi a sostenere la frustrazione della dialettica vocazionale fra risposta e progetto, realizzazione e disincanto, invenimento e rivelazione.
Riconoscere il mistero
Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. L’antico motto ci ricorda che la coscienza umana nel momento in cui accoglie i valori li interpreta soggettivamente e a volte li distorce.
Anche i valori spirituali vengono recepiti da una unica coscienza che rimane umana. Per rispondere ad essi prendiamo informazioni dalla natura dei valori stessi ma anche dal nostro vissuto previo (passato, carattere, educazione, ambiente…). Non è dunque ipotizzabile una netta corrispondenza fra messaggio accolto e ricezione soggettiva. Per questo può capitare che i valori di trascendenza anziché suscitare corrispondenti sentimenti di gioia e piacere provochino sentimenti di rigetto o almeno di resistenza e che l’amore faccia paura mentre il vizio attrae. Se nell’ “uomo nuovo” ci fosse una facoltà esclusivamente spirituale, vaccinata contro le interferenze dell’ “uomo vecchio”, i movimenti provenienti dallo spirito sarebbero sperimentati in modo qualitativamente diverso da quelli provenienti dalla natura e quindi facilmente differenziabili perché recepiti da due facoltà ben distinguibili. Invece capita che l’angelo delle tenebre ci appaia come l’angelo della luce, il bello ci appaia brutto e il brutto attraente. Per riconoscere il mistero si rende necessario il discernimento.
1) Discernere le motivazioni. La suddetta continuità fra vita spirituale e vita psichica non è solo motivo di distorsione ma anche il luogo dell’invenimento del mistero. Dio dialoga con noi con interventi miracolosi ma più comunemente usando il tramite del nostro previo patrimonio esistenziale.
Il discernimento si chiede pertanto: dove troviamo il mistero? Può essere ritrovato negli accadimenti psichici in modo da tradurlo in termini osservabili e, per così dire, osservarlo in laboratorio? Nell’io umano esistono dei segni che riflettono la dimensione del mistero ma che tuttavia scaturiscono e appartengono alla realtà concreta della persona singola che si sviluppa? Se questo è possibile, il mistero da enunciato filosofico diventa realtà concreta e descrivibile e, d’altra parte i dati psichici concreti da semplici constatazioni, acquistano profondità grazie al collegamento con il mistero. La risposta è affermativa[27]. È nel mondo dei significati, delle intenzionalità che si verifica l’incontro dell’individuo concreto con un orizzonte trascendente che è auto-rivelazione ma anche scoperta.
Discernere significa dunque acquisire la capacità di leggere l’insieme del nostro mio operare non solo come un susseguirsi di strategie per far fronte a situazioni contingenti ma come frammenti di una unica risposta a Dio che quelle strategie concretizzano ma non esauriscono perché quella risposta a Dio è concomitante eppure trascendente le singole operazioni ma è il rimando ad essa che rende intelligibile il livello dell’operare concreto che altrimenti sarebbe vissuto in modo falsificato. Come dice Imoda, se viviamo con spirito aperto alla meraviglia e allo stupore, ci accorgiamo che il nostro operare non si ferma a ricercare ciò che gli è dovuto, che la nostra vita che non è un banale cammino da A verso B come una linea che congiunge due punti presi a caso, ma scopriamo che ogni ricerca immediata è un frammento in cui mediamo la ricerca di ciò che vale.
2) La lettura psico-spirituale del proprio vissuto. Quando la voce del mistero usa il tramite del nostro vissuto, lo fa rispettando (non violando) le leggi che governano quel tramite. Parafrasando s. Tommaso potremmo dire che il mistero si serve della natura inferiore per esprimere quella realtà che in tutta la sua pienezza compete alla natura superiore[28].
La vita è insieme biografia psichica e. Non due ma una sola trama dai due risvolti. Chi ci aiuta a leggerla insinuando il sospetto che ci sia dell’altro rispetto a ciò che noi già abbiamo colto, soprattutto se si tratta di una biografia scomposta o non ancora convertita? Come fare perché la vita non sia il luogo dove le esperienze si rattrappiscono nel loro carattere di problema da risolvere ma rimanga una occasione di crescita nella manifestazione della realtà del mistero da onorare? Chi ci aiuta a non bloccarci nelle nostre risposte personalizzate ma a chiederci se per caso esse non suggeriscano anche altre e nuove risposte. Ecco perché occorrono degli ché educatori formati
Due esempi.
Un prete si accorge che da qualche tempo fa fatica a recitare il breviario e sempre più spesso lo tralascia. Lui stesso se ne meraviglia conoscendo la sua particolare sensibilità al senso del dovere. Con questa antica arma cerca anche ora di ricomporre il disordine. Ma il breviario rimane inesorabilmente chiuso. Più a ricomporre il disordine, il suo direttore spirituale lo porta ad affrontarlo come segnale di un passo spirituale ulteriore compiere. Messo sulla buona strada, quel prete capisce che il breviario chiuso gli segnala che il tempo dell’osservanza è finito e inizia quello di personalizzare ulteriormente la sua risposta vocazionale per riaprire il breviario deve passare dal la logica del dovere a quella della convinzione. Per lui è arrivato il momento scoprire che il sacerdozio non è un ruolo da espletare ma un cammino di progressiva donazione: verità già studiata mille volte fin negli anni di teologia ma ora da rendere parte integrante di sé, qualcosa spirituale che diventa personalmente conosciuta e non intellettualmente nota. Capisce, allora, che la difficoltà della preghiera sottende vaghi sospetti che da qualche tempo attraversano la sua mente: davvero Dio mi basta ancora? Perché stare con lui dato che non lo vedo agire? Perché continuare nella sterilità dei risultati?…. Il problema non è (solo) riaprire il breviario ma inserire nel proprio sacerdozio una dimensione di intimità finora in ombra di cui il breviario chiuso segnala essere venuta l’ora.
Un seminarista riscontra di avere difficoltà nel campo della castità ogni qual volta si sente costretto a subire la volontà altrui: defraudato della sua autonomia nella vita pratica perché obbligato ad obbedire, la ricupera nella fantasia dai ricorrenti contenuti sessuali dove lui si immedesima nel ruolo del conquistatore e regista. I poli in lotta sono, certamente, la debolezza di controllo e l’ideale di castità ma, più profondamente, il conflitto è fra il mantenersi la propria autonomia e l’invito a fare di se stesso un dono oltre ogni limite. Dio non lo sta interpellando a livello di impulsi ma a quello più impegnativo di rinuncia all’autonomia ed è con questo bisogno e non solo con quello sessuale che questo seminarista deve mettersi di fronte a Dio. Il suo vero pericolo non è il cedimento sessuale ma quello più subdolo e radicale di ricuperare la strada della tutela di sé proprio quando Dio gli prospetta un più intimo incontro[29].
3) Favorire esperienze di trasformazione.
Il rettore, il padre spirituale e l’insegnante, pur nella differenza di ruoli e competenze, devono aiutare l’alunno a fare discernimento. Non basta distinguere la vera dalla falsa vocazione e neanche saper differenziare il bene dal male. In aggiunta occorre aiutare l’alunno a viversi alla luce del mistero che è in lui e davanti a lui. È il discernimento come notare l’azione di Dio in noi (la via “rivelativa” della mediazione storica) e rispondere a questa azione per realizzare progressivamente l’unione con Dio e l’imitazione di Cristo (la via “scopritiva” della mediazione logica).
Questo tipo di discernimento dovrebbe produrre nell’alunno un cambiamento radicale del suo orizzonte di vita intendendo per orizzonte la cornice interpretativa entro cui svolge consciamente o inconsciamente la sua vita e dalla quale dipende perché queste e non altre sono le sue scelte preferenziali.
Escluso il caso più grave di impermeabilità, il seminarista si può lasciare influenzare limitatamente all’ampliare il suo previo orizzonte, ma non per trasformarlo. In questo caso acquisisce approssimazioni ma non personalizzazioni, abilità di ruoli ma non stili di vita. Incamera le nuove informazioni nel suo previo orizzonte di vita che già costituiva l’ambito dei suoi interessi. Lo esplicita meglio, lo sottopone ad un allargamento orizzontale. Ma non fa un passaggio verticale che gli permetta di passare ad un nuovo orizzonte qualitativamente migliore del precedente non solo perché arricchito di nuovi oggetti di interesse ma di nuovi criteri per valutare gli oggetti di sempre.
Quando invece il seminarista acquisisce un orizzonte diverso, allora incomincerà a valutare in modo diverso e, di conseguenza, anche a sostenere decisioni e azioni diverse rispetto alla stessa e identica realtà (spirituale e pastorale) che però viene ora diversamente affrontata. Incomincerà a passare dal guardare al vedere, dal prendere come guida non la prassi ma il significato mediato dalla stessa. Lo stesso credere trova un terreno soggettivo recettivo diventando altamente provocatorio perché capace di orientare non solo l’esperienza ma l’intelligenza stessa nel suo momento di porre l’esperienza prima ancora della successiva valutazione di essa. Questo dovrebbe essere il frutto della educazione al mistero. Per ottenere questo frutto occorre che la persona si metta in discussione. Troppo spesso ci si accorge con stupore che il seminarista non si serve del sapere appreso a scuola per la sua vita spirituale o per organizzare i primi compiti pastorali. Non si serve neanche del sapere più facilmente traducibile nelle sue attività come, ad esempio, lo studio della teologia biblica. Vediamo il giovane prete che archivia i libri e si fa guidare nella prassi dai sussidi pronti all’uso, dalle consuetudini (non sempre adeguate ai tempi), dal contesto in cui va ad operare o dalla spiritualità personale che già aveva prima dell’entrata in seminario e non sottoposta nel frattempo a vaglio critico. Perché questa scissione fra sapere teologico e attività pastorale? Anche perché nella sua vita non si è realizzata ciò che si chiama la conversione, intesa proprio come acquisizione di criteri qualitativamente superiori nella valutazione della stessa identica realtà di prima, emergenti dal fatto che il soggetto si è situato in un orizzonte qualitativamente nuovo e più comprensivo della realtà stessa.
Se il legame teoria-prassi non passa attraverso l’io della persona che nel frattempo è rimasto disattivato, il mancato uso pastorale di ciò che è stato appreso non deriva solo dalla difficoltà di coniugare oggettività e situazione ma dal non riuscire a leggere il vissuto soggettivo come luogo di mediazione del mistero, per cui, di conseguenza, l’oggettivo – già inoperativo nell’io della persona – lo sarà anche nella prassi.
Il lasciarsi toccare nella propria personalità ha delle ricadute pressoché automatiche sulla capacità di sostenere il dialogo fra le antropologie di cui si è detto sopra. Infatti, chi è capace di discernere il mio orizzonte di vita, è anche capace di cogliere l’orizzonte di vita del suo interlocutore. Viceversa, chi è distante da sé necessariamente è distante anche dagli altri. Capita che il seminarista abbia imparato a fare il catechismo ma non abbia capito pressoché nulla della mentalità dei suoi ragazzi (si limita cioè a fare esperienze di role taking) e a differenza del buon samaritano fa un servizio all’altro ma non “gli andò incontro, lo vide, lo guardò nel volto e ascoltò il suo cuore”. Perché l’incontro di interiorità avvenga, occorre che il seminarista eserciti i suoi ruoli come una palestra che lo obblighi al confronto con antropologie diverse dalla sua e lo stimoli ad una seria analisi della propria e altrui antropologia (specialmente quando non sono omogenee) e quindi a motivare la propria e a riflettere sulla altrui.
I due movimenti del discernere
Le due capacità di notare e rispondere, richiedono i due movimenti della libertà che F. Imoda vede implicati nel dinamismo della crescita[30].
Con un primo movimento di ascesa la libertà si innalza dai beni particolari al Bene: attraverso la realizzazione di beni particolari la persona cerca di trascendersi per servire il Bene che cristianamente inteso non è un ideale astratto ma la persona di Cristo. Si tratta di un movimento di ascesa perché cercando il Bene nei beni aumenta il grado di libertà dell’io. Grazie a questa ascesi l’intenzionalità del soggetto si purifica perché analizzata alla luce dello Spirito e il suo agire diventa più terso perché il dono di sé e il servizio ai beni vengono realizzati nell’orizzonte di fondo della carità divina. A questo momento di ascesi della libertà corrisponde il discernimento come partecipazione: si impara a notare nell’agire concreto segni e tracce di una ricerca religiosa. “Il movimento ascendente della libertà si esprime soprattutto nella istanza di partecipazione dove viene postulata la ricerca di trascendenza e ne viene investigata la presenza, come per analogia, in ogni cosa. Il discernimento che deriva da questa prima istanza verifica se e fino a che punto è possibile collegare la realtà concreta osservata, al trascendente; si chiede, per esempio, se e come il grido sia una preghiera, se e come la domanda di pace e di giustizia sia anche una ricerca di Dio, se e come una lotta contro determinate forze ed ostacoli possa essere una lotta con Dio. Si cerca in qualche modo, di cogliere la “partecipazione” di ogni fenomeno o realtà concreta al mondo del trascendente”[31].
Con un secondo movimento di discesa, la libertà realizza il Bene attraverso concretizzazioni parziali buone. È discesa perché si tratta di vedere quanto la ricerca del Bene sommo è autenticamente rispettata nella ricerca dei beni particolari. Le scelte particolari ricercano finalità ad esse specifiche, sono anche attuazioni parziali della unica volontà di rispondere con la vita al Bene sommo. Tramite la concretizzazione di beni parziali è il Bene sommo ad essere onorato. È il discernimento come purificazione: la risposta religiosa attuata non viene presa a scatola chiusa ma sottoposta a critica per la possibile presenza di elementi che la rendono meno vera di quanto potrebbe essere. Con questa via si accetta di sottoporre a verifica il proprio vissuto concreto per scoprire e distinguere quello che è veramente segno di trascendenza teocentrica da ciò che appartiene ad altri orientamenti non situabili nell’orizzonte di fondo. Mentre l’istanza di partecipazione cerca le tracce del divino in ricerche umane, quella di purificazione cerca residui umani in ricerche del divino. Il movimento ascendente esprime il desiderio di ricercare Dio sopra tutte le cose e quello discendente l’esigenza di trasparenza personale[32]. Con questi due movimenti dell’animo, si arriva a cogliere con un pensiero non contemplante, ciò che propriamente è accessibile solo alla contemplazione spirituale.
L’ampliata libertà di notare e rispondere, iniziata negli anni del seminario, favorirà un processo, durevole nel tempo, di ulteriore ampliamento della propria disponibilità interiore a trascendersi teocentricamente e di ulteriori e sempre più innamorate risposte.
Note
[1] CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Direttive sulla preparazione degli educatori nei seminari, 4 Novembre 1993, in L’Osservatore romano, 12-1-1994.
[2] Ib. nn. 1, 60-64.
[3] Ib. nn. 41-42.
[4] Ib. nn. 12, 25, 36.
[5] Ib. nn. 33-34.
[6] Ib. n. 57.
[7] Ib. nn. 57-59.
[8] Ib. nn.12, 73-75.
[9] Qui stiamo parlando dell’empatia che è l’opposto della proiezione che trasferisce la nostra realtà psichica in quella dell’altro. Cfr. G.W. PIGMAN, “Freud and the history of empathy” in International Journal of Psychoanalysis 76, 1995, pp. 237-256.
[10] B.J.F. LONERGAN, Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975.
[11] L.M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana I: Basi interdisciplinari, Dehoniane, Bologna 1997, p. 192 (edizione precedente: Piemme, Casalemonferrato 1985).
[12] La triplice distinzione è di LONERGAN, Il metodo op. cit., pp. 251-261.
[13] Per l’approccio alla vocazione come educazione al mistero si veda il documento (specialmente al n. 35) della PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 8 Dicembre 1997, a conclusione del Congresso su «le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa» (Roma 5-10 Maggio 1997), in Osservatore Romano, 28-11998 o in Regno Documenti, 5, 1998, pp. 142166.
[14] F. IMODA, Sviluppo umano; psicologia e mistero, Piemme, Casalemonferrato 1993, p. 373. Il volume contiene un’ampia trattazione psicologica della vita come mistero e a quello rimandiamo per l’approfondimento dell’approccio usato in questo articolo.
[15] Una recente tesi di dottorato all’Istituto di Psicologia dell’Università Gregoriana di Roma ha dimostrato sperimentalmente che i soggetti in vocazione che presentano inconsistenze vocazionali centrali tendono, oltre che a distorcere maggiormente il messaggio evangelico, anche a non percepire l’aspetto attraente dello stesso con conseguente difficoltà ad integrare il momento estetico nella vita dello spirito. Cfr B. DOLPHIN, The values of the gospel: personal maturity and the matic perception, doctoral defence, Pontifical Gregorian University, Rome, 1991.
[16] A. MANENTI, “I fondamenti antropologici della vocazione cristiana”, Seminarium,1,1996, pp. 21-34.
[17] Questa strada è analizzata in L.M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana, vol. I, op. cit., e in L.M. RULLA, F. IMODA, J. RIDICK, Antropologia della vocazione cristiana, II: Conferme esistenziali, Piemme, Casalemonferrato 1986. Sul contenuto di queste opere vedi L. RULLA, Psicologia e formazione sacerdotale: premesse per un dialogo, Seminarium, 3, 1978, pp. 438-459.
[18] Questa strada è analizzata in L.M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana, III: Aspetti interpersonali, Dehoniane, Bologna 1997, pp. 229-487.
[19] W.W.MEISSNER, Foundations for a psychology of grace, Paulist Press, Glen Rock, New Jersey, 1966; T.J. DEIDUN , New Covenant morality in Paul, Biblical Institute Press, Rome 1981.
[20] Questi tre aspetti costituiscono l’orizzonte di lettura sotteso al metodo pedagogico proposto dal “corso per la formazione dei formatori nei seminari” (CIFS) della Pontificia Università Gregoriana di Roma e dall’Istituto Superiore per Formatori» collegato all’istituto di psicologia della stessa.
[21] A. GODIN, “Ascolto e consiglio”, in AA.VV., Iniziazione alla pratica della teologia, a cura di B. LAURET e J. REFOULÉ, vol.5: Pratica, Queriniana, Brescia, 1986, 48-78, p. 66 (corsivo nell’originale).
[22] R. RORTY, “Pragmatism”, in International Journal of Psychoanalysis, 81, 2000, pp. 819823.
[23] Su questo pericolo anche per la pastorale vedi J. RATZINGER, Svolta per l’Europa, Paoline, Milano 1992, p. 21ss.
[24] P. HENRICI, “La médiation philosophique des valeurs”, in Gregorianum, 74, 1993, pp. 515541.
[25] Lettera di S. Ignazio di Loyola alla sorella Teresa Rejadella, citata in K. RAHNER, L’elemento dinamico nella chiesa; quaestiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1970, p. 137. 26) Appaiono dunque di grande modernità certi passi di S. Tommaso: “Spiritus autem sanctus sic nos ad agendum inclinat ut nos voluntarie agere facet” (Contra Gentes, IV, 22 ) e di S. Agostino “Operamur et nos: sed illo operante cooperamur, quia misericordia eius prevaenit nos” (De natura et grazia, 31, 35, PL 44, 264), “Certum est nos facere, cum facimus; sed ille facit ut faciamus… qui dixit, faciam ut in iustificationibus meis ambuletis” (De gr. et Lib. arbitr. 16, PL 44, 900). 27) Cfr IMODA, Sviluppo umano… op. cit., pp. 1737.
[28] S. TOMMASO, De Veritate, Q. 14, a.1, ad 9.
[29] Come si vede l’interpretazione delle due situazioni ricorre a concetti psicologici usati non ai fini di una semplice diagnosi o terapia ma come strumenti interpretativi che facciano risaltare le connessioni fra dinamiche psichiche e spirituali. Sul ruolo della psicologia nella formazione alla maturità vocazionale sono chiarificatori gli articoli di L.M. RULLA, P. VALORI, G. VENTURI, J. AUBERT e P.M. QUAY in Seminarium, 3, 1978 come anche lo studio di T. COSTELLO, “The use of psychology as a aid to priestly formation”, Seminarium, 4, 1992, pp. 629-636. e quello di F. IMODA, “Aspetti del dialogo tra le scienze umane e pedagogiche e la dimensione teologica”, Seminarium, 1, 1994, pp. 89-108. Per una conoscenza del cammino di progressiva integrazione fra contributi psicologici ed esigenza della maturità umana così come viene pensata nei documenti magisteriali si può vedere A. ORCZYK, Il rinnovamento della formazione seminaristica. Dal decreto Optatam totius ai successivi documenti della Congregazione per l’Educazione Cattolica, LAS, Roma 1997.
[30] IMODA, Sviluppo umano… op. cit. pp. 317-321
[31] IMODA, Sviluppo umano…, op. cit., p. 318.
[32] Su questi due movimenti da Imoda individuati a livello psicologico c’è un’interessante convergenza con la prospettiva filosofica di J. DE FINANCE, Cittadino di due mondi. Il posto dell’uomo nella creazione, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano, 1993, dove l’autore individua la duplice appartenenza nella lettura ascendente (pp. 31- 101) e in quella discendente della persona umana (102-174), entrambe costituenti l’orizzonte prossimo mentre quello di fondo (pp. 175-215) è l’orizzonte specifico della fede.