N.06
Novembre/Dicembre 2001

Elezione, vocazione e santità nel prescritto della lettera ai Romani

 

 

 

Testo di Rom 1,6-7

1 Paolo servo di Cristo Gesù chiamato apostolo separato per il vangelo di Dio 

2 che già aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle scritture sante 

riguardo al Figlio suo nato dalla stirpe di David secondo la carne

4 costituito Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santità dalla resurrezione dei morti, Gesù Cristo il Signore nostro

per il quale abbiamo ricevuto grazia e apostolato per l’obbedienza della fede in tutte le genti per il suo nome

6 tra i quali anche voi chiamati di Gesù Cristo

a quanti sono in Roma prediletti da Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio padre di noi e dal Signore Gesù Cristo

 

 

1. Introduzione e contesto prossimo di Rom 1,6-7

Trovandosi a Corinto, ed inserito intensamente nella vita ecclesiale di quella comunità, Paolo, Apostolo delle Genti, sente il bisogno di scrivere una lettera di autopresentazione ai cristiani di Roma per “vedervi, per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io” (1,11s). L’amore di Cristo è elemento propulsore che spinge dall’interno Paolo ad un’azione missionaria, il pensiero continuo all’amore con cui Cristo ci ha amato esalta ed infiamma la paternità dell’Apostolo fino a farlo vivere solo per il Signore e annunciarlo a tutti gli uomini (cfr. 2Cor 5,14-17).

Si comprende così perché nell’indirizzo (praescriptum) della Lettera inviata appunto ai Romani (1,1-7) l’apostolo si presenta come “servo di Cristo Gesù (doulos Christou), apostolo per vocazione (klétos apostolos), separato per annunciare il vangelo di Dio (aphórismenos eis euaggelion Theou)” (1,1), titoli che Paolo si attribuisce per descrivere la sua persona come completamente orientata, nel senso dell’essere e dell’agire, al Signore Gesù.

Alla fine del medesimo indirizzo (vv. 6-7) Paolo designa i fedeli di Roma con tre titoli che si raccordano contenutisticamente con quelli con i quali si era presentato e formano con quelli un’inclusione letteraria e teologica. Infatti i cristiani sono così descritti: “ chiamati di Gesù Cristo (klétoi Iésou Christou)… diletti di Dio (agapetois Theou) e chiamati santi (klétois hagiois)…”.

 

 

Pur con le dovute diversità, il cammino che il Signore fa percorrere a Paolo si ripete anche in quello voluto per ogni fedele. È opportuno enucleare il contenuto di questi titoli e vedere come essi svelano il progetto d’amore che Dio ha su ogni uomo e come ogni uomo trovi la sua gioia nel rispondere ad esso.

 

 

 

 

2. Vocazione di Paolo

 

a) “Servo di Gesù Cristo (doulos Christou) ”

Prima di ogni altra descrizione Paolo si sente “servo di Gesù Cristo”, alla lettera è “schiavo di Gesù Cristo”. Probabilmente l’espressione non designa tanto l’indegnità della persona che si mette a servizio o l’autoritarismo con cui Dio si impone, piuttosto evoca la nobile figura dello ‘ebed Yahweh, “servo di Dio”; l’espressione, usata nel Primo Testamento per Mosè (Es 14,31; Nm 12,7; Sal 105,26), i profeti in genere (Ger 25,4; Dn 9,6.10; Am 3,7), denota l’autorità che Dio conferisce a questi personaggi quali messaggeri accreditati del Signore. È quindi un titolo di dignità che presenta l’accondiscendenza divina, l’elezione e non mette in rilievo tanto la servitù quando la strumentalità, il fatto che Dio si compiace di lavorare mediante i suoi servitori. Significativo che in 1Cor 7,22 la parola “schiavo” designa i cristiani in generale.

Possiamo anche pensare che Paolo si serva di questo titolo come riferimento al sigillo nuziale di appartenenza come nel Cantico dei Cantici (cfr. 8,6), che esalta la relazione con Dio presentandola come dinamica di amore fedele e totale nella prospettiva del libero dono di se stesso al quale il Signore invita. Nel libero dono di amore al Signore il servizio non umilia, ma esalta la persona che coglie in esso la possibilità tangibile di restituire lo sguardo di accondiscendenza divina. Come in Maria SS. che sentendosi guardata dall’amore di Dio (Lc 1,48), risponde con l’offerta di se stessa come servizio di amore (Lc 1,38).

 

b) “Chiamato (ad essere un) apostolo (klétos apostolos)”

Nel progetto preordinatore di Dio la chiamata costituisce l’atto susseguente all’elezione e ne esplicita il contenuto. Da parte di Dio chiamare significa abilitare, rendere una persona atta a compiere ciò per cui è chiamata. Tuttavia bisogna ricordare che la chiamata non è solo relativa a qualcosa, ha il suo valore per il fatto stesso che è una convocazione di Dio, per questo esprimibile nell’ordine dell’essere prima che in quello del fare. Collegato con la chiamata è il tema della vita, del futuro di speranza, della gioia, della dignità di appartenenza alla famiglia di Dio, della certezza del suo amore (cfr. Rm 8,28-30).

Nell’appello rivolto da Dio a Paolo era operante la grazia divina che prendeva corpo nel carisma apostolico. Si discute quale sia l’origine neotestamentaria del sostantivo apostolo. Nel greco classico il termine indica: la “nave da carico”, “la flotta inviata”, “il comandante di una spedizione marittima”, “il lasciapassare”. Però l’anello più importante per giungere al concetto neotestamentario di apostolo si deve probabilmente cercare nel giudaismo rabbinico e precisamente nell’istituto giuridico dello shaliahk, la cui regola principale era: “l’incaricato (shaluahk) di un uomo è simile a questo medesimo” (Berachot 5,5). All’inizio tale concezione fu prevalentemente profano-giuridica, ma man mano passò anche in campo religioso; per es. il delegato della comunità locale è sheliahk tzibbûr; il sacerdote è l’incaricato di Dio o sheliak derahkmânâ (delegato del Dio misericordioso); Mosè, Elia, Eliseo sono anch’essi sheluhkim di Dio.

Paolo è stato quindi costituito inviato permanente di Cristo, la sua non è una missione sporadica, ma un essere definitivamente suo messaggero con la sua persona e con il suo agire. Richiamandosi al mandatario Paolo esorta ad accogliere seriamente il vangelo di cui è portatore. Chiamare è anche un rivelare l’identità del chiamante.

 

c) “Separato per annunciare il vangelo di Dio (aphórismenos eis euaggelion Theou)”

Con questa terza designazione, la prima nello svolgimento logico del tempo, viene sottolineata l’idea di elezione. Il participio “separato” (perfetto passivo) esprime la decisione effettiva singolare di un’azione da parte di Dio, iniziata nel passato e costante fino al presente, nella vita di Paolo. Il significato del verbo greco, composto da apo+horizô, è “delimitare”, “distinguere”, “separare”, “mettere a parte”, “scegliere” e questo implica, anche perché il soggetto è Dio, uno speciale rapporto tra l’idea di “elezione” e quella di “separazione”. Alcuni autori pensano che Paolo abbia usato questo verbo in relazione al fatto di essere stato un fariseo, data l’assonanza tra le due parole (pharisaios/aphorizô), vedendo anche in ciò un atto provvidenziale. Questa intuizione non è del tutto da rigettarsi: certamente tutta la vita di un uomo è guidata dalla vigile provvidenza divina e nel caso di Paolo è sottolineato dal fatto di essere stato “messo da parte fin dal seno di sua madre” (Gal 1,15). Dio sa scrivere diritto anche in righe storte. Ma l’ipotesi etimologica che il verbo greco qui utilizzato traduca la radice ebraica (parash-separare) presente in fariseo è probabilmente da scartare.

Dunque per mezzo di questo participio “prescelto” l’Apostolo vuole non solo sottolineare la sovranità assoluta di Dio, ma anche la sua benignità; Dio ha segnato e orientato il nuovo corso della vita di Paolo. Perciò in questo caso il “separare” (aphorizein) è assai vicino al “santificare” (hagiazein) oppure a “scegliere” (eklegomai); Paolo è stato chiamato e separato da Dio e per Dio, egli si sente nella mani di Dio come “strumento eletto” (At 9,15) del piano di salvezza. In tal modo l’Apostolo esprime la sua separazione e la sua chiamata sul modello della vocazione profetica (cfr Is 49,1; Ger 1,5). Come il profeta, così anche Paolo è consacrato e predestinato per una missione. Con la sua separazione Dio intende fare di Paolo l’“Apostolo” (cfr. Gal 1,1; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tm 1,1; 2Tm 1,1; Tt 1,1) “il servo” e “il profeta”, il perfetto discepolo, chiamato da Dio, per annunciare il Vangelo.

Il Vangelo di Dio: per Paolo il vangelo ha un carattere personale e si identifica con Gesù Cristo che, come salvatore, è la lieta notizia e la ragione della speranza cristiana: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,10). Il Vangelo è qui detto di Dio perché dietro di esso c’è l’opera del Padre, grande artefice del progetto di misericordia a favore dell’uomo; e poco più avanti si specifica che il contenuto del vangelo è il “Figlio suo” (1,9).

 

 

 

 

3. Il disegno di Dio sui credenti di Roma

Dopo aver esplicitato nei vv. 3-4 il contenuto del Vangelo, ricorrendo ad una formula prepaolina, ed aver ricordato la grazia dell’apostolato in vista del conseguimento “dell’obbedienza della fede in tutte le genti” (v. 5), Paolo chiude il prescritto della Lettera presentando la vocazione dei credenti di Roma.

 

a) “Chiamati di Gesù Cristo (klétoi Iésou Christou)

La prima descrizione della vocazione dei cristiani di Roma richiama anzitutto la sovranità di Dio Padre, infatti Lui è l’artefice della chiamata. In quanto “chiamati” i cristiani scoprono di essere desiderati, pensati, resi stabili da Dio perché da sempre ha voluto in se stesso scegliere e chiamare all’esistenza e al dono del vangelo che suscita la fede. Il tema della chiamata di tutti coloro che sono oggetto dell’annunzio del vangelo è presentato per sciogliere la libertà dell’uomo a favore di Dio e aprire l’uomo alla risposta di amore di fronte a questo immenso dono del Padre, come lascia intendere il tema dell’obbedienza della fede del versetto precedente e quella espressa da Paolo per se stesso con il titolo “schiavo di Cristo”. La chiamata manifesta e realizza il progetto di Dio e colloca i credenti nel cuore del Padre.

Il genitivo “di Gesù Cristo”, presenta lo scopo della vocazione dei credenti, voluta dal Padre, cioè “essere di Cristo Gesù”. Questa affermazione è tra le più rilevanti del pensiero di Paolo, e fa parte di quella che è chiamata mistica paolina. Di solito l’unione del credente con Cristo è descritta con l’espressione “in Cristo”, ma non meno forte è questa che presenta la chiamata dei fedeli come un’appartenenza a Cristo, “essere di Cristo”. Nella chiamata di Dio il cristiano sperimenta in maniera concreta e reale la sua unione di vita con Cristo personale e glorioso, infatti con la parola Cristo ci si vuole riferire a quanto è detto di Lui nei vv. 3-4 e quindi il credente sa di appartenere al mistero della morte e della risurrezione del Signore. Non si tratta di una fusione o confusione tra la persona di Cristo e quella del cristiano, ma di una comunicazione misteriosa e reale di influssi vitali di Cristo nell’esistenza concreta del cristiano attraverso l’azione dello Spirito, che rende operante in noi la partecipazione alla vita stessa del Cristo, perché “chi non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene” (Rm 8,9).

L’espressione “chiamati di Gesù Cristo” svela anche una forte connotazione ecclesiale della vocazione cristiana, manifestando una chiamata fondamentale valida per tutti (il plurale chiamati) come appartenenza a Cristo. La specificazione “di Gesù Cristo” può anche indicare che i credenti scoprono la loro vocazione, l’essere chiamati, mediante il messaggio, vangelopersona, che è Gesù: Dio chiama ad essere di Gesù, ma chiama anche mediante Gesù-Parola.

Questa prima affermazione concernente i credenti permette di fare una considerazione basilare: il termine “vocazione, chiamata” va anzitutto ricondotto al senso generale di chiamata di tutti i credenti prima di qualunque specificazione. I credenti in Cristo sono infatti designati col nome di “chiamati” (vocati) e l’insieme dei credenti ha ricevuto ben presto il nome ecclesia, cioè convocazione. Significativo che nello scrivere agli Efesini, Paolo parli prima dell’unità della vocazione e poi dello specifico delle vocazioni: tutti chiamati a formare “un solo corpo, un solo spirito, come una è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (Ef 4,4), poi la specifica chiamata quale apostoli, profeti, evangelisti, pastori, maestri (Ef 4,11). Questa comune vocazione, che non toglie il senso delle vocazioni particolari, ma le esalta, consiste anzitutto nel concepire la propria esistenza come chiamata di Dio e quindi vivere la vita come risposta all’appello che è Cristo. Il contenuto di questo appello è poi appartenergli cioè condividere tutto di Lui: vivere di Lui, per Lui ed in Lui le prove, ma anche l’amore e la compiacenza del Padre.

 

b) “Diletti di Dio (agapetois Theou)

Paolo ci presenta un Dio vicino all’uomo nella forma più reale possibile, una presenza che è coinvolgimento interno di amore: Dio è vicino, è presente perché ama i credenti, questo amore li rende degni di amore, cioè figli nel Figlio mediante lo Spirito che libera dalla schiavitù e dalla paura (Rm 8,14-17.23). L’amore con cui Dio ama i fedeli di Dio è “rivelato e accordato in Gesù Cristo nostro Signore” (Rm 8,39), pegno di tutti i beni, radice di tutti i benefici divini, predestinazione e redenzione (Rm 5,8). Già nel Primo Testamento (cfr. Dt 4,37; 7,8; 6,5; 121,13.22) specie in alcuni profeti Dio si rivela come colui che ama e vuole essere amato (Ger 31,3; Os 3,1; 11,1; 14,5). Questo privilegio di Israele giunge ai cristiani (Rm 11,28; 9,13.25). Amati di Dio significa essere assicurati della sua predilezione, non soltanto in tutti gli atti di Cristo, che ci ha amati (Gal 2,20; Rm 8,37; 2Cor 5,14-17; Ef 5,2.25), ma con tutte le testimonianze interiori dello Spirito di filiazione mandato in noi (Gal 4,6; Rm 8,15) per espandere l’amore nei nostri cuori (Rm 5,5). “Amati di Dio” è il titolo che fa, crea la comunità divenendo la propria identità ed è anche il titolo di grazia accordato ad ogni singolo credente.

Con l’espressione “diletti di Dio” Paolo vuole presentare l’amore di Dio come forza del vivere cristiano. Questo vangelo sarà ampliamente ripreso alla fine del c. 8 dove Paolo assicura che, poiché Dio è con noi, nessun altro può essere contro di noi (cfr. 8,31) e l’amore di Dio non rimane sospeso in un’idea ma prende un corpo, un volto, divenendo dono accessibile ad ogni credente: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (8,32), è questa tra le più grandi definizioni e presentazioni di Dio.

L’affermazione “diletti di Dio”, non vuole tuttavia essere solo una rassicurazione interiore per il fedele, vuole essere pure l’abilitazione all’amore e la forza del vivere: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Tribolazione o angustia, persecuzione o fame, nudità, pericolo o spada? Ma in tutte queste cose noi stravinciamo grazie a colui che ci ha amati. Sono, infatti, persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né realtà presenti, né future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcuna altra creatura sarà capace di separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39).

Paolo non ha creato il concetto di amore-agape, dà invece nome qualcosa che è realmente accaduto ed è il sacrificio che il Padre fa del Figlio. Sulla croce non è l’uomo che offre un sacrificio e quindi vuole da sé raggiungere la salvezza, ma appare che il sacrificio è di Dio stesso. Per questo la croce insegna che da parte dell’uomo non vi è alcun accesso autonomo a Dio. Il sacrificio non è più la via dell’uomo a Dio, ma la via di Dio all’uomo. L’amore di Dio e la croce di Cristo si spiegano reciprocamente. Per questo Paolo ha evitato di usare il concreto di amore-agape per esprimere la relazione dell’uomo con Dio; per lui, apparendo in modo libero e assoluto nella croce di Cristo, non è atto a definire il comportamento dell’uomo verso Dio. La dedizione dell’uomo a Dio è solo risposta; per grande che sia, è sempre un riflesso e una conseguenza del suo amore.

Alla dedizione dell’uomo per Dio si deve perciò cercare un altro nome che non sarà amore-agape, ma fede-pistis. La fede include in sé la completa dedizione e l’amore, ma ribadisce il suo carattere di risposta, di contraccambio. La fede è amore, ma amore contrassegnato dalla recettività e non dalla spontaneità. In Gal 5,6 troviamo: “la fede è operante per mezzo dell’amore”.

Bisogna comunque ricordare che Paolo usa liberamente il termine amore-agape per definire il retto comportamento del cristiano nei confronti del prossimo. Questo perché “l’amore-agape di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5) che costituisce la vera sostanza della vita cristiana e che i cristiani devono trasmettere agli altri con cui vivono. Paolo in Gal 2,2 afferma: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Ecco che nella vita dell’amore-agape non è l’uomo che agisce, ma il vero soggetto è Dio, lo Spirito di Dio, lo Spirito di Cristo. Possiamo dire che Paolo usa il termine amore-agape per definire l’amore cristiano del prossimo perché anche in questo caso si tratta dell’amore-agape di Dio. Sembra che non sia pago finché non riconduce tutto a Dio, secondo quanto afferma in 2Cor 5,15: “Tutto viene da Dio”. Per Paolo l’amore di Dio in Cristo Gesù è il prototipo di ciò che a buon diritto è designato con il nome di amore-agape e caratteristica di tale amore è proprio quella di donare se stesso, di sacrificarsi.

 

c) “Chiamati (ad essere) santi (klétois hagiois) ”

Sempre riferito a tutti i credenti e non ad un gruppo ristretto, l’aggettivo sostantivato “santo” ricorre nel NT solo al plurale (per es. Rm 8,27; 12,13; 15,25; 1Cor 6,1-2; Ef 1,1; At 9,13.32; Eb 6,10…), eccetto in Fil 4,21, dove comunque la parola si riferisce ad un singolare collettivo. La santità assume quindi anzitutto una connotazione ontologica prima che morale: santi per “rinascita” battesimale siamo chiamati ad esprimere questa santità nella vita. In quanto plurale, “santi” rimanda ad una connotazione ecclesiologica. Già questo fa capire che la vocazione alla santità appartiene alla chiesa tutta come popolo di Dio. Infatti, essa non si identifica con certi fenomeni straordinari e inoltre molti fenomeni considerati in passato come straordinari (carismi) sono invece accordati da Dio con molta abbondanza a chiunque si apre all’azione dello Spirito.

La parola hagios/santo è l’equivalente della parola ebraica del Primo Testamento che significa “separare”, ma questo non significa che i credenti siano extraterrestri; indica invece che essi appartengono già da ora alla speciale famiglia di Dio. I santi, infatti, sono i separati in un duplice senso: al negativo vi è una separazione dal male e, al positivo, una consacrazione a Dio e al suo servizio. Nel Primo Testamento, Israele è il popolo santo di Dio precisamente in questi due sensi. È una nazione separata dal resto del mondo antico (Nm 23,9; Sal 147,20) per elezione e chiamata divina; e la caratteristica della sua vita di nazione è di essere una testimone di Dio, poiché è chiamata ad essere “una nazione santa” (Es 19,5-6; Lv 19,1-2; Dt 7,6; 14,2). La chiesa succede alla sacra comunità di Israele (cfr.1Pt 2,9-10), e l’antica chiamata di Dio al suo popolo, “Siate santi”, viene rinnovata a coloro che sono in Cristo Gesù, chiamati ad essere il suo popolo nei giorni in cui i propositi escatologici di Dio vengono adempiuti nella creazione de “i santi dell’Altissimo” (Dn 7,18.22.27).

In sostanza, ciò a cui siamo chiamati è la santità (1,7); per questo Pietro scrive: “ad immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta” (1Pt 1,15). Pertanto la chiamata dei cristiani a una vita di “santità” avviene in Cristo Gesù, “il Santo di Dio” (Mc 1,24). Soltanto con la nostra unione per fede a Cristo nella sua morte e risurrezione questa vita può diventare una realtà.

 

 

 

 

Conclusione

Come abbiamo visto il prescritto della lettera ai Romani contiene una ricchezza di concetti, mediati sia dall’uso esplicito di vocaboli, sia dall’accostamento di alcune espressioni e dal rimando al sentire e al sapere antico-testamentario. Come sempre, però, Paolo usa l’alfabeto biblico per dire parole nuove: la novità del servizio apostolico, la prospettiva mutata in cui si colloca l’annuncio evangelico, ed anche (ed è quello che ci interessa qui ora) la diversa fisionomia dei credenti. I vv 6-7, presi in particolare in esame, danno del cristiano un’immagine tridimensionale, che però non è semplicemente il risultato della giustapposizione di tre attributi: chiamati, amati, santi; si può vedere in queste tre qualifiche svolgersi la storia della salvezza di ognuno, una storia che, come è tipico delle “cose di Dio”, si estende dall’eternità, da prima che il mondo fosse creato (Ef 1,4), ed abbracciando il corso dei secoli, si proietta nella ricapitolazione finale in cui Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).

La prima espressione, chiamati di Gesù Cristo, ci porta subito nel cuore della storia: l’umanità incontra l’eternità in un punto, l’incarnazione del Figlio di Dio. Non sembra un caso che Paolo scelga di solito la duplice esplicitazione: Gesù/Cristo, ricapitolando in questi due termini sia l’assunzione della storicità da parte del Verbo eterno dei Padre, sia la sua mediazione salvifica: è Gesù, l’Uomo, è Cristo, il Messia Salvatore, quello che è nato nel mondo per chiamare, per interpellare ad un fine di salvezza l’umanità intera, per dire il nome vero di ogni uomo. Ma nel testo di Rm 1,6 la condiscendenza di Dio si china su precisi interlocutori: “fra di loro ci siete anche voi, chiamati di Gesù Cristo”. Ecco che l’attenzione paterna si ferma su ogni uomo o donna della comunità cristiana di Roma, destinatari primi, ma anche su ognuno che per la benevolenza di Dio lo incontra nella Parola proclamata e ascoltata nella Chiesa.

È possibile però che questo dialogo si offra ad ogni essere umano soltanto perché ognuno è già stato “amato da Dio”: la storicità dell’incontro rimanda sempre ad una preordinazione (Rm 8,29-30) carica di amore che, lungi dal coartare la libertà della risposta, avvolge da sempre il credente nell’abbraccio preveniente del Padre. Paolo qui non esplicita, come altrove (per esempio 1Cor 1,3), la qualità paterna di Dio, ma la richiama nell’uso dell’aggettivo verbale “amato/hapapêtos”: all’orecchio attento tornano tutte le volte in cui questo termine è detto del Figlio di Dio (per es. Mt 3,17; 17,5 e passi paralleli), il Figlio amato, prediletto. In lui ogni uomo è figlio (Gal 4,4-7) e dunque gli “amati da Dio” sono raggiunti dall’amore del Padre per eccellenza: amore che da sempre ha creato, mantenuto in vita, condotto per mano all’incontro personale storico col Figlio.

Il dialogo però che il Signore intesse con ogni uomo, se parte da una prescelta di Dio, chiede la risposta dell’uomo. Ecco emergere di nuovo lo stile d’amore con cui Dio ci ha “prediletti”, un amore che si è fatto Parola per un dialogo interpersonale che ricrea l’uomo, toccato dal peccato, e lo abilita alla risposta libera a Dio. La vocazione è quindi la vocazione all’amore, ad amare Dio in primo luogo. Questo significa accettarlo in se stessi come presenza e forza d’amore (Spirito) il cui termine è sempre l’uomo. Così amando gli altri come dinamica della chiamata si rende presente in se stessi e si stabilisce con Lui l’unico rapporto possibile, quello del suo amore accettato, cioè la sua presenza e la sua gloria.

Il terzo tratto somatico dei credenti, la santità, porta a pienezza la potenzialità umana, perché coniuga l’opera di Dio e la collaborazione dell’uomo. La storia e l’eternità: la chiamata alla santità, che parte senza nostro merito, fornisce all’uomo la capacità di condurre a realtà ciò che è nel cuore di Dio, libera l’uomo dai legami spazio-temporali, per lanciarlo nella comunione con l’Eterno, l’unico Santo, da cui (si potrebbe dire parafrasando Ef 3,15) ogni santità prende nome. I santi sono coloro nei quali non esiste menzogna: essi camminano nella luce che è Cristo e questo è collegato con il tema del vangelo annunziato da Paolo e accolto dalle Genti. La santità comporta infatti l’obbedienza-adesione al Vangelo-Gesù e il desiderio di vivere per annunciarlo. Un’ultima suggestione: è troppo pensare di riconoscere nelle tre caratterizzazioni del credente l’impronta della Trinità? L’amore con cui il Padre ci forma da sempre, la chiamata con cui il Figlio ci raggiunge e la santificazione che lo Spirito opera conducono a pienezza ogni tratto di umanità redenta e divinizzata, realizzano in noi quell’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13).