Una comunità favorevole alla santità?
– …
– Sì, sì, ma richiami. Chiami domani o … non so, vedremo.
– Ma è da una settimana che la cerco!
– Senta, in parrocchia stiamo organizzando i turni di catechismo bla bla bla… e i corsi di bla bla…, stiamo realizzando il progetto per bla… Poi guardi, stiamo raccogliendo bla…, stiamo aspettando la visita bla…, e tutti i giorni poi le Messe da celebrare, pensa che io abbia tempo da perdere?
– Sì, capisco, ma avrei bisogno di un po’ di ascolto, per chiederle un suggerimento e orient…
– Acc… Visto? – disse a mezza voce don Antonio Fasomì – Le cade pure la linea, figurati… Non si può far perder tempo così!… Con tutto quello che c’è da fare in parrocchia… Mah!
– …
– Don Antonio, sono ancora io.
– Sì sì, guardi ne riparliamo. Non so che dirle ora, ne riparliamo. Ora non posso. La prossima settimana…
– Ma…
– O provi a sentire in convento, provi lì. Forse c’è qualcuno che ha più tempo. Ora devo salutarla. (Click)
La comunicazione si chiuse lì. Paola si mise supina e cominciò a pensare che forse il suo bisogno di essere ascoltata fosse solo un irrealizzabile desiderio. Però, di andare in crisi ogni volta che usciva da chiesa, di sentirsi risuonare la Parola in cuore senza poterla praticare insieme ad altri, di vedere in chiesa solo gente che corre per fare, fare e poi fare, o che si eclissa dietro una colonna per le sue preghiere, proprio non le andava più giù. Pensò anche: “Possibile che una persona per vivere il suo rapporto feriale, ordinario con Dio, per praticare il vangelo, per santificare la vita o le capacità di lavoro, debba solo pensare alla vita religiosa? E il mio ragazzo? E già, … Alla fine, Andrea prete e io suora…”. Qualcosa non quadrava in queste conclusioni. “Possibile che nessuno sappia far altro che suggerire di ‘consacrarsi’. E il battesimo? Non basta essere battezzati per vivere e arrivare in Cielo da concittadini dei santi e familiari di Dio?”. La Scrittura, in particolare queste parole di san Paolo (Ef 2,19) suo autore preferito, sembrava parlar chiaro.
Per quanto girasse intorno al tema, non le sembrava che la santità laicale fosse cosa chiara per la gente della sua parrocchia. Percepiva solo una grande venerazione, da parte di tutti, per lo spirito d’iniziativa del parroco, per le cose belle che organizzava in parrocchia, per la ventata di novità che aveva portato. Senza di lui non si prendevano iniziative; le stesse suore del vicino Istituto, sembravano non sapere cosa fare se il “Don” non le chiamava in parrocchia o se non le incaricava di distribuire la Comunione nella messa domenicale. Osservava pure come la gente preferisse starsene per conto proprio in chiesa, chiusa nelle proprie devozioni prima e dopo la Messa, piuttosto che familiarizzare, impegnarsi, scambiarsi impressioni, esperienze o solo semplicemente fermarsi a salutarsi.
E concluse che tutt’intorno c’era come un gran “fai-da-te” della santità! Che la comunità potesse ridursi ad un supermercato del sacro, sembrava non fare problema a nessuno. In fondo, a che serve la chiesa? sentiva dire ogni tanto. I miei figli i sacramenti li hanno ricevuti tutti; è stato bellissimo, don Antonio è un santo, quanto lavora! Oh, e le suore sono splendide, quelle vanno diritto in paradiso. E un’altra, invece: mio figlio comincia ad essere troppo grande, se non fa adesso la cresima, non me la fa più. Spero che col parroco ci si metta d’accordo, altrimenti resto col peso sulla coscienza tutta la vita. E sennò, quando si sposerà si vedrà. Per niente convinta da questa mentalità e dai conseguenti modi di fare, riprese tra mano i documenti del Concilio e alcuni opuscoli della serie Magistero della Chiesa, che aveva via via comperato in libreria, e si mise cercare e meditare. Dai tempi del corso di Scienze Religiose seguìto in diocesi, infatti, era rimasta affascinata da certi passi della Lumen Gentium, e pure la Christifideles Laici le aveva dato un grande respiro. Tornò a leggere e rileggere proprio quei testi. Più cercava, più leggeva e più si convinceva ed entusiasmava: “…tutti i fedeli di qualsiasi stato e grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
Le sembrava matematico: “Due per due fa quattro – diceva a se stessa – se già la chiesa primitiva viveva così, se il Signore ha suscitato per noi quasi un apposito Concilio, ci deve pur essere un modo per mettere in atto questo spirito!”. Pensò a Viviana, la collega di laboratorio che, mentre lavorava, le faceva un gran parlare degli incontri e della formazione che riceveva nel suo Movimento ecclesiale. La invidiò un poco, perché ogni giorno la vedeva serena e soprattutto sicura del fatto suo. Almeno, lei – pensava Paola tra sé – una linea ce l’ha; la sentiva realizzata quando parlava di spiritualità, di ritiri formativi, di incontri in famiglia o del raduno di zona tenutosi in estate. Soprattutto ammirava la collega per come sapeva dare un valore alle cose e agli eventi anche più semplici della vita e quando parlava di missione e di impegno per diffondere la Parola. Sì, a pensarci bene, Viviana qualche difettuccio l’aveva pure, ma cos’era quello di fronte allo zelo che le traspirava dalle parole quando chiacchieravano insieme, con la testa bassa sul lavoro, e di fronte alla testimonianza che dava proprio lì fra le stanze del reparto? La sua non era una santità da vetrina, da agiografie di santi nati tali fin dal grembo materno, ma le sembrava che tra il lavoro, la casa, gli incontri di spiritualità, l’impegno sociale, vivesse una tale continuità della presenza del Signore da farle sinceramente invidia. Anche di suo marito, del suo matrimonio, ne parlava con un rispetto tale che, dalla bocca di altre donne, non sentiva facilmente. E quando l’ascoltava sussurrare certi canti, in genere testi biblici, Paola stessa sentiva di riceverne un gran bene. Infine, a ben pensarci, le sembrò che quella fosse vera e propria evangelizzazione, fatta più di testimonianza che di parole. Un segno dei tempi.
Sì, questa era già una risposta. L’utopia si andava ridimensionando. “Quello che la Chiesa nel suo compito di Maestra mette solennemente per iscritto – pensò – è santo, e alla fine si compie”. Si rincuorò. La strada dei movimenti di spiritualità laicale le si offriva come una possibilità. Con il suo ragazzo, con Andrea, bisognava assolutamente cominciare a saperne qualcosa di più.
La settimana seguente, Paola tornò alla carica con don Antonio. Finalmente lo trovò libero per un po’. Chiacchierarono incredibilmente a lungo, al punto che lo stesso “Don” alla fine … la ringraziò. Paola, come laica “formata” era stata un po’ esigente con lui. Pian piano erano passati a parlare anche della vita di comunità e della sua missione; di carismi e ministerialità del popolo di Dio; di volontà di Dio e urgenza di evangelizzazione; di responsabilità dei laici nella Chiesa. Don Antonio, sotto la scorza del manager, aveva rivelato di essere, in realtà, un uomo del Concilio e lui stesso riconosceva che i preti, buttati nelle urgenze della parrocchia, si ritrovano, alle volte, a far una quantità di cose quasi senza verificarsi, senza mettere in discussione la propria azione pastorale. Il dialogo aveva fatto bene a entrambi.
E entrambi, alla fine, si lasciarono convinti che, proprio la chiamata alla Vita di Comunione eterna con Dio, si esprime quaggiù con una chiamata alla santità personale e comunitaria: una chiamata che è nello stesso tempo chiamata ad una responsabile presenza di fede nella comunità e chiamata a mettersi a servizio della fede per comunicarla al mondo.
Alcune considerazioni
La vita di Comunione con il Padre e con il Figlio, nello Spirito, ciò che noi chiamiamo Paradiso, non sarà un’improvvisata finale alla consumazione dei tempi. Essa si va preparando fin da ora, attraverso la vita ecclesiale, che è come un rudimento della comunione del Cielo. Se armonica è la vita celeste, così deve essere anche quella ecclesiale. La Comunità, come in uno specchio, vive in un corpo solo, armonico e coordinato, in cui ognuno ha e vive la sua vocazione senza gelosia del dono dell’altro. Potremmo affermare che se ogni inserito in Cristo, al momento del Battesimo, riceve il Nome, è vero che riceve anche il “Posto”; un posto nella Comunità, una vocazione che non è di nessun altro e non può essere rimpiazzata da nessun altro, per la realizzazione del Corpo di Cristo. Dalle parole di Gesù: “nella casa del Padre mio ci sono molti posti” (Gv 14,2) si può pensare che i “posti” del cielo non sono più numerosi di quelli della terra. Gli uni e gli altri corrispondono, e quelli della terra sono il luogo che ogni credente ha per fare la volontà del Padre: “come in cielo così in terra” (Mt 26, 42).
Se una persona non è aiutata a trovare il “suo” posto, la sua vocazione, rischia di non realizzarsi, di non essere felice per tutta la vita. Il suo Battesimo non si perfeziona, il suo posto rimane vuoto e non ci sarà un altro che possa occuparlo. Cercare la propria identità/vocazione nella Chiesa non è un’esigenza di funzionalità, per il buon andamento della comunità; è un dovere conseguente alla nativa vocazione del battezzato ad essere membro del corpo mistico di Cristo. Non membro qualsiasi, ma membro particolare, eletto nella prescienza di Dio (cfr. 1 Pt 1,2) ad essere in modo irrepetibile parte vivente della comunità; non peso morto. Chi giunge all’autocoscienza del suo Battesimo, trova anche la sua vocazione.
In via indicativa si può, alla fine, affermare che quando una comunità cristiana si preoccupa di far crescere la coscienza battesimale dei suoi membri, quando avvia i battezzati alla piena maturità di Cristo o si impegna a non lasciarli spiritualmente infantili; quando ne promuove la vita sacramentale e la compartecipazione, in realtà ne sta promovendo la santità. E viceversa, se una Comunità vuole efficacemente promuovere il processo di santità dei fedeli, deve necessariamente aiutarli a scoprirsi coinvolti, in modo nativo e prodigioso, non solo nella vita liturgica della Chiesa, ma anche e soprattutto nella sua Missione.