Bellezza e vocazione
1. Alcuni fraintendimenti
Il titolo rischia di essere un po’ romantico considerando quanti fraintendimenti ci sono in giro sulla bellezza che appare, dopo il fallimento di tanti connubi – teologia e filosofia, teologia e sociologia, teologia e psicologia… – come una sorta di moda, un tentativo di salvarsi dopo aver visto l’esito di altre vie.
Continuare a rivolgersi agli artisti come a coloro che operano con la bellezza rivela d’altra parte quale abisso, quale incomunicabilità ci sia oggi tra la Chiesa e il mondo, perché certamente la bellezza non rientra nell’orizzonte artistico attuale. È pure difficile oggi anche parlare di una Chiesa bella: abbiamo davanti una Chiesa organizzatissima, diligentissima, molto attiva, che suscita qualche applauso, ma che non si segue. L’uomo è attirato dalla bellezza, non dalla bravura.
Anche il termine vocazione corre lo stesso rischio. Tranne eccezioni che sono sempre dappertutto e che confermano che è proprio così, una delle cose più gravi che possa succedere a un giovane è che si affacci al suo orizzonte qualche possibile vocazione. Per le donne, poi, peggio ancora, il pensiero del “mi devo fare suora” è una tragedia. E ugualmente se uno pensa di doversi fare gesuita o frate. Dove sarebbe dunque la bellezza se per un giovane è una tragedia una vocazione che si affaccia? E se per molti genitori cat tolicissimi è una tragedia che la propria figlia voglia farsi suora? Cosa abbiamo dunque fatto di Dio Padre e della sua volontà se oggi per l’uomo fare la volontà di Dio è una tragedia? La questione è ancora più seria in un’epoca in cui l’uomo cerca di liberarsi di Dio, del cattolicesimo e del cristianesimo stesso perché non ce la fa più, l’Europa è disposta ad essere qualsiasi cosa, ma non cristiana. Come mai abbiamo una tale paura della volontà di Dio? Spieghiamo che la volontà di Dio è la salvezza, la redenzione, l’amore, però la gente ha tanta paura, perché?
Noi parliamo di vocazioni, ma all’interno di programmi e progetti di vita che con la vocazione non c’entrano niente, riducendola a una realizzazione di sé che ci riporta sempre all’“auto”, all’uomo che si fa da solo. Se queste vocazioni non ci sono ringraziamo Dio, perché le persone che si sono fatte da sole rimangono sempre individui, e come tali non comunicano la vita accolta ma solo quella conquistata.
E poi non lo so, essere gesuita, orsolina, francescana, prete è veramente una vocazione? Nel Nuovo Testamento non sono riuscito a trovarla. Alla fine siamo riusciti a dire che esistono anche le vocazioni matrimoniali ed è bene che l’abbiamo detto, benché con cinque secoli di ritardo.
1.1 La bellezza come comunione
Credo sia necessario chiarire innanzitutto cosa sia la bellezza per i cristiani.
Nel primo millennio, quando la questione era più semplice, era “bello” ciò che dentro se stesso apriva un altro mondo, quando, guardando una cosa, dentro ne vedevi un’altra e quella che si dischiudeva ne dischiudeva a sua volta un’altra ancora, come le matrioske russe. E più si dischiudeva più ti sentivi unito, anche tu, a colui che si dischiudeva.
È esattamente la poesia di S. Efrem il Siro, grande poeta e teologo del IV secolo – tempo in cui la teologia era ancora poesia – dove ogni immagine apre la visione di qualcosa di bello che dentro di sé rivela una cosa più profonda e pian piano ti unisce e coinvolge con colui che lì si manifesta.
Olivier Clemént – grande teologo ortodosso francese – diceva che l’altra parola per la bellezza è l’unità e aggiungeva che l’altra parola per l’unità è la salvezza.
Quando si è salvati? Quando dentro il proprio peccato, dentro la propria povertà, scopri il volto che ti guarda, ti lava, ti asciuga, ti riveste, ti mette a mensa e fa festa con te, quando dentro alla tua miseria scopri la grandezza, il santo, il misericordioso. Il ritornello ripetuto da un monaco russo era: «Gratta, gratta i tuoi peccati e alla fine scoprirai il santo volto, colui che ha assunto tutto».
La bellezza è esperienza di unità, quando ti trovi unito a qualcuno, quando non sei più solo. La bellezza è il superamento della solitudine. Ti appare bello ciò cui ti senti unito e unisce solo Dio, l’unico che può mettere insieme le persone, Dio Padre, nessun altro.
Questa era la bellezza per i cristiani: «Chi vede me vede il Padre mio» (Gv 14,9)
Noi guardiamo il pane, ma non vediamo il pane, siamo baciati dal Signore, il nostro sangue si mischia con il suo, la vita filiale ci riempie i polmoni, cominciamo a respirare da figli mangiando quel pane. Il pane non è più solo pane, si dischiude e ci unisce ad un Altro. Allo stesso modo guardiamo il volto l’uno dell’altro, guardi il fratello e ti senti dentro.
André Scrima, grande monaco romeno ortodosso, un genio del XX secolo, diceva che il volto dello Spirito Santo è il volto del fratello, dentro ogni volto ci sono tante abitazioni, tanti possiamo starci dentro, questa è la bellezza, essere uno nell’altro.
Nel discorso di congedo, in Gv 14-17, Cristo fa vedere che è venuto ad estendere su di noi il modo di esistere di Dio, uno nell’altro. Noi siamo abituati a pensarci uno accanto all’altro, ma Dio vive uno nell’altro, il Padre in me e io in Lui, io in voi e voi – addirittura usa il duale – in noi due. Lo stesso dice Gregorio Nazianzeno nel discorso che si legge nell’ufficio della festa parlando di Basilio: «Realmente l’uno era nell’altro e con l’altro». Giovanni userebbe il termine zoè, la vita del Figlio, dell’eterno, non bios, la vita del corpo, non psichè, la voglia di vivere questa vita biologica, ma zoè, la vita che non muore, la vita della comunione.
Chi ha studiato e approfondito dice che la verità nel Vangelo di Giovanni è la vita che scorre tra il Padre e il Figlio e tutto ciò che fa parte di questa vita è vero e perciò la bevanda passa alla vera bevanda, il cibo al vero cibo, perché fa parte di questa zoè, di questa vita divina, della comunione filiale. Se la verità non è da cercare nei libri, negli astrattismi, ma c’è una vita della verità che è la vita filiale, quando questa si realizza lo fa come bellezza, quando si comunica, si comunica come bellezza: quando la verità si comunica, si comunica come bellezza.
Mio padre da gran pedagogo qual era, sin da bambino mi ripeteva che le cose vere e da prendere sul serio erano quelle che uno riusciva a dirti in modo bello, perché la verità si comunica come amore, con amore.
Pavel Florenskij dice che «la verità rivelata è l’amore e l’amore realizzato è la bellezza». La verità è la vita e la vita si comunica come bellezza. Il suo maestro Solov’ev è arrivato a dire che la carne del vero è il bello, è la bellezza, e se la verità non è comunicata come bellezza è un’ideologia che è capace di uccidere le persone per difendere le idee. E sappiamo bene come la modernità abbia milioni di morti in nome delle idee, perciò parlare oggi di umanesimo ha un alcunché di grottesco. La verità se non è bellezza è un pericolo, è un drago che divora gli uomini. E Solov’ev aggiunge che la carne del bene è la stessa bellezza. Se il bene non si realizza come bello ènun fanatismo. Non esiste male più crudele che la dittatura del vero e del bene, quando tutti sono obbligati a farlo.
Noi non siamo chiamati per essere bravi nel mondo, ma belli, perché la nostra carne è teofanica. Dopo l’incarnazione del Verbo l’umanità non è più separabile da Dio e noi nella nostra carne manifestiamo questo, la vita. Se è psiche o bios non è bellezza, ma se è zoè è bellezza, perché lascia trasparire un altro. Noi siamo memoria vivente dice Vjeceslav Ivanov, l’uomo è una perenne anamnesis. Tu vedi un uomo e dentro c’è una memoria, tanti volti, tante voci.
In p. Spidlik, mio maestro, ascoltandolo, tu sentivi Gregorio Nazianzeno, Basilio il Grande, tutta la Chiesa. In ogni cristiano c’è tutto il corpo di Cristo, questa è la bellezza. Nella bellezza classica c’è una perfezione formale che non lascia spazio al fallimento, al debole, fragile, peccatore. Ed è questa, penso, la grande illusione del nostro tempo, io penso e io faccio, io mi faccio da solo, ma non è così. Il contenuto può anche apparire religioso, ma il linguaggio non lo è.
2. Vivere da figli
A livello di espressione artistica, le grandi epoche (gotico, romanico, ecc.) ci insegnano che la perfezione nell’arte deve essere tale anche nella vita e ciò non significa correggere me stesso e diventare perfetto e bello, no, nella vita la perfezione è che in me si manifesti la vita del Figlio.
L’uomo è fragile, mortale, ma può invocare, può aprirsi. Lì scende Dio e agisce nella fragilità dell’uomo perché l’uomo lo accoglie.
Queste due realtà insieme sono la perfezione.
La bellezza classica ha escluso per secoli dalla teologia il mistero della trasfigurazione, la pneumatologia, una seria teologia trinitaria – che è diventata filosofica – rivelando la totale mancanza della vita di comunione. Ma da qui salta tutto il resto, saltano le relazioni, salta la Chiesa e viene meno la bellezza. Se non c’è la comunione non c’è la bellezza.
Per noi cristiani non si tratta della forma perfetta, ma del lasciarsi trasfigurare, lasciare che nel fragile si manifesti Dio onnipotente, lasciare che il fragile diventi figlio, che lo schiavo e il servo diventino figli. L’individuo diventa persona della comunione.
Questo è il passaggio, questa è la svolta vera e propria perché la scia del modello, della perfezione ci rovina totalmente. Ma questa è stata la nostra pedagogia degli ultimi tre, quattro secoli. Tutto basato sulla perfezione dell’individuo, la formazione intesa come un lavoro su se stesso per perfezionarsi. Ma, bene insegna Berdijaev quando dice che cominciare a lavorare sulla perfezione di se stesso fa morire la creatività.
E noi infatti siamo creativi solo nel cambiare le formule. Manca la sapienza, la manifestazione della via: «Io sono la via, la verità, la vita» (Gv 14,6). Il mondo ci conosce attraverso precetti, leggi, eticismi, moralismi, ma non come manifestazione di una esuberanza di vita che non dipende da noi, che noi accogliamo e che perciò traspare.
Siamo diventati noi la via della perfezione e questo ci rovina perché siamo noi i protagonisti di tutto, mentre è il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo, a noi è chiesto di accoglierlo (cf Gv 3). Se sono io a cercare Dio ho già un’idea di come dovrebbe essere e se non corrisponde cerco da un’altra parte. Ma la vita si accoglie. La fede è accoglienza, la più grande e la più difficile attività dell’uomo. E non ha niente a che fare con la tolleranza con cui abbiamo cercato di sostituirla.
In questo modo ci siamo trovati in un vicolo cieco dove abbiamo cominciato a capire la vocazione come un nostro compito nel perfezionare noi stessi secondo un’idea e poi perfezionare il mondo secondo questo stile. Questi sono l’ideologia e il moralismo che configurano una religione classica, per cui in nome di un Dio, di una sua dottrina, spiritualità, si insegna un cambiamento, un miglioramento di me stesso e della società. Se si fa si è premiati, altrimenti si è puniti.
Così indicano le omelie degli ultimi secoli, tranne quelle eccezioni che infatti confermano la regola.
Cristo è venuto a salvarci, a redimerci esattamente da questo e noi siamo tornati a diventare questo, dove cerchiamo di adempiere un nostro proposito e di migliorare così gli altri. Ma il mondo ha bisogno di vedere Dio nella nostra carne, nella nostra mentalità, la nostra teofania. Non gli serve la nostra bravura, come alla Chiesa non servono vocazioni per una struttura parastatale con dei funzionari che devono avere i loro successori per non bloccare l’istituzione. Abbiamo finalmente un pontefice che lo dice a chiare lettere e parole. Noi non siamo un’istituzione parastatale, paraimperiale dove svolgiamo servizi per l’impero affinché possa funzionare bene.
No. Noi siamo manifestazione di una vita che nessun altro può dare. La vita dei figli di Dio, la manifestazione di questa vita nel mondo. Il mondo questo attende, la manifestazione di una vita che nessun altro può dare. Con tutta la sofferenza che c’è oggi nella vita religiosa – e molte volte solo per una immaturità impressionante che purtroppo spesso è paradossalmente generata proprio dalla nostra perfetta formazione – viene da chiedersi se non ci sono vocazioni perché Dio Padre cerca di salvare i propri figli. Ma la vocazione è la redenzione, Dio chiama salvandoci, rendendoci suoi figli.
La vocazione non può essere la funzione, la vocazione è la chiamata alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo (cf 1Cor 1,9). La vocazione è una sola: siamo chiamati alla comunione del Figlio, siamo chiamati ad essere incorporati nel Figlio, siamo chiamati, come dice Nicola Cabasilas «a diventare la carne del Figlio di Dio, il sangue del Figlio di Dio». Questo siamo chiamati ad essere, conoscere il Padre, vivere la vita umana da Dio, questa è la nostra vocazione. È la comunione, dentro questo Corpo di Cristo, che è l’unico che è chiamato.
Le vocazioni individuali sono nate nell’epoca moderna, è la Chiesa che è chiamata, è il Corpo che è chiamato e noi dentro questo Corpo, da figli abbiamo dei ministeri, dei compiti, delle vocazioni, dei lavori, questo sì, ma la vocazione è del Corpo.
3. L’esperienza della redenzione
Se è così, che la vocazione non può essere il modo in cui ci perfezioniamo, ma piuttosto il modo in cui partecipiamo alla vocazione del Figlio, alla comunione sua, allora diventiamo parte sua, siamo Eucaristia, siamo quel pane che è diventato Cristo e siamo noi stessi cibo per il mondo, luogo dove gli uomini possano scoprirsi figli di Dio, amati dal Padre. Non sto parlando contro le opere, è certo che qualcosa dobbiamo fare e possibilmente qualcosa che necessita nel mondo. Ma questo lo può fare un padre che si intende della vita e comunicherà la vita, una madre che si intende della vita e comunicherà la vita. Se non ci sono le vocazioni è inutile che andiamo a cercarle. La pastorale vocazionale rischia di raccattare esattamente quelli che vogliono fare del bene nel mondo… ma esattamente di quelli non abbiamo bisogno.
Siamo chiamati a vivere la vita che è stata redenta, a vivere da redenti. La vocazione è esperienza della redenzione. Solo da questa esperienza possiamo comunicare il Salvatore. È l’esperienza di chi si è svegliato in una bara sigillata e ha sentito uno che cominciava a svitare le viti e lo ha tirato fuori. È l’incontro con un volto che non si scorda più. Macario il Grande dice che molti si mettono a spiegare il miele, ma si vede che non l’hanno mai mangiato; un assetato che immagina e dipinge sulla parete una sorgente d’acqua, non sarà per questo dissetato.
Non si tratta di parlare della redenzione, ma di lasciare che traspaia la grazia di cui eravamo destinatari (cf Ef 2,6-7). Questa è la nostra missione, quando uno è stato salvato non può tacere la grazia che lo ha toccato. L’uomo guarito, nel territorio dei Geraseni, è mandato dai suoi a raccontare cosa Dio gli aveva fatto (cf Lc 8,39). A questo siamo chiamati, a far vedere cosa è successo quando Dio ha toccato la nostra carne mortale, quando Dio ci ha guardati, ci ha baciati, ci ha lavati, redenti. Questa è la fonte della nostra vocazione. Se c’è la vita si farà vedere e la vita attira. Le vocazioni verranno sempre dove c’è una madre, dove c’è un padre, perché qualcuno ti deve generare. E ti può generare solo chi ha la vita del Figlio.
Nessuno mai si è salvato con l’osservanza della legge e nessuno si salverà (cf Gal 2,16). Si può arrivare alla perfezione, non fare nessun peccato, essere eticamente e moralmente perfetti, ma mancherà sempre un “dettaglio”: essere figli di Dio, per questo bisogna essere generati, non è possibile farlo da soli. Non si diventa figli da soli, il Padre ti deve generare nello Spirito santo.
4. Corpo di Cristo
La crisi delle vocazioni può essere una grande provvidenza di Dio affinché la Chiesa faccia una sosta e possa riscoprire, come appunto voleva il Vaticano II, che non si tratta di rafforzare i metodi, di migliorare le tecniche, ma di lasciare che si riveli la redenzione. Più saremo salvati più evidente sarà la nostra missione, più esplicita la nostra vocazione di Corpo di Cristo, di umanità filiale, una umanità in un processo permanente di trasfigurazione, un’umanità che lascia nel mondo il lievito della vita nuova, la vita del Figlio.
La salvezza significa che io con ciò che sono muoio a ciò che sono perché questo non ha ragione di sopravvivere, questa carne è destinata a morire, e mi risveglio intessuto con gli altri in un solo corpo, mi scopro figlio perché sono circondato da fratelli e sorelle e ho una vita che è dell’eterno e non mi chiede una perfezione, ma un compimento. La perfezione del grano non è che diventi un quadro rinascimentale perfetto e neanche una perfetta pagnotta, ma che diventi il Corpo di Cristo. Se alzo un’ostia geometricamente perfetta non ho migliorato il sacramento, ma anzi corro il rischio di fuorviare perché comincio a credere che siano essenziali cose che non lo sono. È il sacerdozio di Cristo, di un sacerdote e di tutta la Chiesa che chiede la discesa dello Spirito a trasfigurare tutto. Eppure io quando mangio prendo il pane e mangio pane. Ma in quel pane ci immergiamo nella vita del Figlio e dei fratelli, ci scopriamo parte del Corpo di Cristo perché questa è l’Eucaristia.
Far vedere ciò che siamo, ma far vedere la potente opera di Dio in noi. Così diventiamo cibo per il mondo. Il mondo ci mangerà, così o così, ma noi siamo nel mondo per essere mangiati, noi siamo cibo del mondo, siamo veramente il sacramento del mondo.
Il profeta Elia per dimostrare la verità non ha organizzato un convegno, non ha messo in piedi un seminario di una settimana con analisi infinite (e se anche l’avesse fatto, dall’analisi non sarebbe nata la domanda tipica nostra, del che cosa fare, quanto piuttosto cosa Dio stava dicendo attraverso questo!).
Elia ha detto ai falsi profeti: facciamo un altare, voi e noi e adesso secondo la regola Dio deve scendere e accendere l’offerta. Cominciate voi che siete di più, io sono solo. E quelli cominciano, gridano, urlano, ma niente succede. Elia dice: forse gridate troppo poco, Dio è un po’ distratto, si è addormentato e non sente, gridate di più, e tagliatevi anche un po’ così aumenterà anche la scenografia. Non succede niente. Elia fa mettere l’acqua dappertutto, anche sulla legna, sull’altare, fa bagnare tutto, affinché tutto sia inzuppato. Poi dice: Dio, ti ho preparato uno scenario perfetto, ora tocca a te. E si è accesa l’offerta.
Ecco, questa è adesso la vocazione della Chiesa, non far vedere al mondo che siamo bravi, ma che siamo figli e che Dio Padre in noi opera sempre. Il nostro compito è accoglienza e sinergia, far vedere l’opera divino-umana.
5. Riprendendo dalle domande dell’assemblea
Credo che in qualche modo si tratta di fermarsi per guardare le cose da un altro punto di vista, non nell’ottica di come migliorarle – cosa che stiamo facendo da molto tempo senza che succeda il miracolo – ma di rimettersi alla vera tradizione della Chiesa dove anche la fuga dal mondo ha un senso che si è travisato. Noi siamo chiamati ad essere immersi nel mondo, persino quelli di clausura. La patrona delle missioni è di clausura! Siamo nel mondo non essendo del mondo.
Basilio il Grande non ha permesso nessun eremitaggio a qualcuno se non era molto addentro l’arte del cenobio, della convivenza, solo quando si è uniti a tutti si può essere soli. Prima è una fuga, una fissazione.
Penso che noi dobbiamo vivere come tutte le persone del mondo, ma da figli, per esplicitare ai battezzati quale è il senso e il compimento della nostra vita. Il bambino di Betlemme è tutto ciò che Dio è, ed è lì, Dio con noi. E così si manifesta, in una vita normalissima, avvolta in fasce. Noi siamo chiamati a vivere la vita quotidiana, non ad essere persone astratte che vivono a compartimenti stagni e chi insegna non sa cucinare, chi cucina non sa cucire, chi non va a fare la spesa non ha la più pallida idea di quanto costino pane e latte. Ma noi siamo chiamati per vivere da redenti ciò che siamo chiamati a fare. E la redenzione è la tuttunità in Cristo.
Lo stesso si vede nei vestiti religiosi. Non vorrei essere frainteso perché non voglio parlare né contro le opere né tantomeno contro i vestiti religiosi. Ma oggi, quando si è perduta l’identità maschile e femminile, quando vediamo uomini e donne che non sanno più vestirsi, quale opera grande sarebbe far vedere una donna nuova, integra, bella, avvolta nel mistero, che attira e affascina perché è manifestazione di un Altro dentro.
L’anno liturgico è l’aiuto più prezioso che la Chiesa ci dà. Noi l’abbiamo scordato perché gli abbiamo sovrapposto spesso il calendario dei nostri progetti pastorali. Ma l’anno liturgico è il cammino perché noi possiamo rimanere e crescere come carne e sangue di Cristo, come corpo di Cristo. Quando nasceva la liturgia la Chiesa era il soggetto della teologia. I teologi erano pastori e la liturgia si è vista nel loro modo di governare, di essere pastori.
Qualcuno obietta che Papa Francesco non è teologo e non si accorge che basta guardare come governa per dire che invece lui è un teologo grandissimo. Basta guardare come si pone, come la sua teologia non sia una laurea a una facoltà, ma la sintesi della vita, dove uno ha letto nella sua storia ciò che Dio gli ha detto.
Questo ci aiuta a fare l’anno liturgico, a leggere in chiave sapienziale, liturgica, ciò che io vivo, ciò che mi capita, la storia.
Abbiamo fatto dell’Eucaristia un oggetto di culto, ma l’Eucaristia è un evento, è una storia. E noi questo l’abbiamo cancellato, poi i protestanti ci hanno orientato all’indietro, sul memoriale di un evento passato, il memoriale del futuro l’abbiamo dimenticato, l’escatologia non esiste. E per questo non sappiamo leggere la storia, rimandando piuttosto alla psicanalisi, alla psicologia la soluzione dei problemi.
Ma l’Eucaristia è proprio questo, leggere la storia. Abbiamo migliaia di cose nel tesoro della Chiesa e le abbiamo totalmente lasciate per correre dietro a piccole teorie. H. de Lubac ha detto una volta che il Concilio Vaticano II è grande perché ci ha insegnato a non discutere più con il mondo, ma a sorprenderlo.
Partire con una iniziazione seria alla liturgia, all’anno liturgico, a una lettura sapienziale di tutto ciò che succede porterebbe una grande novità, soprattutto nella formazione dei seminari, chiudendo per sempre con la tradizione di Levi, del sacerdote separato dal popolo. Cristo è dell’ordine di Melchisedek e la Lettera agli Ebrei lo presenta totalmente solidale al popolo, tranne nel peccato.
Il seminario dovrebbe essere il cammino che insegna la grande arte della purificazione. Come possiamo studiare teologia se non abbiamo purificato la mente? Siamo veramente tanto più santi dei padri del primo millennio che si purificavano per poter pensare teologicamente?
Oggi chi parla della purificazione del cuore, di purificazione della memoria, dei sentimenti, della volontà?
Noi con la stessa mente con la quale ragioniamo sul calcio, ragioniamo sulla Trinità. Ma non funziona e per questo non si esce da questa impasse.
Chi ha il pensiero di Cristo secondo San Paolo? Chi ha la sua vita. E chi ha la sua vita? Chi ha offerto la propria. Penso che la strada sia proprio questa, del saper contemplare.
Questo si dovrebbe, secondo me, insegnare oggi, a contemplare, cioè in ogni situazione ritrovare il nesso con Cristo, trovare se stesso in Cristo. Questa è la grande contemplazione, questo è il più grande lavoro pastorale, aiutare la persona a vedere come Dio la redime là dove è, non dove vorrebbe essere, non dove sarebbe più facile essere.
Insegnare a cogliere i nessi, a saper discernere tra bios e zoè, tra vita che passa e vita che rimane. E consapevoli che non è detto che dove tutto è carino e formalmente perfetto lì è zoè. No, c’è la croce. Morire alla propria volontà, non ne parla nessuno e nessuno ne vuole sentire parlare, ma senza la morte della volontà auto-affermativa non c’è nessuna figliolanza. Io non posso diventare figlio. La volontà vive nella natura umana, non nella persona, se no Cristo non avrebbe due volontà.
E qui tocchiamo l’antropologia teologica, in gran parte perduta pure questa riducendola a un discorso filosofico, sociologico. Ci sono tante fratture che pian piano vanno ricucite.
E sono convinto che verrà tanta vita, semplicemente vivendo normalmente. Semplicemente vivere, far vedere che le religiose e i religiosi sono quelli che sanno vivere da redenti in un modo nuovo: come umanità vissuta da Dio.