N.06
Novembre/Dicembre 2014

Autorevole Gesù! Aspetti e profili dell’auterevolezza di Gesù

In memoria di don Bonifacio Mariani

I l tema biblico dell’”autorità” (exousia1) rivela molteplici prospettive e può essere approfondito secondo vari approcci e punti di vista2.
Nella presente proposta desideriamo focalizzare l’”autorevolezza” di Gesù alla luce dei racconti evangelici e le peculiarità che concorrono a definire tale “dinamismo autorevole” 3. Nel procedere all’analisi occorre evitare un duplice rischio: da un lato incappare in un riduzionismo antropologico, considerando l’autorevolezza di Gesù come un dato puramente umano. Dall’altro lato, non bisogna cedere alla tentazione idealista di astrarre Gesù Cristo dalla sua dimensione “umana“, presentando l’autorevolezza della sua prassi e del suo insegnamento in chiave metastorica e moraleggiante.
Dopo aver accennato al contesto delle origini di Gesù, focalizziamo la nostra attenzione sugli aspetti che caratterizzano la sua autorevolezza, verificabili soprattutto nell’insegnamento e nelle relazioni interpersonali. Avendo presente le problematiche storico letterarie dei vangeli, seguiamo un approccio sincronico senza la pretesa di esaustività della vasta e complessa “questione cristologica“ implicata in tale riflessione4.

1. La semplicità delle origini
Dalla rilettura dei vangeli canonici si desume che Gesù ha imparato dalla sua famiglia e dal suo ambiente a crescere e a maturare un’umanità ricca e profonda. Egli è inserito in una famiglia semplice, che vive e lavora in un ambiente periferico rispetto ai centri urbani dell’Impero romano. La formazione umana di Gesù va collocata all’interno di un “intenso mondo educante“, qual è il giudaismo del suo tempo. Le coordinate educative della sua maturazione personale e relazionale vanno ricercate nell’ambiente sinagogale, che prevedeva una serie di tappe polarizzate intorno alla lettura dei libri sacri e all’ascolto/apprendimento delle “tradizioni dei padri“.
È noto come la crescita e la formazione dell’infanzia ai tempi di Gesù fosse motivata da una visione intensamente religiosa nei fini e altrettanto umana nei mezzi. È lecito ritenere che Gesù fosse stato inserito nelle dinamiche educative del proprio ambiente e abbia percorso le normali tappe del cammino di maturazione umana, culturale e spirituale (cf Lc 2,40-50). In tale cotesto egli è potuto maturare nel concreto quotidiano del suo silenzioso e sapiente cammino.
La “vita nascosta“ dei trent’anni a Nazaret non è stata descritta dagli evangelisti, che si limitano a segnalare la condizione di crescita e di benedizione del bambino nell’armonia del suo ambiente familiare (cf Lc 2,52)5. Tuttavia il profilo antropologico della personalità e della sua autorevolezza si coglie nello sviluppo della sua missione, che culmina nei racconti pasquali.

2. L’autorevolezza di Gesù nell’insegnamento
Le tradizioni evangeliche confermano «una personalità forte e attraente» di Gesù6. Possiamo declinare tale autorevolezza sintetizzando in tre aspetti caratterizzanti le sue relazioni interpersonali: a) l’insegnamento; b) la gestualità; c) lo sguardo.
Per coloro che lo incontravano, Gesù era anzitutto il «maestro» (didaskalos) e la sua «predicazione» consisteva nell’insegnare (didaskein) una dottrina (didakē)7 radicalmente nuova8. Gesù è chiamato rabbì e tale si definisce (cf Mt 23,8-10; Mc 9,5; 10,51; Gv 13,1). È un rabbì che parla in pubblico, come facevano i maestri di Israele: nelle sinagoghe, nelle piazze, nel tempio. Gesù è un maestro circondato dai discepoli (mathētai). Nella sua missione impiega le tecniche comunicative dei maestri del suo tempo. Egli sceglie i suoi discepoli (cf Mc 3,13-19; Gv 15,16) a differenza degli altri rabbì in Israele, che predicavano in determinati luoghi pubblici e accoglievano nella loro scuola solo chi era idoneo per la Legge. In particolare, egli è un “maestro autorevole“, perché «insegnava come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,22). È un maestro che si erge non col potere dell’autorità, ma con l’autorità dell’autorevolezza (cf Mc 12,14).
La radice del suo insegnamento è trascendente perché collegato con la relazione di Cristo al Padre (cf Mt 11,25-30; Gv 8,28). L’insegnamento di Gesù assume una funzione “rivelativa“ e si caratterizza per la sua discontinuità con gli altri maestri del suo tempo (scelta e missione dei discepoli; essere l’“unico“ maestro). Il Signore insegna con autorità una “nuova dottrina“.
L’attenzione non è posta solo sulla forma, ma anche sul suo contenuto, definito generalmente con il termine didakē (dottrina), o con didaskalía (insegnamento)9, accompagnata da segni miracolosi.
Nell’importante scena iniziale del Vangelo secondo Marco, mentre Gesù nella sinagoga di Cafarnao libera un indemoniato (Mc 1,21-28), l’evangelista intende presentare come la “dottrina nuova“ del Signore produce liberazione e guarigione, a differenza dell’insegnamento degli scribi e dei farisei. Un simile messaggio si ripete nella scena della guarigione del paralitico in Mc 2,1-13, anche se al termine didakē si sostituisce l’espressione generica «annunziava loro la Parola» (Mc 2,2). La «Parola» annunciata come la dottrina autorevole che Gesù espone è efficace e rinnovatrice (cf Lc 5,1-11). L’autorevolezza del Signore riguarda il contenuto del suo insegnamento e allo stesso tempo tocca profondamente il cuore delle persone e guarisce le loro ferite.
Similmente, nella cornice narrativa di Mt 7,28-29 l’insegnamento riguarda il messaggio integrale del “discorso della montagna“, che si chiude con l’annotazione dell’evangelista: «Le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità (exousian), e non come i loro scribi». Una simile allusione applicata all’insegnamento apostolico si trova in At 2,42 e 5,28 dove appare chiaro che Luca ha inteso collegare il messaggio evangelico con la testimonianza che gli apostoli danno di Gesù (cf At 1,21). Nella stessa linea interpretativa si muove il quarto evangelista, presentando la testimonianza autorevole e degna di fede di Gesù come «insegnamento» ricevuto dal Padre (Gv 7,16-17). L’autorevolezza di Gesù proviene dalla sua coerenza e dal suo amore per la verità (cf Mt 6,37), che viene riconosciuto anche dai suoi avversari (cf Mc 12,14). Gesù è una persona stimata da ebrei e da romani, da ricchi e da poveri.
Ad accrescere autorità e ammirazione contribuisce anche il modo in cui Gesù gestisce situazioni, proponendo invece soluzioni inedite, che destano sorpresa nei presenti. Due esempi possono confermare questa interpretazione: l’interrogativo circa l’opportunità di pagare o meno il tributo a Cesare (cf Mc 12,13-17), che Gesù risolve con una risposta profonda e totalmente imprevista. Un secondo episodio riguarda il giudizio della donna sorpresa in flagrante adulterio (cf Gv 8,3-11). Gesù è posto di fronte al dilemma fra la critica di non osservare la legge di Mosè, negando la lapidazione, oppure quella di rinnegare il messaggio di misericordia verso i peccatori. La risposta del Signore è ancora una volta geniale: egli accorda il perdono operando un approfondimento di coscienza tanto negli avversari della donna quanto nella protagonista della vicenda. L’autorevolezza del suo insegnamento confluisce spesso anche in un sentimento di timore che proviene dall’esperienza dell’incontro con la santità di Dio10.

3. L’autorevolezza di Gesù nella gestualità
L’autorevolezza di Gesù è accentuata attraverso i gesti e la loro interpretazione simbolica11. Tra i diversi racconti che includono atteggiamenti e gesti autorevoli, spiccano i miracoli che mostrano le caratteristiche di una gestualità autorevole, che è insieme amichevole, rassicurante e terapeutica. 

3.1 La mano
In diversi contesti si presenta Gesù che stende la mano per guarire gli ammalati. L’atto di stendere la mano implica una relazione profonda, che genera nell’interlocutore un atto di vita e di speranza.
L’incontro con Cristo diventa così una relazione profondamente rassicurante. È quanto accade alla suocera di Simone, che il Signore visita e guarisce «sollevandola e prendendola per la mano» (Mc 1,31). Similmente l’autorevolezza del gesto, per nulla magico, si ripete sui tanti ammalati che lo attendono alla porta della città (Mc 1,33-34). L’atto di stendere la mano diventa ancora più espressivo nella scena del lebbroso (Mc 1,40-45). Toccando le membra del lebbroso prostrato davanti a Lui, Gesù vive la piena compassione di Dio che “vuole guarire“ l’uomo dalla sua condizione di malattia. L’autorevolezza del gesto è carica di un messaggio positivo che oltrepassa i limiti del racconto. L’imposizione delle mani da parte del Signore diventa così un gesto autorevole sui malati di ogni tipo (Mt 8,16; 11,58): sordomuti (Mc 7,32), ciechi (Mc 8,23), storpi (Lc 13,13), paralizzati (Mc 3,1-5), morti che vengono risuscitati (Mc 5,40-42; Lc 7,11-17). Allo stesso tempo la mano di Gesù stringe quella di Simon Pietro che lo invoca terrorizzato, mentre sta per inabissarsi nel lago in tempesta (Mt 14,30-31). Le stesse mani che sferzano i venditori del tempio (Gv 2,15), stringeranno in un abbraccio affettuoso quei bambini, a cui Gesù impone le mani (Mc 10,13-13). L’esercizio della sua autorevolezza appare così variegato: dalle guarigioni ai segni profetici, dalle relazioni di fiducia a quelle di accoglienza e di benedizione.
Infine le mani perforate dai chiodi diventano segno autorevole della sua risurrezione, quando il Risorto le mostra a Tommaso per confermarlo nella fede (Gv 20,25). 

3.2 La voce
Anche la voce di Gesù rivela la sua autorevolezza. Nell’episodio della tempesta sedata Gesù esercita la propria autorità “sgridando“ il vento e il mare (Mc 4,39). Con la stessa forza vitale il Signore “chiama“ l’amico Lazzaro dalla tomba, dopo aver invocato il Padre, gridando la liberazione dell’amico dalla morte (Gv 11,43). È soprattutto l’evangelista Giovanni a sottolineare come la rivelazione cristologica si evidenzia nel “grido autorevole“ di Gesù, che invita i credenti ad andare lui: «Gesù ritto in piedi, gridò: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura:
Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”» (Gv 7,37-38). Similmente, nell’ultimo discorso prima della passione, il Signore gridò a gran voce: «Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,44-45). Più di tutto colpisce la singolarità del grido finale sulla croce, simbolo del compimento escatologico, che caratterizza la fine dell’esistenza terrena del Cristo (cf Mt 27,50). 

3.3 La prostrazione
Colleghiamo il gesto della “prostrazione“ a due episodi della vita di Cristo: il segno della lavanda dei piedi (Gv 13,1-20) e l’agonia nel Getsemani (Mt 26,36-46; cf Lc 22,39-46). Nella lavanda dei piedi il maestro e Signore consegna un ultimo autorevole insegnamento ai suoi discepoli, lasciando loro l’“esempio“ supremo dell’amore e del servizio vicendevole. La scena contiene una serie di gesti “servili“ che diventano onorabili e, per questo, “autorevoli“. Gesù ripete la mansione dei servi in una casa: alzarsi, deporre le vesti, cingersi di un asciugatoio, lavare i piedi e asciugarli. La prima reazione di Simon Pietro manifesta la resistenza di fronte al gesto che degrada il maestro (cf Mc 8,31-33). Ma il deporre le vesti e il diventare servo di tutti è anticipazione della Pasqua, compimento delle profezie del «servo sofferente di Yhwh» (cf Is 52-53). La risposta di Gesù a Pietro (vv. 8-9) e il successivo insegnamento rivolto all’intero gruppo dei discepoli (vv. 12-20) confermano il fondamento autorevole della missione di Cristo «che non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). L’autorevolezza diventa “servizio“ di amore e donazione di sé agli altri.
Il secondo episodio che riguarda il gesto della prostrazione è contestualizzato nell’ora del Getsemani. I racconti evangelici (cf Mt 26,36-46; Lc 22,39-46) concordano nel descrivere la prostrazione fisica e morale di Gesù, consapevole della sua scelta di fedeltà al Padre. L’evangelista Matteo annota che il Signore, in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, vive la sua ultima ora nella preghiera e nell’offerta, «gettandosi a terra» (26,39: «caduto a terra»; Lc 22,41: «inginocchiatosi pregava»). L’autorevolezza del suo ministero trova conferma nella relazione con il mistero della morte. In tal modo accogliere la volontà del Padre rappresenta il compimento di quell’adesione personale alla verità che Cristo ha confessato, annunciato e testimoniato in tutta la sua vita. È nell’andare incontro alla morte che un testimone conferisce un significato compiuto alla propria esistenza. Prostrato nel “servizio“ e provato nell’“agonia“, Gesù conferma con la sua coerenza di vita, la più alta e credibile autorevolezza. 

3.4 Lo sguardo
Elemento di certo interesse nell’accostarsi alla psicologia di una persona è il carattere del suo sguardo. Nel descrivere le relazioni fra Gesù e i suoi interlocutori, gli evangelisti usano con frequenza l’espressione «fissando lo sguardo su di lui», «fissatolo», «guardando intorno», volendo sottolineare un modo attento di osservare chi gli stava di fronte o lo accompagnava, al di là del semplice vedere o incrociare lo sguardo12. Lo “sguardo“ di Gesù, non disgiunto da tutta la sua persona, manifesta una certa attrattiva, come testimoniato dai racconti di chiamata al discepolato. Tra i diversi racconti che menzionano lo sguardo di Cristo, colpiscono soprattutto tre eloquenti scene rivelatrici della sua autorevolezza misericordiosa e liberante: l’emorroissa (Mc 5,25-34), il giovane ricco (Mc 10,17-22) e Simon Pietro (Lc 22,54-62; Gv 21,15-18).
– L’episodio dell’emorroissa è incastonato nel racconto della risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-23.35-43). Nelle due storie intrecciate e parallele, l’evangelista costruisce abilmente un racconto che coinvolge ancora di più il lettore nell’attesa della soluzione finale. Mentre Giairo «vede Gesù», Marco sottolinea che la donna malata «aveva sentito parlare di Gesù» (v. 27). Da qui la decisione di «passare tra la folla», porsi alle sue spalle e toccare il mantello.
La donna non osa farsi vedere e stende la mano verso il mantello del Signore senza guardare il suo volto (cf Es 33,23). La guarigione accade in modo immediato (v. 29) e l’emorragia cessa. Si registra la reazione del Signore per la potenza uscita da lui (cf Lc 5,17), che cerca colei che ha fatto questo (v. 30). Gesù invita a passare dall’anonimato alla verità della fede. Finalmente la donna si getta ai piedi di Cristo e dichiara tutta la verità (v. 33). È proprio la gestualità della donna guarita che sintetizza il cammino della sua scoperta di Dio: dalle spalle al volto, dal volto al gesto di adorazione del Cristo. Nell’incontro dei due sguardi si compie per la donna la piena rivelazione della salvezza: essa rinasce grazie alla fede (v. 34).
– L’autorevolezza dello sguardo di Cristo si ritrova nell’episodio del giovane ricco (cf Mc 10,17-27), che si sente raggiunto in profondità dall’amore di Cristo. In questa scena Gesù penetra sempre più profondamente nella “domanda” di felicità del giovane (v. 17), proponendogli un cammino di pienezza. Gesù non vuole definire l’amore in chiave precettistica, ma vuole fargli sperimentare di essere amato. Lo sguardo di Gesù assume tutta la sua autorevolezza e apre alla libertà di una risposta. Ma questa proposta rimane senza risposta.
Allo sguardo penetrante di Cristo si contrappone lo «sguardo triste» del giovane, schiavo dei suoi possessi (v. 22).
– Infine appare ugualmente espressivo lo sguardo di Gesù che muove Pietro alla conversione, pur diretto in un contesto – quello della lunga notte insonne e delle ferite fisiche e psicologiche – che inaugura le prime ore della passione (cf Lc 22,61). Dopo l’esperienza del rinnegamento, sarà lo sguardo misericordioso del Risorto sulle rive del lago a confermare l’autorità di Simone, centrata sull’amore oblativo (cf Gv 21,15-19). 

Conclusione
Non vanno infine sottaciuti i “racconti della passione“, da cui emerge con tutta evidenza l’autorevolezza di Gesù “di fronte alla morte“. La drammaticità della narrazione mostra come l’arroganza del sinedrio non riesca a mettere in difficoltà il «prigioniero» (cf Mc 14,53-65), che non teme di applicare a sé il ruolo di giudice escatologico (Mc 14,66; cf Dn 7,13), confermando la sua autorevolezza nell’interpretare la Scrittura. Similmente il confronto con il governatore Pilano delinea la contrapposizione tra due modelli di autorità (cf Gv 18,28-19,16): il modello umano, derivante dal potere imperiale, e quello divino, incarnato dalla testimonianza del Figlio alla Verità (Gv 19,36-38). Il potere di Ponzio Pilato appare incommensurabile rispetto all’“autorevolezza“ di Gesù: il primo darà la morte, mentre il Cristo donerà la vita in abbondanza (Gv 10,10). La consegna della propria esistenza nelle mani del Padre costituisce l’atto supremo dell’autorevolezza del Figlio (cf Gv 3,16-17).
In tal modo la “glorificazione“ realizzata mediante la morte non annulla, ma qualifica l’autorità del Figlio obbediente, che ama fino alla fine (Gv 13,1). In questa obbedienza d’amore si radica il fondamento dell’autorevolezza del Risorto, che si fa riconoscere, consola, dona lo Spirito Santo e invia la comunità nell’evangelizzazione (Gv 20,19-23). 

Note
1 Il gruppo terminologico “autorità-potere-autorevolezza” è reso in greco con exousia – exousiazō – katexousiazō; cf W. Foerster, «exousia, exousiazō, katexousiazō», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, III, a cura di G. Kittel – G. Friedrich, Paideia, Brescia 1967, pp. 625-668; C. Blendinger, «exousia», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, a cura di L. Coenen – E. Beyreuther – H. Bietenhard, Dehoniane, Bologna 1976, pp. 1351-1355.
2 Cf F. Amiot – P. Grelot, «Autorità», in X. Léon Dufour, Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Torino 1976, pp. 100-106; A. Brent, «Autorità e potere», in Temi teologici della Bibbia (Dizionari San Paolo), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, pp. 103-112. Tra i diversi approcci al tema negli ultimi decenni si evince un notevole interesse per l’approccio antropologico-psicologico con diversi esiti: cf R. Guardini, La realtà umana del Signore. Saggio sulla psicologia di Gesù, Morcelliana, Brescia 1958; A. Schweitzer, Die psychiatrische Beurteilung Jesu, Mohr, Tübingen 1913 (rist. G. Holms, Hildesheim 2002); E. Drewermann, Psicologia del profondo ed esegesi, Queriniana, Brescia 1996; Idem, Il Vangelo di Marco. Immagini di redenzione, Queriniana, Brescia 1994; J. Capps, Jesus. A Psychological Biography, Chalice, St Louis (MI) 2000; S. Woorwinde, Jesus’ Emotions in the Fourth Gospel: Humane or Divine?, T&T Clark, London – New York 2005; A. Miranda, I sentimenti di Gesù. I verba affectuum dei Vangeli nel loro contesto lessicale, EDB, Bologna 2006; B. Van Os, Psychological Analyses and the Historical Jesus. New Ways to Explore Christian Origins, T&T Clark, New York 2011.
3 Cf G. Poli – G. Crea, Dall’autorità all’autorevolezza. Per una leadership in tempo di crisi, Rogate, Roma 2008; M. Mangiacotti, Gesù psicologo (Supplementi BeO), Sardini, Bornato in Franciacorta (BS) 2014.
4 Cf G. Segalla, Il mondo affettivo di Gesù e la sua identità personale, in «Studia Patavina» 54 (2007), pp. 89-134; G. Tanzella Nitti, La psicologia umana di Gesù e il suo ruolo in una contemporanea teologia della credibilità, in «Annales Theologici» 27 (2013), pp. 267-292.
5 Un primo indizio di “autorevolezza” è possibile scorgerlo nell’episodio lucano del ritrovamento al tempio (Lc 2,41-52), nel quale Gesù adolescente rivela la sua volontà di «occuparsi delle cose del Padre suo» (Lc 2,49); cf A. Valentini, Maria secondo le Scritture. Figlia di Sion e Madre del Signore, Dehoniane, Bologna 2007, pp. 191-237.
6 G. Tanzella Nitti, La psicologia umana di Gesù e il suo ruolo in una contemporanea teologia della credibilità, cit., p. 275.
7 Per l’analisi del gruppo terminologico didáskalos (maestro, 59x NT) / didáskein (insegnare, 97x NT) / didakē (insegnamento, 30x NT) / didaskalía (ammaestramento: 21x NT), cf H.-F. Weiss, «Didaskalía, didáskalos didakē, didáskein», in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, I, Paidewia, Brescia 1995, pp. 838-847; K. Wegenast, «Didáskō, didaskalía, didakē», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pp. 522-530.
8 Nel Nuovo Testamento si usa il termine didàskalos 58 volte, di cui 48 nei vangeli, prevalentemente applicato a Gesù. 95 volte il verbo didàskein (= insegnare), 54 nei vangeli, anche in questo caso prevalentemente applicato a Gesù. Quindi Gesù è per eccellenza il “maestro” della comunità.
9 Il termine al plurale “dottrine di uomini“ (didaskalías anthropōn) compare soltanto in Mc 7,7 e in Mt 15,9. Si tratta di una citazione diretta di Is 29,13LXX che allude alle “dottrine umane“ insegnate dagli scribi e dai farisei.
10 Cf Mt 9,8; 17,6; Mc 1,27; 5,35; Lc 7,16; Gv 3,2.
11 Cf F. Boscione, I gesti di Gesù. La comunicazione non verbale nei vangeli, Ancora, Milano 2002.
12 Cf Mt 19,26; Mc 3,5; 3,34; 5,32; 8,33; 10,21.23; 14,67; Lc 6,10; 19,5; Gv 1,42.