N.04
Luglio/Agosto 2014

Accompagnare i giovani tra ferite e voglia di libertà

A me chi è vicino?
È con particolare emozione che ritorno sulla pagina dei disce­poli di Emmaus (Lc 24,13-35) che commentai il 30 aprile 1992, invitato dal Beato Padre Pino Puglisi al Convegno Re­gionale sulla Direzione Spirituale. Allora mi disse in tono confiden­ziale che egli si era interessato a lungo di pedagogia e di psicologia, ma che da alcuni anni aveva sperimentato, in modo più deciso, la centralità della Parola di Dio, della “Lectio divina”.
A lui – p. Pino Puglisi – ho dedicato il libro e dedico questo in­tervento1.

1. In fuga da…
Ed ecco, in quello stesso giorno, due di loro erano in cammino per un vil­laggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano di tutto quello che era accaduto.
Due di loro si mettono in cammino per andare ad Emmaus. Come spesso accade i due, in realtà, non “vanno verso” (Emmaus) ma “fuggono da” (Gerusalemme): ne avremo la conferma alla fine del racconto, ma adesso ce lo rivelano già alcuni indizi. Essi, ad esempio, non parlano della meta, ma discutono con passione solo degli eventi accaduti nel luogo da cui vanno via: è più facile lasciare un posto che lasciare nel posto amori e delusioni. Lasciano Geru­salemme, la comunità, perché, come direbbe Paolo, si sono lasciati «strappare la speranza». Sono ormai (troppo presto!) delusi e stan­chi di aspettare una novità che avrebbe dovuto ribaltare la chiusura tombale del corpo di quel Gesù di Nazareth nel quale avevano ripo­sto tanta – forse troppa? – fiducia.
Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro.

2. Accostarsi – accompagnare
Due verbi sconvolgenti. Accostarsi. Il Maestro non si impone: si inserisce con discrezione nel ritmo della loro danza, non lo mo­difica. Si accosta, diventa vicino, il più vicino possibile… e brucia ogni distanza. Inizia così l’Annuncio: con il metodo dell’incarnar­si, dell’andare a (ri)prendere l’uomo là dove sta scappando, ma – paradossalmente – rispettando anche la direzione errata verso dove, con gli occhi e con i piedi, sta andando. Papa Francesco ce lo ricorda: «La Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario. In questo modo i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali possono rendere presente la fragranza del­la presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a que­sta “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossi­mità con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione, ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (EG 169).
Accostarsi e “camminare con loro” non sono i verbi di chi vuole insegnare, ma di chi si percepisce “compagno di viaggio” anche lun­go strade sbagliate. Perché Gesù non ha detto loro che fuggivano da Gerusalemme e che la direzione non era Emmaus?
Perché ha “perso tempo e fatica”, camminando lungo una strada sbagliata e condividendo una meta sbagliata? Forse perché nell’e­vangelizzazione e nell’accompagnamento la vera direzione verso cui tendere è quella del creare una relazione di ascolto e di acco­glienza. Solo camminando su questa strada anche chi ha imboccato sentieri interrotti ritroverà la strada maestra che, comunque, è sem­pre la strada che porta alla relazione da cui si fugge.
Gesù, incontrando i discepoli, non è interessato in prima battuta a dire la verità, ma a dare una relazione che riscaldi i cuori. Come non ricordare che il prologo storico-relazionale dei dieci coman­damenti («Io sono il Signore Dio tuo che ti ha liberato dalla terra d’Egitto», Es 20,20), così spesso dimenticato, è invece – come ci ricorda ancora Papa Francesco (cf LF 46) – il fondamento, la verità più profonda dei Dieci Comandamenti? Ogni difficoltà nell’ubbidi­re ad un comandamento deriva dal non aver assimilato il prologo storico-relazionale, ossia dal non aver detto a se stessi: «Se Lui mi ha liberato dall’Egitto, ogni sua Parola sarà per me parola di libe­razione». Dalla relazione, infatti, nascono le regole. La verità della relazione è il luogo in cui la verità delle regole diventa salvifica. La verità senza relazione può distruggere. Ecco perché un teologo ha scritto che la verità ci salva se «crocifissa»2.
Stiamo mettendo a fuoco questi primi gesti di Gesù (accostarsi, accompagnare) perché, mentre da una parte rivestono un peso de­cisivo nel determinare il prosieguo dell’incontro, dall’altra vengono spesso sottovalutati per la semplicità e la spontaneità che li contras­segnano. In realtà – come ci ricorda la Terapia della Gestalt – molti fallimenti delle relazioni trovano la loro matrice nella poca atten­zione al pre-contatto, ossia al modo in cui è stata impostata a livello di percezione reciproca una relazione. Come nel famoso racconto omerico della sfida di Ulisse contro i Proci, la difficoltà riguarda il primo dei dieci anelli: la freccia deve partire precisa sin dall’inizio per non inciampare lungo il percorso in qualche anello. Di fronte ad ogni difficoltà nell’evangelizzazione e nell’accompagnamento spiri­tuale è necessario interrogarsi sulla qualità della relazione che ab­biamo creato e chiedersi: «Come ho visto l’altro? Come sono stato visto? Quale attese reciproche condividiamo?».

3. Puntare al cuore
Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.
Come si diceva, la percezione interpersonale (“Chi sei tu per me” e “Chi sono io per te”) determina la qualità della relazione. Gli oc­chi dei discepoli non lo riconoscono perché i loro cuori sono chiusi. Come dirà poeticamente il Piccolo Principe, l’essenziale si vede con il cuore. Il cuore chiuso ha una percezione dell’altro obnubilata e non si accorge dei dettagli. Se, infatti, lo avessero guardato (bene!), lo avrebbero riconosciuto. Essi stessi, dopo, ammetteranno di essere stati distratti, di non essersi neppure accorti di qualcosa che già al loro cuore era familiare. Ecco perché ogni formazione al discerni­mento deve puntare al cuore e renderlo libero ed aperto: solo così si vedranno i dettagli che sono decisivi per un discernimento accurato (a ragione è stato detto che Dio e il diavolo si nascondono nei det­tagli). Dimmi cosa vedi, e ti dirò dov’è il tuo cuore.

4. Prima di parlare ascolta
Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi lun­go il cammino?». Si fermarono, col volto triste.
Gesù va direttamente al cuore: di cosa discutete? Perché siete tristi?
Stupendo insegnamento! Prima di parlare ascolta, cerca di com­prendere dove è l’altro: dove è il suo cuore. Risuona la prima do­manda che Jahvè fa all’uomo: «Adamo dove sei?» (Gen 3,9). Lui – che sa tutto – sa dov’è Adamo ma, come dicono i rabbini, gli regala questa domanda per donargli l’orizzonte dell’interiorità. Chiedersi “Dove sono?” – dirà Buber3 – è il punto di partenza per iniziare ogni cammino verso Dio e verso il fratello.
Perchè l’uomo impari ad ascoltare se stesso, qualcuno deve es­sere pronto ad ascoltarlo. Ecco il primo compito di ogni evangeliz­zazione e di ogni accompagnamento spirituale. Splendide le parole di D. Bonhoeffer: «Il primo servizio che si deve agli altri nella comu­nione, consiste nel prestar loro ascolto. L’amore per Dio comincia con l’ascolto della sua Parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo. […] I cristiani, soprattutto quelli impegnati nella predicazione, molto spesso pensano di dover “offrire” qualcosa agli altri con cui si incontrano, e ritengono che questo sia il loro unico compito. Dimenticano che l’ascoltare po­trebbe essere un servizio più importante del parlare. Molti cercano un orecchio disposto ad ascoltarli, e non lo trovano fra i cristiani, che parlano sempre anche quando sarebbe il caso di ascoltare. Ma chi non sa più ascoltare il fratello, prima o poi non sarà più nemme­no capace di ascoltare Dio, e anche al cospetto di Dio non farà che parlare. […] Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza, non sarà neppure capace di rivolgere veramente all’altro il proprio discor­so, e alla fine non si accorgerà più nemmeno di lui. Noi dobbiamo ascoltare attraverso l’orecchio di Dio, se vogliamo poter parlare at­traverso la sua Parola»4.

5. Uscire dall’autoreferenzialità
Uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Solo tu sei forestiero a Gerusa­lemme! Non sai che vi è accaduto in questi giorni?».
Questa risposta ci induce a fare ipotesi sullo stile relazionale dei due discepoli. Talmente centrati sui loro problemi, non si rendono conto che qualcuno potrebbe anche non sapere cosa sia accaduto loro. Sembrano così fragili, così dipendenti, così incapaci di aprirsi alla novità dell’altro! Si irritano se qualcuno non sa ciò che loro hanno vissuto – come se fosse necessario o scontato saperlo, come se il loro mondo fosse tutto il mondo. Perché il forestiero avrebbe dovuto sapere quello che era successo loro? I percorsi di crescita (del formatore e del formando) richiedono sempre l’uscire dall’au­toreferenzialità per dare spazio a percezioni, gusti, mondi diversi dai nostri. Gesù – modello di accompagnatore – non si lascia bloccare dall’immaturità di Clèopa e continua a donare e costruire la rela­zione.
Segno di una valida relazione formativa è proprio il fatto che l’educatore si pone nella posizione di chi cerca di capire il disagio del formando e non personalizza le critiche e le obiezioni perché preoccupato della propria immagine. Al formando che dice irato al suo educatore: «Lei non capisce niente!», questi risponderà: «In che cosa, di concreto, non ti sei sentito capito?».

6. Ascolto profondo
Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò, son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come ave­vano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Si resta sconvolti dallo stile di ascolto di Gesù. Egli che è a cono­scenza – diretta! – di ciò che è accaduto a Gesù di Nazareth, ascolta fino alla fine, senza interrompere, non va al dunque con la scusante di risparmiare tempo. Una sorta di sottile umorismo aleggia nel rac­conto, ad immaginare Gesù che annuisce e accompagna con il non verbale la narrazione di cosa a lui stesso è accaduto… Sublime inse­gnamento! Solo se il formando ha parlato fino in fondo, ha liberato il suo cuore da ogni angoscia e da ogni obiezione, da ogni critica e da ogni dubbio, sarà pronto ad ascoltare il formatore.
Agostino ci rivela in modo geniale un altro effetto dell’ascolto profondo. Al catechista che non sa come interessare i formandi (i rudi) afferma: «Ascoltali, poi parlerai loro con le loro parole». L’a­scolto profondo ci fa entrare nel mondo, nel linguaggio dell’altro. Solo chi ha ascoltato profondamente la Parola di Dio e le parole dell’uomo potrà parlare in modo comprensibile di Dio. Il grande impegno dell’evangelizzazione oggi è proprio questa fatica e gioia di tradurre il Vangelo nel linguaggio della postmodernità e dei gio­vani di oggi. La voglia di felicità, di libertà, di autorealizzazione, di corporeità, di vita, di compagnia che caratterizza i giovani di oggi, trova la sua più interessante significazione nel progetto di Dio che vuole ogni uomo re del creato: Gloria dei homo vivens.
La Parola di Dio è viva e deve essere detta con parole vive che riaprono il cuore degli ascoltatori. Questo sarà possibile solo se chi evangelizza e chi accompagna riusciranno ad ascoltare con pazien­za, senza attese, senza interruzioni, fino in fondo: dal fondo dell’es­sere ascoltati verrà fuori la domanda più intima del cuore del for­mando. Ascoltare stupidi e stupiti: come se fosse sempre la prima volta e con stupore.
«Noi speravamo»: è l’incipit dei racconti di delusione, della spe­ranza che la vita non ha confermato. Ma – ed è questa la domanda delle domande – quanto tempo è necessario attendere prima di de­ludersi? Tre giorni sono tanti o sono pochi? Attendere per una vita è tanto o è poco? E a quale testimonianza credere? È evidente che i due discepoli non valutano degna di fiducia la testimonianza delle donne che sono andate al sepolcro. Forse solo la passione amorosa, l’ascolto degli altri (delle donne!) può insegnarci il ritmo e i tempi giusti dell’attendere.

7. Cosa dire – quando dire – come dire
Ed egli disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!»
In un attimo Gesù raggiunge il cuore dei discepoli. È una fra­se forte, ma che – paradossalmente – non allontana ma aggancia i discepoli. Se Gesù l’avesse rivolta loro all’inizio, forse i due se ne sarebbero andati. La sapienza dell’amore che si prende cura risulta da tre saperi: cosa dire, quando dirlo, come dirlo.
Apprendere il tempo giusto (il kairos) e il linguaggio giusto ri­chiedono una fatica altrettanto impegnativa del sapere cosa dire. Nella formazione all’evangelizzazione e all’accompagnamento spes­so si è preoccupati solo dell’ortodossia dell’annuncio e si dimentica l’eresia della relazione (del “quando” e del “come” fare l’annuncio). La frase di Gesù diventa, nel momento giusto, quella che sveglia i due discepoli dal loro torpore e dalla loro confusione.
«Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Con un colpo magistrale, Gesù trasforma quelle che i discepoli adducono come obiezioni in motivazioni per credere. L’ermeneu­tica del Risorto punta alla metanoia: a quel capovolgimento della figura e dello sfondo che accade quando ci viene donato un oriz­zonte nuovo, che apre la zona dell’oscurità più intensa. Imparare a rileggere la propria storia, in tutti i suoi passaggi, anche i più aspri e banali, alla luce della Parola è il compito della formazione.
È quello che fa Giuseppe (Gen 45,4-8) con i suoi fratelli. Allora ci si accorge che ciò di cui ci si lamenta (o ci si è lamentati) è ciò di cui abbiamo (avuto) bisogno per crescere. La formazione, in altre paro­le, è efficace solo se produce una mentalità di fede5, se il formando assume l’ermeneutica del Risorto.

8. Un capolavoro educativo
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro.
“Fece finta”: un capolavoro educativo! Gesù sa che questi disce­poli piuttosto dipendenti si attaccheranno a lui ed ecco che invece di sfruttare questa dipendenza, provoca – la richiesta. «Essi insistet­tero»: Gesù resiste alle loro richieste. Non si impone. Anzi, rischia anche di essere abbandonato («Volete andarvene anche voi?», Gv 6,67 – aveva detto ai suoi): egli vuole essere cercato, desiderato con decisione, con insistenza. La fede – come ha scritto Ratzinger – sta nell’essere colpiti e feriti dal dardo della bellezza, sta nell’essere toc­cati dalla realtà, «dalla personale presenza di Cristo»6.
Come è decisivo, in ogni colloquio di evangelizzazione e di accom­pagnamento spirituale, prima di chiudere… fare finta di andarsene!
Chiedere alla persona di risentire dentro il proprio cuore le pa­role dette e quelle ascoltate per verificare, discernere, chiedere se qualcosa è risultato confuso e sgradevole. Un messaggio è efficace non tanto quando viene espresso, ma quando e come viene ricevu­to. «Non so quello che ho detto – diceva un esperto di cibernetica – fino a quando tu non mi dici quello che hai capito».
Al di là delle parole, è la relazione che il formatore ha creato il terreno in cui cadrà il seme della Parola ed è dalla qualità della re­lazione che dipenderanno i frutti.
Da quella finta è scaturita la preghiera dei due che è diventata la preghiera nella quale i credenti, da secoli, trovano rifugio e confor­to: «Resta con noi… perché si fa sera».

9. Spezzare il pane della vita
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.
«Allora si aprirono loro gli occhi». Eravamo partiti dall’accosta­mento della domanda di Gesù («Che sono questi discorsi?») alla domanda di Jahvè ad Adamo («Dove sei?»), e ci ritroviamo adesso ad un altro elemento che rimanda agli inizi: «Allora si aprirono i loro occhi» (Gen 3,7; Lc 24,31). Sembra proprio che questa pagina dei discepoli di Emmaus voglia guarire il racconto di Genesi: Adamo ed Eva vanno via dal Giardino, ma il Figlio di Dio li rincorre, si met­te al loro fianco, cammina con loro, ascolta le loro secolari lamente­le, e alla fine dona il cibo. Non quello ingannevole del serpente, ma quello vero che fa diventare “dei”: il pane eucaristico.
Mangiata la mela del peccato e dell’inganno, si aprono gli occhi e ci si vergogna: il limite creaturale si carica di vergogna quando l’uomo lo vuole negare. Si aprono gli occhi e vedono solo se stessi: ecco la vergogna!
Il Figlio che li ha rincorsi dona loro quello che il loro cuore desi­dera: essere dei. Non però nella disubbidienza, ma nella condivisio­ne, nell’amore che si dona e con-divide. Spezzare il pane, quindi, non rubare la mela.
Ecco il gesto nuovo, ecco il dono del Risorto. Spezzare il pane: dove gli uomini si sentono compagni di viaggio, dove qualcuno si fa pane per gli altri, là si rinnova l’Eucaristia. Ad Emmaus, in questo luogo di smarrimento, accade la prima Eucaristia del Risorto. Come diranno i Padri della Chiesa, Gesù per andare a riprendere l’uomo è sceso fino agli inferi, è arrivato fino ad Emmaus.
In aggiunta al rimando di questa pagina alla notte di Giacobbe (Codice di Beza), è bello collegare la pagina dei discepoli di Emmaus al capitolo terzo di Genesi: Dio va alla ricerca degli uomini, cammina con loro, spezza loro il pane.
L’aprirsi degli occhi ad Emmaus è il riconoscimento della propria creaturalità condivisa con il Figlio nel calore della fraternità e della figliolanza. Aperti gli occhi, i discepoli di Emmaus riconoscono Lui, ma ritrovano anche se stessi (risentono il battito e il ritmo del pro­prio cuore).

10. Scomparire per lasciare il pane
Ma egli sparì dalla loro vista.
Compito di ogni accompagnatore, infatti, è quello di scomparire: di ridare l’altro a se stesso e alla Parola. Si scompare come visibilità, ma si rimane nella memoria corporea dell’altro. Ogni esperienza re­lazionale genuina rimane impressa nel cuore e nella mente. È que­sto il processo di ogni crescita, di ogni relazione che si prende cura: ogni accompagnatore incontra il formando perché il formando di­venti capace di incontrare se stesso e gli altri. Lui scompare, ma il pane rimane: cibo quotidiano sarà il cibo della condivisione, del nu­trimento nell’amore e dall’amore. Sarà il Pane della Sua presenza.
Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Suggestiva questa confessione reciproca: come mai non ci siamo accorti che era lui? Ne avevamo il segno inconfondibile. Quasi a dire che così chiamavano Gesù tra loro: “Colui che riscalda i cuori”. Ed ecco che ritorna ancora una volta la necessità di essere in con­tatto con se stessi, con il proprio cuore. Troppo dipendenti e confusi sono (stati) questi due discepoli. Adesso finalmente sono stati ripor­tati al loro cuore. Si è ripristinata la valutazione intima, quella che nell’intimo del nostro cuore – direbbe Agostino – ci porta alla verità e a Colui che lo abita, nell’intimo più intimo.

11. Ritornare
Partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro.
Si ritorna a Gerusalemme, alle relazioni da cui si è fuggiti, alle donne che sono state svalutate, alla speranza che era stata deva­stata. Ogni evangelizzazione, ogni cammino di accompagnamento deve approdare prima alla Chiesa e poi alla comunità degli umani. Nessun cammino di crescita porta frutto se si blinda e diventa auto­referenziale, quasi un’oasi nel deserto.
È la comunità che affida agli evangelizzatori e agli accompagna­tori spirituali il compito dell’annuncio e della maturazione della fede: e alla comunità bisogna ritornare.
Ma ormai non sono necessari compiti o indicazioni: i due disce­poli sono stati ricondotti al loro cuore e hanno aperto gli occhi. Sarà il fuoco che arde nel petto, saranno gli occhi che hanno visto Lui (Lc 24,33) a collocare il formando lungo la Vera Via che porta al Vero Albero della Vita (Gen 3,24; Gv 14,6).

NOTE
1 Cf G. Salonia, Kairós, EDB, Bologna 1994, pp. 7.73-88.
2 G. Ruggieri, La verità crocifissa, Carocci, Roma 2007.
3 M. Buber, Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico, Ed. Qiqajon, Magnano (BI) 1990.
4 D. Bonhoeffer, Vita Comune, Queriniana, Brescia 1991, p. 75.
5 CEI, Il rinnovamento della catechesi – Documento di Base, 1970.
6 J. Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004.