N.02
Marzo/Aprile 2014

«La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Ricordando don Tonino Bello… vent’anni dopo

Incastrare l’esperienza di don Tonino Bello, rileggere la sua storia alla luce della chiave data dal titolo, è un sfida apparentemente semplice. Gli anni passati dalla sua morte, l’esito positivo della fase diocesana del processo di beatificazione, sicuramente ci potrebbero far dire senza ombra di dubbio che lui fu uomo e pastore libero perché ha conosciuto e vissuto pienamente nella Verità. Anzi, la citazione completa: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi», renderebbe ancora più vera questa sintesi su di lui, perché ha conosciuto la Verità, è stato uomo libero.
Il capitolo 8 di Giovanni è tutto un disquisire su verità e libertà. Don Tonino direbbe due parole oggi diventate multiuso. Vanno bene per tutti e dicono tutto e il contrario di tutto, «perché esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano, i bisogni di ognuno», i banchi di prova di ciascuno.
Chi di noi non ricerca la verità? E non solo in senso religioso, fondativo della nostra esistenza? Anche la semplice curiosità di sapere e avere coscienza e conoscenza dei fatti non è forse mossa dalla molla, dalla voglia di sapere la verità?
La domanda di Pilato: «Che cosa è la verità» non è forse una domanda che ci angoscia? E non solo quando l’interrogativo è posto in termini escatologici. In La coscienza e il potere (Edizioni La Meridiana, 2013), don Tonino scrive, a proposito della domanda di Pilato:
«Bisogna smetterla con questo concetto della verità come riproduzione del reale. Quale reale? La verità non è riprodurre in positivo o in negativo un evento accaduto e riproporlo così come accaduto. La verità è la ricerca del valore…».
Vorrei pertanto provare a lasciare qualche traccia del “valore” di don Tonino: di ciò che ha avuto valore e senso in lui, di ciò che ha fatto da motore e matrice alla sua esperienza di uomo, di pastor e di credente.
Proverò a tracciare i tratti biografici di don Tonino inserendoli in un contesto di Chiesa e di luoghi dove la sua formazione e il suo impegno, le sue esperienze e le sue scelte dicono la tensione e il modo in cui scelse di spendere la sua vita. La verità come tensione, come ricerca del vero che si rivela nell’altro, e la libertà come modo, come scelta di vita.
Ci sono due nodi su cui credo sia importante riflettere a partire dal titolo e guardando all’esperienza di don Tonino: il suo rapporto con il potere nel vivere ed enunciare la Verità, e il suo vivere la libertà e nella libertà da garante di una istituzione, una istituzione gerarchica, normativa e dogmatica, secolare come la Chiesa.

1. La biografia di un uomo libero e alla ricerca del vero
L’alba di don Tonino Bello è il 18 marzo del 1935 ad Alessano, nel Salento.
Il tramonto è il 20 aprile del 1993 a Molfetta, intorno alle tre del pomeriggio. Solo 58 anni. Troppo pochi a contarli. Densi a raccontarli. Dire della geografia del luogo in cui nasce don Tonino è già dire di lui.
Alessano è un piccolo paese assolato del Salento. Vicino al mare. Ma non sul mare. Ne senti il profumo, ma devi camminare, andare, muoverti per vederlo.
È il mare che segna il finibus terrae. Chiude e apre: all’incontro tra mari dalla diversa corrente e alla scoperta di terre che vedi all’orizzonte e che sai diverse per storia da te.
È la terra dove ciò che finisce rinasce allargando gli orizzonti. È la terra degli ulivi maestosi, mai potati, i cui frutti si raccolgono per caduta, a tempo debito. Che è un tempo lento ma non perso. Un tempo che libera tempo. Tonino è il primo di tre fratelli nati dal secondo matrimonio di papà Bello. Resterà presto orfano di padre (7 anni) e primogenito. I fratelli maggiori, avuti dal padre nel precedente matrimonio, moriranno in guerra. Sono gli anni della guerra. Restano Tonino, Marcello, Trifone e mamma Maria. Una famiglia povera ma dignitosa, tenuta insieme dalla semplicità di una vita non rassegnata al destino che, in tempi di guerra, l’ha privata del sostegno economico del padre e da una donna che raccoglie le cicorie nei campi, pulisce in casa d’altri e ricama per “campare” da sola la famiglia. Ringraziando Dio e la provvidenza. Donna non rassegnata e nemmeno ripiegata. Perché povertà è anche dignità. E la dignità rende liberi.
A dieci anni Tonino entra nel seminario di Ugento. Era intelligente e portato agli studi. Bravo. Il parroco del paese anche per questo consiglia alla mamma per lui il seminario: a quei tempi i poveri facevano spesso così per far studiare i figli e garantirgli un pezzo di pane.
Dopo gli studi liceali nel seminario regionale di Molfetta, l’8 dicembre del 1950 viene ordinato sacerdote nella chiesa di Alessano. Continuano, i suoi superiori, a farlo studiare: nel 1958 è inviato a Bologna per frequentare i corsi di teologia al seminario di studi sociali dell’Onarmo. Dal Salento all’Emilia. Va nella Bologna del cardinal Lercaro, padre conciliare. La “Bologna rossa” dove l’impegno della Chiesa agiva su due fronti: la spiritualità promossa e ricercata per contrastare “i comunisti atei” e la scelta del confronto con tutti, anche con loro, nel momento in cui la città vedeva crescere nelle sue periferie potenziali aree di sviluppo territoriale ed economico, ma anche nuove questioni sociali. La Chiesa che non si chiude in difesa, ma con dignità e fermezza segna il suo compito, la sua missione diversa ricercando per il bene del suo popolo il confronto anche con chi non crede. Tra i suoi insegnanti anche Mons. Bettazzi.
Ci sarebbe rimasto volentieri a Bologna don Tonino ma, una volta laureato, la sua diocesi lo rivuole. L’investimento su di lui andava capitalizzato nella terra di origine: doveva essere il direttore del Seminario di Ugento, doveva formare ed educare le giovani generazioni di preti.
Lo mandano anche al Concilio Vaticano II, nel 1963, ad accompagnare il vescovo Ruotolo. Durante la prima sessione del Concilio fa la spola: Roma e seminario di Ugento, dove era maestro dei seminaristi. Nel frattempo, «per non perdere tempo quando stava a Roma» – la raccontava così – si iscrive all’Università Lateranense. Si laurea discutendo una tesi su “Congressi eucaristici e loro significato teologico e pastorale”. Tesi che capitalizzerà da vescovo.
Fa carriera. È nominato monsignore, all’età di ventotto anni. Un titolo. Niente di più.
Il curriculum recita: prefetto e poi vicerettore nel seminario vescovile di Ugento, assistente diocesano dell’Azione cattolica, rettore del seminario di Ugento, direttore dell’Ufficio pastorale diocesano, vicario economo nella parrocchia del S. Cuore di Ugento, parroco della chiesa della Natività di Maria Vergine a Tricase.
E fin qui la sua vita nel Salento. Fatta di incarichi e compiti portati a termine nell’obbedienza ai superiori, ma condendo il tutto con i suoi talenti. Gli sfrattati ospitati nel seminario prima ancora di chiedere il permesso al suo vescovo Mincuzzi di poterlo fare, gli incontri culturali, la squadra di pallavolo allenata e fatta arrivare ai campionati nazionali, le nuotate in mare, la caritas nella parrocchia e il coro seguito di persona, il giornale fatto con i seminaristi e le partite a pallone. Il porta a porta e il faccia a faccia: il rosario e il breviario. Un prete formatosi prima del Concilio e che esercita il suo ministero sacerdotale nell’immediato dopo Concilio. In quel già e non ancora tutto da costruire, sperimentare, osare.
Nel 1982 accetta, dopo aver rifiutato per due volte, la nomina a vescovo. È morta la madre a cui era legato. La perdita, il lutto, il distacco lo vive così: come un segno per liberare le vele. C’è una sua preghiera, La lampara1, che segna il passaggio. Un testamento per quelli che lascia e una agenda di prospettiva per quelli che troverà.
È consacrato vescovo il 30 ottobre. La diocesi è quella di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo. Un mare diverso. Anche nel profumo. Diventa vescovo restando in Puglia. Dal 21 novembre l’Episcopio di Molfetta è la sua nuova casa. Una casa dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Gli sfrattati, ai quali mette a disposizione le stanze; i poveri, i giovani, i preti. I credenti e gli atei. Una parola e una frisa.
Uno stile pastorale diverso. Conciliare. La Chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola sfogliando anche il giornale. La Chiesa cioè che impasta il Vangelo con la vita delle persone. La Chiesa del grembiule e i paramenti sacri. Il vescovo che apre la porta, ma che scende dall’Episcopio per andare a trovare la gente: gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, gli immigrati nelle campagne di Ruvo per portarli, complice don Grazio, nei locali della parrocchia; i tossicodipendenti nella comunità che, facendo debiti e sperando nella provvidenza che arriva, ma solo ai calci di rigore, ha voluto come impegno e promessa alle famiglie che gli avevano chiesto aiuto. Scende per andare a trovare i giovani: ogni martedì e mercoledì. Appuntamento fisso nelle quattro città della diocesi.
Scende per andare al funerale di Massimo, ucciso a 22 anni dal metronotte mentre stava rubando. Scende per andare dai preti anziani o ammalati a far loro di persona gli auguri di compleanno o onomastico. E invita a bussare alla sua porta il marocchino. La lettera al fratello marocchino è un documento intenso di dialogo tra culture.
Nel novembre del 1985 è eletto presidente nazionale di Pax Christi, succedendo a mons. Luigi Bettazzi. Il discepolo diventa maestro.
Un impegno che lo apre a scenari e sfide che, al suo solito modo, rilancia e rinnova.
A partire dalla Puglia. A chi la voleva arco di guerra, la prospetta come arca di pace portando l’intero episcopato pugliese alla firma di ben due documenti: la terra è di Dio e degli uomini di buona volontà.
Non è a disposizione dei mercanti di guerra. Lo grida forte. Lo gridano forte i vescovi collegialmente.
Cade il muro di Berlino. La guerra e la pace si giocano su altri scenari: il Golfo prima. La Bosnia dopo. Nel mezzo gli sbarchi degli albanesi. Siamo negli anni ‘90. Dal ‘91 con la guerra del Golfo, all’aprile del ‘93 le partite che si giocano sugli scenari internazionali e nazionali sono l’anticipo di ciò che ancora oggi è. Il ministro Scotti nell’agosto del ‘92, ebbe ad auspicare «A peste, fame et Bello libera nos, Domine». Perché negli scenari internazionali che incalzano, lui, da vescovo e Presidente di Pax Cristi, incalzava a scelte diverse: umane ancor prima che cristiane.
Don Tonino gioca la sua guerra personale con il cancro che non gli concede tempo, prendendosi il tempo per lasciare segni ancora una volta profetici: in 500 a Sarajevo a dicembre del ‘92. Una follia. Un sogno. Un’impresa. Un segno di un modo diverso di agire la pace nei conflitti “moderni”. Sceglie di morire da vescovo nella sua diocesi e trasforma il letto della sua agonia in una cattedra di speranza. Fino alla fine. Chiede di essere sepolto ad Alessano. E lì, respirando la brezza che viene dal mare non molto lontano, in molti gli fanno visita. Ogni anno di più.
Il 27 novembre del 2007, la Congregazione per le cause dei santi dà il suo nulla osta per l’apertura del Processo della Causa di beatificazione e canonizzazione di don Tonino Bello. A novembre del 2013 i plichi con le carte della fase diocesana vengono sigillati e iniziano il loro viaggio verso Roma, verso la Commissione per le cause dei Santi. In oltre 50mila partecipano ai suoi funerali. È un pomeriggio di aprile. Sul porto di Molfetta un tiepido raggio di sole e la brezza del mare illuminano il Vangelo sfogliandone le pagine. Molti anni dopo la stessa cosa accade al funerale di Giovanni Paolo II. Forse il sole e il vento fanno così con quelli che riconoscono santi.
Quella di don Tonio è la biografia di un uomo libero perché obbediente e alla ricerca del vero nell’incontro con l’altro: ogni altro. Lettore curioso del filosofo francese di origine ebrea Levinas e della sua etica del volto, don Tonino parla di volti rivolti, di volti cioè che guardano e si guardano incrociando sguardi ed esperienze, attenzioni e condivisioni.

2. Quale rapporto con il Potere deriva in don Tonino dalla certezza della Verità
La domanda da cui parto è quella di chiunque abbia indagato il rapporto tra potere e verità: può esistere una verità priva di potere di influenza sulle cose e le persone? O un potere che non coltivi l’ambizione della vicinanza ad un contenuto di verità?
Lo stesso Giovanni dice: «La verità vi rende liberi» dando al possesso della verità la capacità della libertà. In un uomo di potere, quale un vescovo è, non si può non indagare questo rapporto. Per dirla con Foucolt, il possesso della verità ci pone in una posizione di potere.
Il potere in don Tonino non è vissuto come dominio, ma come esperienza di dinamiche aperte, di scambi, di relazioni di potere, cioè di possibilità.
Agli inizi del suo Episcopato, anzi, il primo giorno del suo ingresso in diocesi – è don Tonino stesso a raccontarne – viene avvicinato da un amico sacerdote che lo sprona ad entrare subito in azione, perché nessuno dovesse avvertire “vuoti di potere”.
«Rimasi visibilmente contrariato, come vescovo ancora fresco di unzione i miei auspici erano proprio quelli di creare “vuoti di potere”. Con quella frase invece mi vedevo ridotto al rango di barattolo con una etichetta di classe. Magari con lo stemma. Ma sempre barattolo: destinato a contenere gli ingredienti del piglio autoritario, una forte dose di sicurezza decisionale, una discreta concentrazione di furbizia diplomatica, e un pizzico di improntitudine che fosse la traduzione formato “salsa” del classico pugno di ferro nel guanto di velluto»2.
Il vuoto di potere è cioè un pieno di servizio. «So certamente una cosa – continua don Tonino nello stesso scritto –: che si va radicando in me, almeno a livello teorico, la convinzione che, tra le insegne pontificali, il Cerimoniale episcopo rum dovrebbe prevedere, oltre all’anello, alla mitra e al pastorale, anche una brocca, un catino e un asciugatoio. E non certo per esigenze di copione o perché la Chiesa “del grembiule” sia una immagine di più sicura presa emotiva. Ma perché è l’immagine che meglio esprime la regalità della Chiesa per la quale, come per Cristo, regnare significa servire».
C’è in questa immagine di Chiesa l’idea della Caritas in veritate di Benedetto XVI. «Il servizio è sviluppo. Lo sviluppo ha bisogno della verità – della ricerca del vero direbbe don Tonino. L’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere con effetti disgregatori sulla società».
Ma c’è anche un passaggio molto forte dell’enciclica di Papa Francesco Evangelii gaudium: «Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società.
Queste convinzioni e pratiche di solidarietà, quando si fanno carne, aprono la strada ad altre trasformazioni strutturali e le rendono possibili. Un cambiamento nelle strutture che non generi nuove convinzioni e atteggiamenti farà sì che quelle stesse strutture presto o tardi diventino corrotte, pesanti e inefficaci».
Per questo don Tonino parla di caritas sine modo. Caritas come amore. E caritas sine modo: «Amore cioè senza misura. Disposto a giocare in perdita per il bene del prossimo. Felice di pagare prezzi da capogiro pur di salvare una vita umana. Capace di raggiungere il più indisponente nemico. Deciso a scavalcare le lusinghe della violenza, anche quando c’è da recuperare un sacrosanto diritto»3.
Il vuoto di potere non è la dismissione della ricerca del vero, non è la difesa, ma l’uso della verità per andare incontro all’altro. Se vogliamo è la ricerca affannosa e incalzante delle forme inedite nelle quali il vero si incarna nel qui e ora. E se per il cristiano la Verità è il Cristo incarnato, il vuoto di potere è la ricerca delle forme nuove, dei volti nuovi, delle nuove forme di povertà, di fragilità di umanità, in cui Cristo si incarna. Dice Francesco nella Evangelium Gaudium:
«Invito tutti ad essere audaci e creativi… senza divieti né paure». E ancora: «A volte la paura ci paralizza troppo. Se consentiamo ai dubbi e ai timori di soffocare qualsiasi audacia, può accadere che al posto di essere creativi semplicemente noi restiamo comodi senza provocare nessun avanzamento». Diceva le stesse cose don Tonino, rivolgendosi ai giovani: «Ci vuole audacia. La vita che state vivendo vivetela in modo denso. Poiché non tornerà più. E non abbiate paura di entusiasmarvi per le cose.
Molti di voi hanno paura. Hanno paura che un giorno la Storia, il loro futuro possa ridacchiare sul loro presente. Molti hanno paura di esporsi. Per non correre il rischio di subire il contraccolpo di questa disunione tra i sogni di oggi e la realtà di domani, preferiscono non sognare. E questo significa dare le dimissioni dalla Vita. Io vi voglio augurare che non abbiate a perdere la dimensione della quotidianità e del sogno. Scavate sotto il vostro lettuccio e troverete il tesoro. Non siate inutili, siate irripetibili»4.
La verità, dunque, come esercizio di relazioni infinite di possibilità di potere, servendo senza misura. La verità non come tutela del possesso, ma come ricerca da osare.

3. Il rapporto tra libertà e istituzione
In un vescovo, cioè in un tassello espressione di una gerarchia di una Istituzione che per secoli ha replicato se stessa, e che sceglie i suoi “generali” è importante indagare il rapporto tra libertà, esercizio della propria libertà e l’essere garante della stessa istituzioni, diun nomos, di una legge, declinata secondo precetti, riti, tradizioni, dogmi.
«Lo spazio della libertà è la coscienza di ognuno». Lo dice don Tonino, ma lo diciamo con convinzione anche noi. Per un uomo dell’istituzione il rapporto tra coscienza e potere, tra ruolo e servizio, tra conservazione e cambiamento, tra dogma e fede, determina non solo la sua libertà di coscienza, ma anche la libertà degli altri.
«Sento pure io, il peso, il richiamo, della struttura. Il peso delle istituzioni sì lo sento, perché sono vescovo, sono prete; però mi viene lasciato molto spazio perché per parte mia io sia un ministro che non fa sentire molto sugli altri il peso del suo ruolo. Io posso farlo come vescovo». E continua: «Cosa può fare un vescovo per non venire stritolato dalla struttura? Io penso: dare un grandissimo ascolto alla coscienza… una coscienza illuminata, cioè una coscienza eteronoma, non autonoma. Illuminata dalla parola di Dio, dalla parola del Papa, dagli altri vescovi, dai confratelli, dalla parola della comunità. La coscienza non è mai il parlamento dove si riproducono le leggi, la coscienza è il Tribunale dove c’è una legge dall’esterno che viene a fare sintesi con la mia libertà»5.
Per don Tonino essere nella struttura, obbedire alla legge significa generare corto circuito all’interno della struttura e temperare la pretesa di ogni struttura di proclamarsi eterna. La sintesi, cioè l’esercizio della propria libertà di coscienza, non viene prima, ma viene dopo la parola di Dio, la parola del Papa, degli altri vescovi, dei confratelli, della parola della comunità. Cioè l’esercizio della libertà è l’esercizio della parresia nella Chiesa, della ricerca prima e della proclamazione del vero dopo. Il confronto con gli altri rende l’esercizio della nostra libertà di coscienza servizio agli altri.
Vorrei concludere tornando indietro su una domanda.
Per un credente, per un cristiano, la verità è la parola incarnata, che si invera ogni giorno.
Ma quale verità rende veramente liberi? Proprio perché anche per noi credenti la parola verità è spesso una parola multiuso, credo che un soccorso da don Tonino ci possa aiutare.
Nell’agosto del ‘92, chiamato ad Assise a parlare di come di fronte alle sfide dell’unione di popoli diversi le religioni, anzi la sua religione, il suo credo, la sua certezza di Verità, doveva collocarsi, don Tonino pronuncia un discorso profetico che ancora oggi di fronte alle sfide che la globalizzazione ci pone, resta un fondamento: «Una Chiesa che voglia contribuire alla crescita della casa comune deve anzitutto fare i conti con i mezzi deboli: guai se dovesse contare sulle lusinghe del potere o sul fallimento delle ideologie. Perché, contare sul fallimento degli altri, che senso avrebbe? La Chiesa – tutte le Chiese – deve sperimentare sulla sua pelle l’onnidebolezza di Dio, come diceva Bonhoeffer. Parliamo dell’onnipotenza di Dio, ma c’è anche l’onnidebolezza di Dio che muore sulla croce.
Una Chiesa che voglia essere compagna dell’uomo e testimone dello Spirito deve liberarsi del complesso di superiorità nei confronti del mondo, anzi, deve essere disposta a perdersi.
Questo lo dico per tutte le religioni. Quando tutte le religioni saranno capaci di dare la vita per l’uomo – mi sembra un’idea folgorante questa – allora scompariranno anche le loro contrapposizioni.
Quando le Chiese saranno disponibili a questa oblatività completa, scompariranno anche le loro contraddizioni.
Nel libro, per certi versi discutibile ma illuminante, di padre Balducci, L’uomo planetario, è riportato un episodio che ha la forza di un apologo: “Il 3 febbraio del ‘43 nelle acque della Groenlandia una nave, colpita da un siluro tedesco, stava per affondare. Chi non aveva il salvagente era perduto. Nella lotta selvaggia per la vita – racconta un testimone – quattro uomini rimasero calmi e consapevoli.
Erano quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici. Si erano legati l’uno all’altro per non cadere dalla coperta viscida e già fortemente inclinata. Tutti e quattro avevano avuto la loro cintura di salvataggio; l’avevano avuta, ma ciascuno, in quel momento di tenerezza e di sofferenza, aveva offerto la propria cintura di salvataggio ad un uomo dell’equipaggio.
Allorché la nave si impennò, prima di calare a picco tra i flutti, si videro i quattro cappellani per l’ultima volta: stavano ritti e immobili, tenendosi per mano, addossati contro il parapetto. Stavano pregando. Poi il mare si chiuse su di loro”.
Questo racconto mi sembra splendido per la sua forza evocativa. Stiamo parlando della fine delle religioni che si inabissano e l’inizio contestuale voluto, scelto, dell’unica religione che finalmente assume come valore sommo la salvezza dell’uomo, anche mediante il dono della propria vita. Allora sì che le religioni mostrano di essere state partorite dall’amore e non dal timore»6.
Ecco la verità che ci rende liberi è la verità partorita dall’amore, non dal timore, dal dono, non dal possesso. È una verità antica che talvolta uomini e pastori come don Tonino ci ricordano come essenziali.
L’uso da farsi dipende dalla libertà che in coscienza ognuno di noi vorrà esercitare per sé e per gli altri con l’augurio e l’auspicio di poter essere per ognuno che incontriamo un’occasione di incontro significativa. 

NOTE
1 T. Bello, Parole d’amore. Preghiere, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2010.
2 T. Bello, Sud a caro prezzo, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2007.
3 T. Bello, Senza misura, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2010.
4 T. Bello, Ci vuole audacia. Lettere ai giovani, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2009.
5 T. Bello, La coscienza e il potere. Conversazione con Nicola Magrone, Guglielmo Minervini e Clara Zagaria, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2013.
6 T. Bello, La bisaccia del cercatore. Scarti minimi per il futuro, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2007.