N.04
Luglio/Agosto 2000

Il padre prodigo: storia d’una vocazione perduta e ritrovata

Un brigante, un vecchio brigante – racconta un’antica storia dei monaci del deserto – si sentì male, stava per morire, e venne a bussare alla porta d’un monastero. “Dio avrà misericordia di me”, disse al monaco che era venuto a soccorrerlo. “Come fai a esserne così sicuro?”, fece il monaco. “Perché è il suo mestiere”, ribatté il brigante. Morale della favola: nel regno di Dio anche un vecchio brigante può fare teologia… E darci una lezione che c’introduce mirabilmente in questa conversazione.

È interessante notare che, nell’anno dello Spirito, il versetto più citato in conferenze, prediche, convegni sull’identità dello Spirito è stato Gv 3,7: “il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”, a sottolineare la libertà dello Spirito e l’anelito di libertà esistente da sempre in ogni uomo e particolarmente oggi, nel mondo e nella chiesa. Allo stesso modo l’icona biblica che viene più rappresentata e commentata in questo terzo e ultimo anno di preparazione al Giubileo è quella del Padre buono che abbraccia il figlio che torna dopo il tempo del peccato, magari nella rappresentazione artistica di Rembrandt (e il bellissimo commento di Nouwen)[1], a raccontarci che la misericordia è non solo il “mestiere” di Dio, ma il suo nome, la sua ricchezza (Dio è “ricco di misericordia”), è la sua festa, come ci spiega Gesù stesso. Al punto che questa parabola sta diventando sempre più la parabola del padre prodigo. Se c’è uno che è prodigo, qui, è certamente il padre, molto più prodigo nello “spreco” del suo amore che perdona di quanto il figlio sia prodigo nel suo peccato, e padre che dona all’uomo la libertà d’esser veramente se stesso, di ritrovare la sua dignità, di godere dell’abbraccio e del bacio di Dio, accettando il suo invito al banchetto, la sua chiamata a esser davvero figlio, in maniera assolutamente impensata.

L’ipotesi di partenza di questa conversazione è proprio questa: la vocazione è un fenomeno di riconciliazione, è evento che ci riconcilia con noi stessi, col Padre e i fratelli; con il passato e il futuro, passando per il presente; con la verità e bellezza della vita, con le sue ferite e …ingiustizie. La riconciliazione è ciò che viene prima e pure dopo la vocazione; ne è condizione previa, ma anche frutto maturo e saporito. Manterremo sullo sfondo esattamente la parabola del padre prodigo, nel suo significato classico, anzitutto, (Dio come padre che aspetta e perdona, e noi come figli peccatori che tornano e scoprono la loro vocazione), ma anche identificando dentro ciascuno di noi tutti e tre i personaggi della parabola, come se ognuno di noi fosse ora padre che attende, ora “figlio tornante”, ora fratello indisponente e indisposto, o al tempo stesso tutti e tre i personaggi.

Concretamente divideremo l’intervento in quattro parti: nella prima prenderemo in considerazione significato e dimensioni della “riconciliazione vocazionale”; nelle successive proporremo un’analisi di questa riconciliazione a partire proprio dai tre personaggi della parabola, visti nella loro personale capacità d’integrazione del loro vissuto, o della loro memoria più o meno riconciliata e riconciliante. Il tutto per cogliere, tra le righe di questa meravigliosa parabola, il senso di quell’itinerario vocazionale che dovrebbe compiersi in un cammino d’accompagnamento spirituale. Concluderemo con una considerazione sul prossimo Giubileo, anno di grazia e misericordia, per domandarci: non potrebbe e dovrebbe essere anche anno o Giubileo vocazionale?

 

 

 

RICONCILIAZIONE E VOCAZIONE:

I TERMINI DEL MISTERO

 

Anzitutto è importante che c’intendiamo sui termini, e che cerchiamo di chiarire i concetti e i dinamismi decisivi in questa operazione, oltre ai personaggi in essa implicati e operanti dentro ciascuno di noi. Quando c’è di mezzo l’opzione vocazionale noi sappiamo che ci muoviamo in un contesto di mistero, in cui nulla deve essere dato per scontato.

 

Le parole della riconciliazione vocazionale

Non si tratta di scoprire o inventare nulla; esiste già un’abbondantissima letteratura al riguardo. Noi vorremmo ora mettere insieme due realtà non sempre, in verità, poste l’una accanto all’altra: riconciliazione e vocazione, ove l’elemento più importante è la congiunzione. Da questo incontro forse inedito nascono significati in parte nuovi e che in ogni caso è indispensabile premettere e specificare all’inizio della nostra riflessione. Naturalmente non cerchiamo definizioni filosofiche, ma ci poniamo nella prospettiva peculiare del credente.

 

Memoria

La memoria, per il credente, è l’organo della fede, o il mediatore psichico centrale e decisivo. È l’atteggiamento della mente che riconosce nel vissuto personale e conserva nel cuore le tracce del passaggio dell’Eterno. In tal senso la fede è questione soprattutto di memoria. Come la fede del pio Israelita, che credeva ricordando e ricordava credendo. Dunque c’è perfetta sintonia e simmetria nel credente, tra ricordare e credere. Proprio per questo Mosè ricordava e raccomandava agli Ebrei così tanto, prima di morire, di “non dimenticare quello che i vostri occhi hanno visto” (Dt 11,3-7; 32,7); proprio per questo, per non dimenticare nasce la liturgia; mentre Dio-JHWH è esattamente colui che non dimentica il suo popolo e ricorda la sua alleanza per sempre[2].

 

Memoria riconciliata

La memoria è riconciliata quando il credente vede e legge nel suo vissuto una logica d’amore pensata e messa in atto da Dio. La riconciliazione è un fenomeno, dal punto di vista psicologico, d’integrazione, ovvero di capacità di raccogliere tutta la vita, con tutti i suoi frammenti, attorno a una verità centrale, capace di dar significato a tutto, di tenere tutto unito, come una fonte di luce e di calore che illumina e riscalda tutto (“nulla si sottrae al suo calore”, canta il salmo 18); dunque la piena e vera riconciliazione si ha non solo quando uno perdona chi nel suo passato gli ha fatto un torto, ma quando riesce a far girare tutta la sua storia attorno al centro vitale e significativo, luminoso e caloroso dell’amore del Padre, che ha voluto riconciliare – rappacificare – ricapitolare tutte le cose in Cristo e nel sangue della sua croce (cfr. Ef 1,10; Col 1,20). È la potenza d’attrazione della croce: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti (tutto) a me” (Gv 12,32).

 

Riconciliazione vocazionale

È probabilmente l’espressione che ha più bisogno di spiegazione. È di fatto la conseguenza dell’operazione precedente: quando la memoria è riconciliata, ovvero quando è riuscita a far convergere tutti i frammenti esistenziali verso quel centro gravitazionale che è l’amore di Dio, allora quei frammenti si ricompongono in un tutto significativo e assolutamente originale, assumono una forma unica – singola – irripetibile, una forma che è la vocazione della persona, la sua identità, e che esprime un’interpretazione del tutto originale del pensiero di Dio, come una sua variazione. È il mistero della sua volontà (e del progetto d’un essere umano) che si svela solo dopo, rigorosamente parlando, che “il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ef 1,10) s’è compiuto. Il senso teologico e psicologico di questa “riconciliazione vocazionale” mi sembra evidente e notevole; ed è qualcosa, lo ripetiamo, che va ben oltre la semplice benevola comprensione assolutoria per uno sgarbo o un’ingiustizia ricevuti. La vocazione ha la memoria buona, cioè riconciliata…

 

I dinamismi della riconciliazione vocazionale

Cerchiamo allora di vedere alcuni dinamismi tipici di questo tipo d’operazione mnestica.

 

Dal ricordare al “fare memoria”

Come abbiamo già intravisto tale tipo di memoria non è semplice “tenere a mente”, operazione passiva legata a una capacità innata (c’è chi ha buona memoria e chi no), o attività neutra mentale completamente sganciata dal contenuto o dal significato di ciò che è ricordato (la memoria degl’indirizzi o dei numeri telefonici), né pretesa di accumulare un’infinità di dati come un computer (che ha una grande memoria, ma …non è intelligente), o come un mare senza sponde sulla cui superficie galleggiano casualmente i relitti del passato, a volte simili a reduci più o meno malconci di qualche guerra; ma implica un coinvolgimento pieno di mente e cuore del credente, secondo l’espressione biblica, tipica e insuperabile, del “fare memoria”, che in qualche maniera elimina la differenza di tempo, crea contemporaneità tra passato e presente, tra colui che ricorda e ciò che è ricordato, e soprattutto chiede a colui che “fa memoria” l’esercizio esplicito dell’intelligenza che capisce o cerca di capire, di scoprire o dare un significato, di cogliere connessioni tra i fatti, nessi più o meno evidenti. Il “fare memoria” è uno dei più attendibili segnali d’intelligenza. È qualcosa di molto attivo e dinamico, e che solo quando è interpretato in tal senso diventa scoperta della logica della vita, di quel cordino rosso che lega tra loro tutti gli eventi, o di quel “cantus firmus”, pacato e discreto, che risuona in ogni segmento o arpeggio esistenziale. Questo “cantus firmus” potrebbe “dare il là” anche alla sinfonia dell’esistenza futura, o costituire come la base e la premessa della scelta vocazionale.

 

Dalla disintegrazione all’integrazione

Ciò che non si ricorda si disintegra, si perde nel nulla del non senso, come un corpo celeste uscito dalle orbite delle forze gravitazionali. O, al contrario, ha forza disintegrante, ovvero, sfuggendo a qualsiasi possibilità di controllo, come meteora impazzita, può avere una ricaduta rovinosa sull’equilibrio generale della persona.

La memoria credente, invece, fa un lavoro di integrazione, che forse è il lavoro tipico dello Spirito santo, la memoria di Dio (colui che “vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”, Gv 14,26): riconduce al centro, riscalda ciò che è freddo e sana ciò che è ferito, o illumina di significato ciò che ancora sembra privo di senso, e in tal modo fa sì che la forza centripeta prevalga su quella centrifuga. Concretamente accompagna tutto quell’itinerario di lettura della vita passata, che parte dal riconoscimento di quanto in essa è successo, e progressivamente giunge all’accettazione, e poi alla riappropriazione e all’avvio del tentativo di risignificare soprattutto avvenimenti dolorosi o apparentemente negativi o insensati, e giungere infine alla piena integrazione d’essi e alla piena unificazione dell’anima con se stessa e la sua tradizione storica, segnata dalla trasformazione – trasfigurazione di ciò che era brutto, freddo, oscuro, ambiguo, nemico, assurdo… in bello, caloroso, luminoso, trasparente, amico, ricco di senso… La memoria, così, è sempre più ricca di Dio, mentre la propria vita appare sempre più come storia di Dio. E non storia qualsiasi, ma che va in una direzione precisa…

 

Dalla conoscenza alla ri-conoscenza

A questo punto la lettura della propria storia diventa vera e propria operazione spirituale, esercizio tipico dell’uomo credente, tutt’altro che semplice rivisitazione psicologica o nostalgico diario narcisistico. E allora, proprio perché è illuminata dallo sguardo credente, questa rinnovata conoscenza della propria storia diventa ri-conoscenza, rendimento di grazie al Dio della misericordia che ha riempito di beni la vita dell’uomo, “che ha guardato all’umiltà della sua serva”: è la logica del Magnificat. La memoria non è forse la gratitudine del cuore? 

E proprio perché tale, la memoria pone le premesse perché la scelta del futuro sia scelta credente. Le premesse sono queste due: se Dio mi ha amato continuerà per sempre ad amarmi, il futuro, allora, non mi fa più paura se Lui è al mio fianco; seconda premessa, se Dio mi ha amato così tanto allora io non potrò fare a meno di riamarlo, o di pensare la mia vita nella logica della donazione, nella convinzione che per quanto mi donerò non pareggerò mai il conto con quel che ho ricevuto. La vocazione e la scelta vocazionale è tutta racchiusa in quel “donarmi”, libero e pure inevitabile, umilissimo e generosissimo. Come la riconciliazione è vocazionale, così lo è pure la riconoscenza; l’autentica vocazione “nasce sul terreno fecondo della gratitudine, poiché la vocazione è risposta, non iniziativa del singolo: è essere scelti, non scegliere”[3].

 

Personaggi e interpreti

Li abbiamo già indicati, sono il padre prodigo, il figlio minore, il fratello maggiore della parabola di Lc 15. E ribadiamo che tali personaggi non sono esterni a noi, visibili nel palcoscenico della vita, come un alter ego in cui possiamo a turno proiettare noi stessi, ma ci abitano dentro, tutti e tre, come tre diversi modi di porci dinanzi alla nostra vita passata o di vivere la riconciliazione perché sia vocazionale o no. Come ben dice Maurice: “Questa è una parabola? No, è una storia vera, la storia di tutti i ritorni a Dio”.

Nel nostro cuore troviamo di tutto: travi e pagliuzze, voglia di giustizia e bisogno di misericordia, sentimenti di bontà e desideri cattivi, virtù e vizi. Nel nostro cuore dormono insieme il santo e il brigante, il pubblicano pentito e il peccatore impenitente. C’è in noi un padre, o un atteggiamento paterno nei confronti di noi stessi, che genera in ciascuno di noi la certezza d’essere amati, riaccolti e riamati sempre di nuovo, come una memoria amoris, che poi apre a un futuro inedito. È un padre che fa anche da madre (ecco, forse, perché non c’è la mamma in questa storia).

C’è una parte di noi in cui è particolarmente evidente la nostra debolezza, dal passato doloroso e lacerato: è proprio questa parte che deve “tornare” e che deve, soprattutto, fare il cammino della riconciliazione, come una via crucis et lucis, o una discesa agl’inferi seguita poi dall’ascesa al monte santo di Dio, della visione beatifica, dell’abbraccio – bacio paterno. Ma c’è anche un’altra parte di noi cui sembra non star bene questo ritorno, che s’oppone a esso, che non sa ricordare bene o forse non vuole ricordare, triste e smemorata, è l’antifiglio e l’antifratello, colui che non accetta l’invito o la chiamata – vocazione al banchetto e alla festa, è l’amnesia dell’amore (e della vocazione).

La vocazione è esattamente la sintesi o la risultante di quella memoria (dell’amore) e di quel cammino (di riconciliazione); la non vocazione è tutto quanto s’oppone a questo incontro. Vediamoli questi personaggi cominciando proprio dall’ultimo, e assieme cerchiamo pure di vedere come aiutare, nell’accompagnamento spirituale, ad attivare nel giovane i dinamismi giusti per giungere alla riconciliazione vocazionale.

 

 

 

IL FIGLIO MAGGIORE: L’AMNESIA DELL’AMORE

O L’OBLIO DELLA MEMORIA

 

Il figlio “maggiore” della parabola di Luca è in qualche modo immagine della memoria malata, o d’un modo strano di porsi dinanzi al proprio (e altrui) passato.

 

Condannato ai lavori forzati

Fondamentalmente tale individuo è un ingrato, non riconosce tutti i beni ricevuti, anzi, non s’accorge nemmeno d’essere sempre stato nella casa del Padre, d’avere un padre di cui è figlio e che con lui ha condiviso e condivide tutti i suoi beni. È come fosse orfano, senza radici né relazioni, senza fratelli né genitori; s’è fatto – da – sé, in perfetta autonomia, non ha nessuno da ringraziare, o almeno la sua memoria non lo sollecita in tal senso. Quel buon vecchio che si dice suo genitore lui lo ha sempre sentito come un capo, un superiore cui s’è vergognato di chiedere anche il permesso di fare una festa con gli amici, un padrone cui per tutta la vita ha reso un servizio che l’ha reso schiavo, condannato ai lavori forzati, o un’autorità così temuta da non aver mai trasgredito un sol comando; un tirchione che non gli ha mai fatto un regalo; un ingenuo che s’è fatto ingannare da un figlio furbo e ora si lascia raggirare da un finto pentito; o forse il solito padre moderno che fa preferenze e predilige il figlio più giovane mezzo matto e non apprezza il più anziano fedele. A un livello più profondo di lettura tale figlio “maggiore” rappresenta il censore severo e moralista che abita dentro ciascuno di noi e che si oppone al “ritorno”, al recupero della parte smarrita; è quella dimensione dell’io orgoglioso e presuntuoso che non vuole e non sa accettare le proprie debolezze, che vorrebbe sconfiggere e annullare per sempre ogni limite e immaturità, che non ha mai imparato a integrare il proprio passato e a riconoscere – ricordare, dentro la sua debolezza, la misericordia del Padre.

Tale modo innaturale di guardare alla propria vita, passata e presente, non apre certo al futuro, alla fiducia, alla festa, alla convivialità, alla riconciliazione vocazionale, a una prospettiva di vita in cui la gratitudine per il bene ricevuto diventa gratuità del dono inevitabile e pure libero di sé. Questo figlio maggiore, dicevamo, anzi questo orfano abita dentro ciascuno di noi e, se non è riconosciuto, fa danni enormi. Particolarmente tante volte è proprio lui che impedisce a molti giovani qualsiasi riconciliazione, qualsiasi ri-conoscenza, come conoscenza sempre nuova nella propria storia d’una presenza, d’un significato, d’una logica… da cui dedurre il proprio progetto di vita. Potremmo spingerci a dire che questo sgradito e nascosto ospite è il maggiore responsabile della crisi vocazionale. Non è raro, infatti, trovare anche oggi giovani (e non più giovani) che non sono affatto riconciliati con la loro vita e il loro passato, e leggono in modo distorto la loro storia, giovani con una memoria malata. Nell’era dei grandi sistemi d’immagazzinamento di dati in depositi di memorie praticamente illimitati, vi sono sempre più fenomeni di amnesia, di segmenti di vita mai rivisitati, a causa di misteriosi virus che contaminano la memoria o rendono il credente smemorato, incapace di riconoscere e raccontare la parabola della sua storia, per trovare in essa lo spunto originario della sua vocazione, o virus che addirittura cancellano parte della vita, forse la parte più debole, con tutto quel mistero di grazia divina che agisce nella debolezza umana, virus diabolici.

Vediamo almeno alcuni tipi di memoria malata e non riconciliata, o di lettura distorta del proprio vissuto.

 

I virus della memoria

Possono esser tante, cerchiamo di cogliere quelle più rilevanti nel cammino giovanile alla scoperta di sé e del proprio progetto di vita.

 

Memoria apatica

Sarebbe il modo di ricordare di colui che non si commuove, che ha perso la libertà di commuoversi dinanzi al bene ricevuto. Lo considera quasi un diritto. E dunque non ringrazia nessuno; non sente l’esigenza di “tornare indietro” nella sua storia per rendere grazie a quanti lo hanno beneficato, dai genitori a tante altre oscure e semplici mediazioni dell’amore eterno. Ammettiamo che questa gratitudine non ci viene così naturale. Nel vangelo l’episodio dei dieci lebbrosi ci dice che su dieci uno solo “tornò indietro per ringraziare Gesù”. Memoria sana è la capacità di “tornare indietro” nella vita, continuamente, per cercare e trovare sempre nuovi motivi di gratitudine. Un cammino di direzione spirituale dovrebbe favorire questo ritorno.

 

Memoria parziale

È la memoria di chi ricorda solo una parte della vita, magari quella negativa, o sottolinea gli inevitabili lati oscuri e pesanti dell’esistenza, come non vi fossero che quelli. Sono in molti a commettere questo errore di prospettiva, che di solito oscura la componente positiva della vita, che pure c’è, ma che è spesso non abbastanza apprezzata, quasi data per scontata e, ancora una volta, lasciata inerte, quasi dimenticata.  Altre volte la parte che viene rimossa è quella negativa, proprio perché l’individuo non l’ha integrata, la teme, non saprebbe come significarla, e preferisce ignorarla o addirittura cancellarla, se potesse. Diciamo pure che tale eventualità non è così rara: nella vita di ognuno di noi c’è un negativo un po’ emarginato dalla coscienza e che attende d’essere riconciliato-integrato. Perché mistero e vocazione dell’io sono nascosti anche lì.

 

Memoria superficiale

È quel modo di ricordare che registra solo i fatti eclatanti, sensazionali, vincenti, le esperienze straordinarie di Dio o quelle in cui è più facilmente leggibile il senso della sua presenza, escludendo tutto il resto. È memoria legata alla poca fede di chi nel vangelo pretende da Gesù i segni sensazionali, o di chi ha imparato a riconoscere il divino solo nel vento impetuoso che spacca i monti, o nel terremoto o nel fuoco…, e non s’accorge che esso abita nel “mormorio d’un vento leggero” (1 Re 19,9-14). I due discepoli di Emmaus in fondo mostrano proprio una memoria superficiale quando raccontano allo “straniero” la loro delusione per quel che è avvenuto.

 

Memoria nostalgica

È quel modo di idealizzare il passato che lo contrappone al presente e chiude al futuro. Come gli Ebrei, nel deserto, che rimpiangono addirittura un passato di schiavitù come un passato favoloso perché avevano aglio e cipolle a sazietà. E proprio per questo si rifiutano di lasciarsi liberare dalla mano potente di JHWH e di camminare verso la terra promessa. Diverso, invece, è il pianto struggente dell’Ebreo esule che lungo i fiumi di Babilonia ricorda la terra dei suoi padri e sogna il giorno del ritorno: qui il ricordo dà la forza di sostenere il presente e apre al futuro.

 

Memoria lamentosa-arrabbiata

È lo stile di chi scopre nel suo passato solo o soprattutto torti e ingiustizie di cui sarebbe stato vittima o quanto, in qualche modo, sarebbe alla radice delle sue attuali immaturità o problemi. Il passato, in questi casi, funziona da alibi che giustifica il presente e deresponsabilizza il soggetto. Un po’ come il paralitico alla piscina di Betzata, che se la prende – ma non più di tanto – con gli altri, col fatto che lui non ha nessuno che lo spinga nell’acqua, e rischia di passare tutta la vita ai bordi d’una piscina, sempre più paralizzato o convinto d’esserlo o abile a fingerlo… Possibile variante, chi non è ancora riconciliato con alcune figure del suo passato o si porta dietro rancori e risentimenti, a volte anche piuttosto intensi, che influiranno non poco sui suoi rapporti presenti e le sue scelte future.

 

Memoria insensata-distorta

Rappresenta quel modo un po’ “sfaticato” di ricordare che non fa alcuno sforzo di connettere tra loro gli avvenimenti, non ne coglie il senso profondo (come tutto fosse senza senso, semplicemente legato al caso), e non ne ricava – di conseguenza – alcuna direzione per il presente e l’avvenire. Forse questa è la modalità più frequente di ricordare: si ricordano i fatti, sconnessi tra loro, senza alcuna continuità né connessione tra loro, senza quel cordino rosso di cui dicevamo e dunque senza neppure alcuna indicazione per la vita futura. È evidente che questa memoria insensata può giungere anche al punto di distorcere il vero senso degli eventi.

 

Memoria disperata

È il modo di ricordare tipico di chi crede di poter elencare solo insuccessi e fallimenti nel suo passato, a vari livelli, di fronte ai quali può solo ammettere, con rammarico e delusione, lo scacco. Un po’ come il figlio prodigo dinanzi alla constatazione del suo sbaglio e della sua trasgressione. Ma almeno lui intravede una via d’uscita, per quanto relativa, ma spesso chi ricorda così non vede alcuna prospettiva futura, è come schiacciato dalla pesantezza del suo passato. Oppure, sottilmente, se ne serve come d’un alibi, ancora, che giustificherebbe una certa inerzia vocazionale o una pretesa impossibilità di tendere troppo in alto. Come abbiamo visto, tutti questi virus inibiscono in modo più o meno evidente la capacità di scelta e la possibilità di fare un’autentica scelta vocazionale. Chi è ancora arrabbiato con la propria storia, o si sente vittima d’un passato ingiusto e sfortunato, o non intravede un senso nel proprio vissuto, non può certo aprirsi a una prospettiva vocazionale. Al contrario, sarebbe da dubitare d’una vocazione con la memoria non riconciliata o non abbastanza grata.

Ma è già buona cosa, anzi, è indispensabile, che nel cammino d’accompagnamento la guida si accorga di queste malattie della memoria, eventualmente riconosca in esse la ragione di certi rifiuti e la radice di certi modi di leggere la vita e d’una certa cultura soggettiva a-vocazionale. Ovvio che figli o fratelli “maggiori”, con la loro memoria malata, sono cordialmente pregati di non fare gli animatori vocazionali, rovinerebbero la festa del Padre e contaminerebbero coi loro virus le memorie altrui! 

Altra conclusione: se così complessa e contorta è la vicenda, molte volte, del ricordare, allora non è così semplice e automatico “guarire la memoria”; non vi si giunge, vogliamo dire, in un atto istantaneo o aspettando la solita illuminazione dall’alto che all’improvviso sani le ferite, ma normalmente per un cammino lungo e a suo modo faticoso, attraverso il quale lo Spirito, che è la memoria buona o la memoria di Dio in noi, cambia lentamente il cuore e la mente. Cerchiamo, allora, di vedere almeno alcuni snodi di questo percorso umano-divino.

 

 

IL PADRE PRODIGO:

LA “MEMORIA AMORIS”

 

La figura del padre nella parabola di Luca è prima di tutto, e in modo particolare, l’immagine di quel padre che ognuno di noi è chiamato a essere nei confronti di se stesso, della propria parte malata e debole, come dell’altra parte tentata di presunzione e autosufficienza; anzi, è segno di quella paternità e maternità con cui ognuno di noi dovrebbe continuamente generare il suo io, il suo uomo nuovo, costantemente chiamato a cercare e trovare il suo proprio centro (o baricentro), quel punto nel quale il suo passato incontra il suo futuro e attorno al quale costruire la propria identità vocazionale. Discernere la chiamata vuol dire, in fondo, assumere un atteggiamento paterno nei propri confronti, esser in qualche modo padre di sé; e non è proprio un atteggiamento scontato nel giovane d’oggi. Da un lato smemorato, abbiamo già visto, dall’altro forse privo, in una società senza padre, di autentici modelli paterni. Anche in tal senso.

Più in particolare questo padre-madre genera con la memoria, quella memoria singolare che è la memoria amoris, memoria riconciliata e riconciliante, memoria guarita dai suoi molti virus o amore con tre precise caratteristiche: amore che ricorda e che è ricordato, che ricostruisce il passato e disegna il futuro. Ho già diffusamente analizzato altrove questo tipo o queste funzioni della memoria[4]; qui riprendiamo in sintesi quel discorso cercando di applicarlo alla figura del padre prodigo.

 

Amore che ricorda e che è ricordato: la certezza

Anzitutto la memoria amoris è memoria di chi si volge con sguardo benevolente verso il proprio passato e lo scopre pieno di benevolenza ricevuta, è amore che riconosce l’amore ricevuto in dono. Solo l’amore, infatti, può riconoscere se stesso. Proprio in tal senso è memoria sana, perché ogni essere umano, per il semplice fatto d’esistere, dovrebbe poter fare quest’operazione di riconoscimento: esistere vuol dire essere stati amati, essere stati preferiti da una volontà buona alla non esistenza, in ogni caso e in qualsiasi modo o attraverso qualsiasi mediazione sia poi venuta la nascita. Questa sorta di “pregiudizio positivo” crea una disposizione altrettanto positiva, è come uno sguardo benevolente, sono gli occhi dell’amore – per l’appunto – che consentono poi di scoprire i tanti, tantissimi segni d’affetto ricevuto, da un’infinità di persone, e che normalmente sono molti di più dei segni contrari; soprattutto questa memoria amoris lascia nel cuore la consolante certezza d’essere stato amato, già amato, da Dio e da tante mediazioni umane del suo amore. 

Questa certezza è tipica certezza vocazionale, nel senso che la vocazione autentica nasce sul terreno fecondo d’essa, ne è espressione vitale, quasi conseguenza naturale. Senza questa certezza, determinata dalla memoria amoris, non si può dare autentica opzione vocazionale. Il padre della parabola rappresenta esattamente questa certezza, è il segno della fedeltà dell’amore, che aspetta e si commuove, che vede addirittura da lontano il figlio che torna e gli corre incontro, che comprende e non vuol perdere nessuno dei suoi due figli, anche se – a quanto pare – c’è sempre qualcuno che gli scappa o che dubita del suo affetto. Ovvero, c’è sempre una parte di noi che dubita, o che forse teme, che ha una strana paura dell’amore, che preferirebbe concludere che non ha ricevuto abbastanza amore per poter continuare a elemosinare comprensione e non sentirsi tenuta a rispondere all’amore con altrettanto amore. 

Esattamente in tal senso lo scrittore Rilke interpreta la figura del figlio prodigo come colui che non s’è lasciato amare, che ha preferito e inseguito l’impassibilità del cuore alla vulnerabilità della tenerezza, l’assenza di vincoli e legami con chicchessia al rischio di dover ricambiare l’amore ricevuto. Può sembrare un’interpretazione originale e un po’ arbitraria, ma di fatto sappiamo che molti giovani oggi sono così, senza questa certezza “paterna”, un po’ orfani, come il primo figlio prodigo quando scappa di casa e come poi il figlio maggiore che con la sua reazione dimostra che lui nella casa paterna non c’è mai stato. Un po’ orfani, un po’ bambini perennemente lamentosi che non riescono mai a diventare giovani, a passare dalla certezza dell’amore ricevuto alla risoluzione di donare l’amore, né a divenire adulti finalmente in pace con la loro identità senza bisogno di rincorrere chissà dove, cioè fuori di sé, certezze che sono già presenti in modo definitivo dentro la loro storia. Ovvero diventano giovani e adulti senza diventare padri. Perché padre lo diventa solo colui che possiede quella certezza.

Il padre della parabola, dicevamo, è la garanzia dell’amore, che permane sempre, in ogni caso e con ogni intemperie intrapsichica, sia quando si scappa di casa, sia quando si contesta il suo modo di fare il padre; lui sta lì, a invecchiare amando, e aspetta quello che è scappato come cerca amabilmente di convincere, senza fare alcuna costrizione, quello che non ha ancora capito d’aver un padre e un fratello. È l’amore antico e nuovo, del passato e del presente. Un cammino d’accompagnamento vocazionale deve in tutti i modi cercare questa riconciliazione paterna, con quel padre che vive dentro ciascuno di noi, che non è solo il residuo intrapsichico del padre storico che ci ha generati (anche se tale residuo non è mai totalmente ininfluente), ma è molto di più, è soprattutto l’appello a guardare la propria vita con occhio maturo e adulto, non più infantile e lagnoso, con lo sguardo della memoria amoris, non della recriminazione smemorata.

 

Amore che ricostruisce il passato: la responsabilità

In secondo luogo la memoria amoris è amore in grado di riprendere il passato e le sue inevitabili ferite, in qualche modo sanandolo. Non è certamente un’operazione semplice, né intendiamo qui articolarla in tutti i suoi momenti. Ci basti qui sottolineare alcuni principi fondamentali, che possono e devono ispirare anche il cammino d’accompagnamento spirituale. Sono principi, diciamo subito, che richiamano soprattutto l’idea della responsabilità. D’altro canto l’immagine del padre è sempre stata associata al coraggio d’assumersi delle precise responsabilità. Le ferite, dunque, sono presenti nella vita e nel passato d’ogni persona, nessuno ne è esente, né alcuno può pensare di cancellarle. Ci sono e spesso neppure dipendono da una nostra specifica responsabilità, o non completamente, visto che possono dipendere da tanti fattori esterni alla persona stessa, ma in ogni caso ognuno è responsabile al presente dell’atteggiamento che assume ora di fronte alle proprie ferite. C’è chi potrebbe semplicemente lamentarsene, chi incolparne qualcuno, chi usarle da alibi…, ma vi sono anche altri modi più adulti e intelligenti di vivere le proprie debolezze (servirsene, ad es., come esperienza che consente di comprendere meglio persone con le stesse ferite, viverle di fronte a Dio per sperimentare su di sé la potenza della sua misericordia, imparare ad accettarsi…). Tale principio dice che il passato, con le sue ferite, non va buttato via, né cancellato, né dimenticato, è importante ricordarlo e ri-assumerlo, cioè scegliendo di assumere di fronte a esso un atteggiamento nuovo.

Secondo principio: dalla responsabilità alla libertà. Il giovane deve capire che la sua libertà comincia quando riesce a dare un significato a situazioni, anche passate, che ne sembrano prive o che paiono assurde. Solo l’uomo può fare questo. Ed è proprio questo che, da un lato, costituisce la sua peculiare dignità e, dall’altro, rende il passato sempre …presente, perché in attesa di ricevere un significato autentico, un significato che solo chi l’ha vissuto gli può dare, ma che solo a questo punto diviene davvero soggetto della sua vita. “Di fronte a fatti incomprensibili – precisa Molari – la domanda da formulare non è: ‘Perché questo è accaduto?’, ma: ‘Quale atteggiamento assumere perché ciò che è accaduto acquisti senso?’. L’uomo infatti può modificare il valore delle situazioni storiche e può introdurre orientamenti nuovi negli stessi eventi della creazione”[5], come ha fatto Gesù nella sua passione, ove è riuscito a rendere presente il Padre, estromesso dagli uomini e dagli eventi.

E come fa il padre della parabola, che riscatta peccato e passato del figlio scappato di casa riaccogliendolo nella sua casa, anzi, al suo ritorno gli manifesta un amore reso ancor più grande dai lunghi tempi della sua assenza, quel suo amore è aumentato mentre lo attendeva, e ora s’esprime con una tenerezza infinita: lo abbraccia, lo bacia, gli prepara una festa… Così col figlio maggiore, al quale pure offre di riscattare un passato da lui giudicato in modo del tutto negativo, e rivelando a colui che temeva chiedergli un capretto, che tutto quanto il padre possiede è anche suo. Il primo accoglie l’abbraccio paterno e scopre un padre che non immaginava, il secondo a quanto pare no, ma in ogni caso entrambi sono posti di fronte alla possibilità di riscattare il proprio passato, di dargli un significato completamente diverso; e proprio questa possibilità deve essere data al nostro giovane, Non c’è passato che non possa esser riscattato, ci racconta la parabola del padre prodigo. D’altronde che “direzione spirituale” è quella che non chiede al giovane di dare una direzione alla propria storia in linea con la propria fede? Una direzione che è già presente in essa e pure da imprimere a essa; una direzione che in qualche modo è già vocazione o scelta di rispondere a una chiamata.

Riconoscere dentro di sé la figura paterna vuol dire, allora, in ultima analisi, esser padre della propria vita, del proprio passato, cioè assumere di fronte a essa un atteggiamento responsabile, e scoprire in questa responsabilità, che tanta paura fa ai giovani d’oggi, la vera libertà, o una possibilità davvero inedita di libertà. Anche questo è un punto per niente scontato: com’è vero che oggi viviamo in una società senza padre, così è pure vero che oggi stiamo assistendo a una vera e propria fuga dalla responsabilità, molto probabilmente legata proprio alla cultura dell’assenza paterna, e che determina – a sua volta – lo smarrimento della libertà e dignità umane. Oggi tutto concorre a creare alibi, lo psicologo rassicura che tutto dipende dal passato cattivo, dalla mamma immatura e invadente o dal padre debole o autoritario; abbondiamo in analisi rassicuranti che non consolano realmente nessuno e, anche nella direzione spirituale, siamo così condizionati dalla paura di non riaprire certe ferite che non sappiamo poi stimolare alcun atteggiamento libero e creativo né condurre il giovane ad assumere un atteggiamento responsabile di fronte ai suoi limiti più o meno legati al suo passato. E invece è importante ricordare che i vuoti creati dall’attuale debolezza culturale possono diventare luogo d’una catechesi particolarmente attesa ed efficace, al di là della fatica richiesta. 

E così sarà senz’altro anche per questa “catechesi paterna”, catechesi della responsabilità che libera la dignità dell’uomo. Grazie a essa il giovane scopre che lo sguardo credente può lentamente trasformare il passato “congelato” (attorno a ricordi negativi) in presente “che scorre”, poiché l’amore non annulla certo retroattivamente l’accaduto, né lo dimentica, tutt’altro, “ma giudicandolo ancora inconcluso, ne riapre i processi, ne riesamina gli atti, ne modifica le sentenze. Finendo così per riscattare in ciascuno il peso di trascorsi conflitti, per sciogliere le irresolutezze e staccare l’esistenza da un punto morto e irredento”[6].

 

Amore che disegna il futuro: il coraggio

Infine il padre prodigo è l’immagine dell’apertura verso il futuro, del passato non più inteso come un destino destinato a ripetersi senza più alcuna novità, ma come dimora d’un amore che mi ha chiamato un tempo alla vita e continua ora a chiamarmi a vivere da persona amata e capace d’amare. È la certezza di prima (quella d’essere già stati amati) che genera per natura sua la certezza corrispondente, quella d’esser capaci d’amare, ed è proprio questa certezza che genera – a sua volta – la scelta vocazionale. E qui si chiude il cerchio, o il tragitto, della memoria amoris: l’amore che ricorda ed è ricordato ricostruisce il passato e disegna il futuro, un futuro che in parte riprende quel passato e in parte lo supera, ribadisce quella certezza e parte da essa per realizzare qualcosa d’inedito, un disegno che dice l’originalità e unicità della persona.

Il padre prodigo è esattamente il contrario dell’immagine mitologica di Sisifo, condannato a spingere fino alla cima d’un monte un masso pesantissimo che poi cadrà regolarmente a valle e che dovrà esser sempre di nuovo sospinto fino alla vetta. Così per sempre. No, il padre prodigo arresta il meccanismo autoriproduttivo negativo, del male o della ferita che – chissà perché – dovrebbe per forza continuare a rigenerarsi (come la ferita sempre di nuovo aperta nell’altro mito greco di Prometeo). Il padre della parabola non è mito, abbiamo detto, è la storia di tutti noi, è la possibilità vera e reale offerta a tutti di fare della propria vita un disegno assolutamente originale e …griffato, firmato dall’amore del Padre. 

Così il figlio prodigo, al ritorno da una storia anche colpevole di umiliazione e svilimento della propria dignità si ritrova tra le mani la possibilità d’iniziare un futuro nuovo, disegnato sul modello del progetto del padre che gli prepara una festa, un banchetto, gli mette addosso un vestito nuovo, l’anello al dito e i calzari ai piedi. Lui aveva preparato la formula della richiesta di scuse, e si trova avvolto dall’abbraccio paterno che tira un rigo sul passato e inventa un avvenire del tutto imprevisto e nuovo. 

Anche per l’altro figlio c’è l’identica proposta, lo stesso progetto di novità che apre a un futuro diverso rispetto al passato; per questo lo invita alla festa, a entrare nella sala del banchetto, a godere, perché quando uno decide di rispondere alla chiamata entra nel gaudio del suo Signore che è anche il suo gaudio. Per questo il padre lo prega (“uscì allora a pregarlo”). È suggestiva questa immagine e straordinariamente significativa sul piano vocazionale: Dio-Padre non solo chiama o sollecita o suggerisce silenziosamente o invita educatamente, ma giunge al punto di “pregare” colui che chiama, con tutta la risonanza che ha questo verbo nel vangelo di Luca. E prega perché l’altro non si ostini a restare schiavo d’un passato infelice o d’una memoria malata e arrabbiata, ma si apra alla novità di vita e di futuro. 

La vocazione si decide tutta nel coraggio d’accettare o meno quest’idea d’un futuro nuovo, con tutto il rischio che comporta la novità e l’imprevedibilità d’una decisione modellata dall’amore, dal progetto del dono di sé, dal senso di responsabilità nei confronti della propria vita già piena di amore ricevuto, dalla certezza conseguente di poter e dover riconsegnare quest’amore o d’esser in grado di dare vita ad altri. La figura del padre è presente in ciascuno di noi, in ogni giovane, proprio in tale senso, perché in ogni uomo esiste tale “paternità” radicale, questo modo di guardare al futuro progettandolo in funzione della capacità attiva di dare affetto e benevolenza, di condividere quel che abbiamo e siamo, di non esser obbligati a provvedere a noi stessi, ma ad aprirci, a uscire dalla gabbia dell’autoreferenzialità. Sarà forse una voce o una presenza soffocata oggi dalla tendenza contraria, dalla paura opposta. Ma proprio questa è la funzione d’una direzione spirituale che riesce davvero a cambiare direzione alla vita del giovane. 

Per quanti giovani oggi, invece, è la paura che disegna il futuro, quella paura che viene dalla preoccupazione eccessiva per se stessi, o – a livello più materiale – le varie agenzie di mercato, la prospettiva del benessere materiale, i gusti o le pretese dei genitori, o la semplice idea della sistemazione, economica, professionale o sentimentale… Ma, in ogni caso, non è più l’amore l’architetto del futuro. 

Ecco perché tanti giovani si tirano indietro di fronte alle decisioni, rimanderebbero a chissà quando le loro scelte, o non si compromettono mai con scelte radicali, con una famiglia, con dei figli, con delle responsabilità, oppure ecco perché le scelte sono fragili e temporanee, toccano solo il presente e sono smentite alla prima difficoltà[7]. Stiamo andando, spiegano i sociologi, verso una caduta del desiderio di paternità e maternità, a causa d’una paura sempre più invadente e paralizzante del futuro. L’accompagnamento spirituale che stiamo proponendo vorrebbe condurre a riscoprire il padre dentro ogni giovane; ne guadagnerebbe la tensione vocazionale della gioventù odierna, in qualsiasi prospettiva vada poi a esprimersi tale paternità.

 

 

IL FIGLIO MINORE:

IL PELLEGRINAGGIO

DELLA MEMORIA RICONCILIATA

 

Ed eccoci, infine, a tentare di tracciare il percorso che potrebbe portare il nostro giovane alla riconciliazione con se stesso e col suo passato, e da questa a una corrispondente scelta vocazionale per il futuro. Siamo nell’ultimo anno di preparazione del Giubileo, e allora possiamo immaginare questo viaggio come quello penitenziale del pellegrino. Il figlio minore sembra l’icona di questo viandante; la direzione spirituale vocazionale dovrebbe esser concepita come tale viaggio penitenziale che porta alla riconciliazione vocazionale. Vediamo le tappe più decisive di questo viaggio, sullo sfondo della parabola-madre e assieme dell’evento giubilare che stiamo vivendo. Anzi, potremmo proprio riprendere certe parole-chiave di questo evento per descrivere il tutto.

 

Il pellegrinaggio

Il figlio prodigo sembra avere il gusto del camminare. Lascia la casa paterna in cerca di ventura, ma poi – tradito o deluso dall’avventura – torna alla casa del padre. È il cammino di tutti, d’ogni figlio nel cammino della vita. C’è una circolarità che sembra far parte del mistero dell’esistere filiale: si parte e si torna al punto di partenza, eppure il percorso è sempre diverso, e assieme la scoperta dell’esser figlio o il modo d’esserlo. Cosa vogliamo dire? 

 

Il pellegrinaggio del figlio

Vogliamo sottolineare l’importanza del sentirsi pellegrini, pellegrini alla ricerca di senso, di verità, di noi stessi, di Dio… Esser figli di Dio vuol dire mettersi in un cammino che progressivamente ci rivelerà il senso di questa relazione. E proprio questa è la prima tappa in un cammino di direzione spirituale: creare il fascino e sollecitare la decisione del “santo viaggio”, smuovere certe pigrizie o la pretesa di poter arrivare senza muoversi, senza fare fatica, senza “alzarsi” o delegando ad altri la commissione. La scelta vocazionale, come espressione piena della condizione filiale, si trova al termine d’un cammino fatto con le proprie gambe, compromettendosi in prima persona, proprio perché attratti e sorpresi dalla straordinarietà della verità e del dono. 

Quanto è difficile creare senso di sorpresa e fascino per la verità nei giovani d’oggi, o voglia di cercare e approfondire, di camminare ed esser pellegrini sulle strade della vita e della fede! È molto accentuata oggi la tendenza ad aspettare che altri facciano quanto loro stessi son tenuti a realizzare, giovani in perpetua delega, come si fossero autoespropriati di sé, o che attendono più semplicemente che la vita a un certo punto sveli tutto, così, automaticamente, dispensandoli dalla fatica della ricerca. E d’una ricerca che deve essere specifica, non può esser qualunquista, improvvisata. Vediamo allora le

 

Tappe del pellegrinaggio

Il pellegrinaggio di cui parliamo, alla luce di questa parabola, è soprattutto il cammino verso la propria identità filiale, dunque verso la piena riconciliazione con la propria verità, verso la riconciliazione vocazionale e la scoperta del piano di Dio su di sé. È un cammino iniziato con l’allontanamento dalla casa paterna, con la pretesa di costruirsi e realizzarsi al di fuori della relazione col padre (“in un paese lontano”) ben presto naufragata e fallita. È a questo punto che inizia il vero e proprio pellegrinaggio del figlio e d’ogni figlio, con le sue tappe.

“Non sono più degno d’esser chiamato tuo figlio…”

La prima tappa è quella forse più lunga, si tratta di “rientrare in se stessi”, ovvero di scoprire la propria verità. Nella nostra parabola questa verità di sé è resa con due affermazioni molto nitide, come due constatazioni che il giovane fa lucidamente su di sé: la prima è un confronto – perdente – tra la sua situazione di miseria e quella dei salariati in casa di suo padre, la seconda è l’ammissione franca e inequivocabile del proprio peccato e della propria indegnità. Ciò che è importante è che egli riconosce di non esser più degno d’esser chiamato “figlio”. Cosa significhi esser figlio è detto alla fine della parabola, quando il padre, nel tentativo di convincere il figlio maggiore, gli svela che “tutto ciò che è mio è tuo” (31): quando il figlio minore afferma la sua indegnità in quanto figlio, dichiara – anche se implicitamente – che qualcosa s’è interrotto in questa corrispondenza, in questa perfetta coincidenza tra quel che il padre ha e il figlio possiede, o ammette d’essersi posto fuori di questa logica o forse d’averci mai creduto fino in fondo; infatti lui prima aveva preteso prendersi la sua parte di eredità, l’ha considerata un diritto (“la parte del patrimonio che mi spetta”) e non come un dono immeritato, se n’è appropriato e l’ha poi usata per sé, l’ha sprecata e s’è con essa svenduto lui stesso, al punto da ridursi al rango di guardiano di porci, non l’ha trattata come un dono e secondo la logica del dono.

Nella vita d’ogni persona questo è più o meno accaduto; il figlio minore esprime una tendenza del tutto naturale e presente radicalmente in tutti: andarsene, prendersi la propria parte, concepire la vita come un diritto, il bene e i beni ricevuti come “cosa che mi spetta”, e poi illudersi di potersi autorealizzare al di fuori di rapporti troppo vincolanti, a cominciare dal rapporto con Dio, sentito non più come padre buono ma come padrone intrigante… E se è importante portare il giovane ad accorgersi di questo, è altrettanto necessario fargli vedere la contraddittorietà della cosa, l’autofregatura, il fallimento di questa pretesa. Un bravo direttore spirituale è quello che conduce la persona a constatare, a rendersi conto d’essersi fatta del male con le sue stesse mani, non semplicemente quello che dà indicazioni e ordini. Bisogna portare il giovane a capire che non gli conviene continuare ad agire in un certo modo. Ha rinnegato il suo esser figlio e ora si ritrova a contendere le ghiande ai porci… Normalmente il senso della sorpresa per la bellezza della verità viaggia assieme alla libertà di ammettere e constatare il proprio fallimento, ma quest’ultima può funzionare da elemento che apre al senso di sorpresa, lo favorisce, come succederà poi allo stesso figlio prodigo.

“Partì e s’incamminò verso suo padre…”

Forse non è un motivo nobile che spinge il figlio a tornare dal padre, ma ciò che conta è che decide di partire, di alzarsi dalla sua situazione per andare da colui che egli stesso continua a chiamare “mio padre” (“mi leverò e andrò da mio padre…”), per confessargli con sincerità il suo peccato e dichiararsi disposto a fare anche il garzone, l’ultimo dei garzoni. Ecco la tappa decisiva d’un cammino d’accompagnamento: incamminare verso il Padre. Nel senso specificato prima (essere padre di sé), nel senso indicato dalla parabola (aver misericordia con se stessi), ma pure perché solo il Padre, in quanto creatore e padre della mia vita, mi può rivelare a me stesso, svelandomi la vocazione, il ruolo che devo giocare nell’esistenza. È l’esperienza di Pietro: “solo tu, Signore, hai le parole della vita”; è l’esperienza delle guardie mandate dai farisei a catturare Gesù e che invece restano affascinate dalla sua parola: “nessuno ha mai parlato come quest’uomo”. 

Esser figlio vuol dire anche questo: rinunciare alla pretesa di autodefinirsi, di possedere le chiavi per capire il mistero della propria identità, di non aver bisogno di mediazioni… esser figlio vuol dire imparare a pregare, a in-vocare, ben sapendo che “ogni vocazione nasce dalla in-vocazione”[8]; esser figlio vuol decidere di “tornare” costantemente al Padre non solo per ritrovare se stessi, ma per ristabilire quella relazione vitale in cui l’essere umano riconosce la sua dignità, perché ciò che è del Padre è anche suo. L’accompagnamento vocazionale deve fare nascere una certa nostalgia di paternità, come nostalgia di verità e autenticità, di sapienza e di bellezza. Beato quel giovane che ha accanto a sé chi lo accompagna in questo ritorno, e sostiene la sua decisione in ogni momento. Beato quel giovane che tornando al Padre ha l’impressione di tornare a casa, di ritrovare le sue radici, quel giovane che ha imparato a riconoscersi nascosto con Cristo in Dio, nella sua parola, nel mistero contemplato.

“Il padre gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò…”

La terza tappa è costituita semplicemente dall’accoglienza del dono. Qui, infatti, non abbiamo più parole del giovane, non ci viene detto più niente di lui e della sua reazione, ma tutto ci consente di credere che il figlio si lasci avvolgere da questo abbraccio e in questo abbraccio ritrovi e scopra assieme la paternità di quest’uomo e il senso più vero del suo essere figlio. La corsa e la commozione paterne, l’abbraccio e il bacio, la gioia e le parole del padre sono ora la sua identità, dicono nel profondo la sua dignità, quanto lui valga. E al tempo stesso diventano un modo di leggere il suo passato, che viene riscattato-ricostruito, ma pure di disegnare il suo presente e futuro, come abbiamo ricordato prima; così pure il vestito più bello, l’anello al dito, i calzari ai piedi, il banchetto, la festa, persino il vitello più grasso che ne fa ignaro le spese, tutto è segno della festa e diventa parte d’una identità nuova che attende d’essere realizzata, è la sua vocazione, come chiamata ora finalmente percepita a vivere il suo essere figlio in maniera completamente nuova. È verissimo quanto specifica, quasi per giustificare la sua gioia, lo stesso padre: “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”, era morta in lui la coscienza d’esser figlio, e ora, tornando in vita, ha risvegliato in lui la coscienza di dover portare a piena realizzazione la sua condizione filiale; aveva perduto di vista la sua chiamata, ora la sta ritrovando.

Ecco dove e quando avviene la scoperta della propria vocazione: l’abbraccio e il bacio del padre fanno scoprire a un tempo il figlio e il chiamato. O, se vogliamo, permette di scorgere all’interno della condizione filiale la chiamata a vivere tale condizione, a esser degni del dono ricevuto, a vedere la vita intera come una parabola che racconta la bellezza dell’esser figli e il futuro come un’interpretazione specifica e originale di questa bellezza. Il passaggio fondamentale, o la tappa decisiva, è la coscienza d’esser figli, la consapevolezza di non aver fatto nulla per meritare l’esistenza e di ritrovarsi ogni giorno dinanzi a un dono inaspettato e sempre immeritato, che rimanda costantemente al mistero della vita e “chiama” con forza e chiede con insistenza d’accogliere il mistero. Investiamo qui, allora, in questa verità centrale, perché se conduciamo il giovane a questa consapevolezza, poi saranno possibili tutte le altre provocazioni, ma prima portiamo a questa consapevolezza rinnovata e commossa[9]. La crisi vocazionale è crisi di coscienza filiale (che è come dire che è crisi di fede)!

 

La Porta Santa

Altro termine strategico nel linguaggio giubilare è la “porta santa”, la porta attraverso la quale i pellegrini passando acquistano l’indulgenza o ottengono il perdono dei loro peccati. In qualche modo la porta santa è l’obiettivo del pellegrinaggio e assieme segna il passaggio da una situazione precedente a una vita nuova, è come un varco che introduce in un nuovo stile di vita, o – ancora una volta – è un arrivo da cui s’avvia una nuova partenza.  Quale è, nella parabola che stiamo meditando, questa porta santa, attraverso la quale il figlio minore passa dalla situazione di peccatore o di figlio smemorato a quella di figlio che scopre d’avere un padre, e da questa ancora alla situazione di chiamato, di figlio, cioè, chiamato a vivere con il padre, nella sua casa, accolto dal suo abbraccio, festeggiato come un reduce eroe e non punito per le sue avventure?

Il vangelo non ce lo dice esplicitamente, ma ci è lecito, credo, intuire la genesi o la dinamica d’una decisione vocazionale, alla radice, nell’insieme e nel séguito del brano, particolarmente in quella affermazione, già sottolineata, che il padre fa rivolto al figlio maggiore: “Figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo”. Qui, a mio parere, c’è tutta la teologia-psicologia del figlio (anche Gesù, infatti, parlando dei suoi rapporti col Padre, identificherà proprio in questa perfetta corrispondenza di doni e di reciprocità la relazione Figlio-Padre), e qui c’è anche tutta la logica vocazionale. Più precisamente, la frase del padre svela il significato della vita, come dono ricevuto senza aver fatto nulla per meritarlo, ma se tale è la vita c’è una chiamata irresistibile, intrinseca al fatto stesso di esistere, quasi già scritta nel DNA dell’esistente, che chiede di rispettare la logica della vita, a rispettare la natura della vita in quanto dono, dono che tende per natura sua a divenire bene donato. “È la verità della vita, d’ogni vita”[10]. E allora l’ex figlio prodigo diventa pienamente figlio, torna alla vita, si apre al futuro nell’unica maniera degna dell’uomo, accoglie il dono e decide di vivere in conformità ad esso, “dentro” la casa paterna cioè dentro la logica del dono, non con una conformità morale e più o meno forzata, ma con una conformità del tutto logica che lo fa diventare se stesso, adulto, “padre”.

Ed è questa la “porta santa” anche per qualsiasi giovane, che può letteralmente trasformare ogni esistenza, facendola entrare in una dimensione nuova, pienamente vocazionale. Una “porta santa” che attende davvero d’essere spalancata e per la quale dovremmo fare passare i nostri giovani, tutti, perché indica il passaggio di tutti, è la verità della vita. Lo dice molto bene il documento conclusivo del Congresso europeo sulle vocazioni: “Se c’è un dono all’inizio della vita dell’uomo, un dono che lo costituisce nell’essere e gli dà un’identità corrispondente, allora la vita ha la strada segnata: se è dono sarà pienamente se stesso solo se si realizza nella prospettiva conseguente del dono, sarà felice a condizione di rispettare questa sua natura; potrà fare la scelta che vuole, circa il suo futuro, ma sempre nella logica del dono, altrimenti diventa un essere in contraddizione con se stesso, difforme, una realtà mostruosa; sarà libero di decidere l’orientamento specifico, ma non sarà libero di pensarsi al di fuori della logica del dono. Tutta la pastorale vocazionale è costruita su questa catechesi elementare del significato della vita. Se passa questa verità antropologica allora si può fare qualsiasi provocazione vocazionale. Allora anche la vocazione al ministero ordinato o alla consacrazione religiosa o secolare, con tutto il suo carico di mistero e mortificazione, diventa la piena realizzazione dell’umano e del dono che ogni uomo ha ed è nel più profondo di sé”[11].

Al di fuori di questa logica, di questa… grammatica di base, come un abbiccì della vita, c’è la tristezza cocciuta dell’altro fratello, i lavori forzati del presuntuoso aspirante santo individualista o servo utile, la devianza demente di chi cerca fuori di questa logica la sua realizzazione, l’allegra schizofrenia di chi vorrebbe contraddire la vita, l’indisponente supponenza di chi sfrutta la situazione e s’appropria dei doni e se li gestisce per sé… Davvero, invece, questa è una “porta santa”, che collega la vita alla morte, addirittura, perché “si vive perché altri ci hanno donato la vita… e si muore perché quel bene ricevuto ha impresso in sé… un movimento naturale che lo mantiene nella realtà del dono e lo porta progressivamente a divenire bene donato. Ma tutto ciò è affatto logico, sarebbe strano il contrario”[12]

È “porta santa” per cui non solo dovrebbero passare tutti i giovani, essendo verità universale, ma per cui potrebbero passare tutte le provocazioni vocazionali, anche le più impegnative e impopolari, e attraverso la quale, ancora, la verità della vita fa nascere la libertà della scelta e pure la sua inevitabilità, per cui, se da un lato gli si spalancano davanti significati e possibilità davvero inedite di scelta, dall’altro il giovane dovrà anche capire che non potrà in alcun modo uscire da questa logica veritativa: “puoi fare la scelta che vuoi circa la tua vita e il tuo futuro, ma non puoi uscire da questa logica, altrimenti diventi un mostro, qualcosa d’innaturale. Anzi, non puoi neppure pensarti al di fuori di questa logica”[13].

 

Il debito

Infine, ultimo termine giubilare che prendiamo in considerazione, il “debito”. Come sappiamo nell’anno del giubileo tutti i debiti venivano in qualche modo annullati, per dare a tutti la possibilità di cominciare una vita nuova e impedire che situazioni di povertà o dipendenza divenissero croniche o finissero per opprimere il più debole. Nella parabola del padre prodigo abbiamo, in tal senso, due situazioni nettamente opposte: da un lato il fratello maggiore che pretende per tutta la vita, con le sue tristissime osservanze, di saldare il conto con il padre-datore di lavoro (o padrone), e che, anzi, a un certo punto, si sente in credito con lui (“io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando e tu non mi hai dato mai un capretto per fare festa con i miei amici”) e meno considerato del fratello. 

Dall’altra abbiamo il figlio minore che, invece, si trova con un debito pressoché impossibile da estinguere nei confronti del padre, tanto che si offre a fare l’ultimo dei garzoni, ma questo padre, incredibilmente, non solo cancella tutto, ma lo riempie di doni e lo accoglie nuovamente in casa, cioè nel suo cuore paterno. Il primo è il prototipo dell’uomo-senza-vocazione, perché non crea in sé le condizioni per sentirsi chiamato, o perché – al massimo – concepisce la vocazione ancora in una logica di sforzi meritevoli, di slanci eroici; al di fuori, ancora una volta, della logica del figlio prima vista.

Che è invece la prospettiva del figlio minore, non per suo merito, ma perché si trova nella condizione di constatare l’assoluta sproporzione tra il suo gesto e il dono del padre, tra l’offesa e la misericordia. Vogliamo ancora dire che l’essere e sentirsi figli crea un atteggiamento interiore che dispone alla scoperta e all’accoglienza della chiamata, poiché chi si sente figlio parte già dalla convinzione che la vita è un debito di per sé insolvibile, che gli è stato donato un amore del tutto immeritato, e dunque è del tutto logico che ora la vita stessa (o Chi gliel’ha donata) gli chieda di vivere la sua esistenza come un dono. La sua risposta non è atto eroico, ma dovuto, anche se ricco d’amore, ma in ogni caso il “figlio” sa perfettamente che, per quanto si donerà all’esistenza e agli altri e a Dio, non pareggerà mai il conto con quanto ha ricevuto e continua a ricevere![14] A differenza del fratello gran lavoratore che pretendeva pagare col suo servizio il debito della vita, così privo di senso della misura e involontariamente così ridicolo, al punto da non capire che il capretto non occorreva domandarlo o guadagnarlo, perché era già suo.

C’è la sensazione che oggi, da un lato, sia carente e sempre più debole la cultura del figlio, soppiantata dalla cultura dei diritti o del dovuto (per cui “tutto mi è dovuto, ma io faccio quel che mi pare”), come abbiamo già accennato all’inizio, mentre – dall’altro – ogni tanto è dato d’incontrare persone che stanno interpretando il cammino vocazionale con la mentalità contraddittoria del “fratello maggiore”, nella logica del calcolo e col piglio dell’eroe, la cui vocazione è quella, prima o poi, di diventare vittima. 

 

 

VERSO UN “GIUBILEO VOCAZIONALE”

 

E allora mi viene un’idea: non potremmo il prossimo anno celebrare un “Giubileo vocazionale”? Ovvero non solo indire un anno di grazia e di misericordia, che cancelli i peccati (nostri) e magari condoni i debiti (dei paesi poveri), ma sollecitare nella chiesa e nei credenti una maggiore consapevolezza della chiamata che viene da Dio e che non cessa ogni giorno di risuonare per chi ha imparato a darle ascolto. La nostra chiesa italiana sta preparando il Progetto culturale: non potrebbe essere l’occasione di inserire finalmente in maniera organica la cultura della vocazione dentro un certo modo di pensarsi come comunità di credenti e di essere chiesa e di annunciare la salvezza? Ovvio che questo progetto culturale o questo giubileo vocazionale coinvolgerebbe in modo articolato le diverse componenti ecclesiali, come una vocazione che giunge a ognuno non solo a rispondere alla sua personale chiamata, ma a farsi tramite della chiamata che viene dall’Eterno. 

E forse questo è il punto debole: nonostante quello che ormai da anni si va facendo e dicendo (e un grosso merito va senz’altro al Centro Nazionale Vocazioni), è ancora debole negli operatori pastorali e ancor più nel credente qualsiasi la coscienza di dover chiamare, di poter e dover prestare la sua voce e la sua persona come mediazione dell’appello divino. Lo ricorda anche il documento del congresso europeo: “la cosiddetta crisi vocazionale è prima di tutto legata alla latitanza di qualche testimone, che rende debole il messaggio. In una Chiesa tutta vocazionale, tutti sono animatori vocazionali[15].

Quello che ci apprestiamo a celebrare non sarà un autentico Giubileo se non sarà anche e soprattutto vocazionale, perché la grazia e la misericordia, il perdono e la riconciliazione che saranno effuse sulla comunità dei credenti non sono solo un dono, ma un appello, una responsabilità, una chiamata personale, da parte del Padre, del padre prodigo, perché ognuno di noi ritrovi la sua vocazione. Che misericordia è quella che non diventa appello a fare altrettanto? Per questo vorrei terminare con le parole d’un prete, un chiamato per eccellenza, che sta uscendo da una dolorosissima crisi vocazionale, e che in qualche maniera si sente come il figlio prodigo che sta tornando e sperimentando l’abbraccio e il bacio paterno. Non è una poesia, propriamente, ma riesce a dire con la forza della poesia quanto la prosa non saprebbe esprimere con la medesima trasparenza. Non ha nemmeno un titolo, ed è molto breve.

“Una svendita per fallimento. Tutta una vita dal primo istante del concepimento all’ultimo respiro. Merce avariata. Macerie. Roba da discarica. Qualcuno bussa… un acquirente? Incredulo apro. “Prendo tutto io, in blocco. In cambio ti do la mia vita tutto me stesso”. Così è fatto Dio. Questo è il nostro Vangelo. Questa è la nostra Pasqua. Alleluia!”. In quel “prendo tutto io, in blocco. In cambio ti do la mia vita, tutto me stesso” è nascosto il mistero d’ogni vocazione. In quella sproporzione tra la “merce avariata” e la vita divina trasmessa a essa è raccontata la storia d’ogni chiamata.

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. H. Nouwen, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Brescia 1998.

[2] Su questo argomento e, in particolare, sul rapporto tra memoria affettiva e memoria biblica mi permetto indicare A. Cencini, La storia personale, casa del mistero. Indicazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997, pp. 19-29.

[3] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 36c. D’ora in poi lo citeremo in sigla (NVNE).

[4] Cfr. A. Cencini, La storia, o.c.  pag. 33-51.

[5] C. Molari, Perché? in “Consacrazione e servizio”, 5/1992/50.

[6] A. Cencini, La storia, o.c. pag.  39.

[7] Va proprio in tal senso la previsione demografica del sociologo G. Campanini (Università di Lugano), secondo il quale, per i prossimi anni, in particolare dal 2010 in avanti, si prospetta un mutamento epocale: il 20% dei giovani, ma secondo taluni demografi sarà più presumibilmente il 30%, non si sposeranno e decideranno di non avere figli (mentre negli anni ’60 la percentuale dei celibi o nubili era sull’8%). 

[8] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 27a.

[9] Cfr. NVNE, 26e.

[10] NVNE, 36b.

[11]Ibidem.

[12] A. Cencini, Qualcuno ti chiama. Lettera a chi non sa d’esser chiamato, Brescia 1999, p. 56.

[13] Ibidem, 58.

[14] Ibidem.

[15] NVNE, 6.