N.03
Maggio/Giugno 2000

Nel servizio della direzione spirituale: essere direttivi o no?

Il problema che ci poniamo è quello di molte guide spirituali che si trovano oggi di fronte a giovani o meno giovani che chiedono un aiuto spirituale non solo per crescere nella fede, nella vita spirituale, nella testimonianza cristiana, ma anche per prendere decisioni concrete riguardo alla vocazione, alle scelte familiari, sociali, professionali, ecc. Ha il diritto oggi una guida spirituale di entrare direttamente nelle decisioni operative? È il suo ruolo? Ne ha il dovere se si trova di fronte a persone deboli o poco mature? Può influenzare il cammino vocazionale proponendo un carisma o un ministero piuttosto che un altro? E, inoltre, come ci si dovrebbe porre in generale di fronte alle persone per avere un ruolo educativo o formativo efficace, che faccia crescere e renda capaci le persone di decidere autonomamente e liberamente davanti a Dio e alla propria coscienza?

 

I termini: direttività e non direttività

Da dove vengono? Cosa significano? Il termine non-direttività viene da uno psicologo statunitense C. Rogers (1902, morto recentemente) in quale denominò il suo metodo non directive therapy. Più tardi, anche per i fraintendimenti di alcuni suoi seguaci, preferì denominarla terapia centrata sulla persona (cliente). Le due definizioni riassumono i due aspetti del suo metodo. Come spiega B. Giordani, che ha elaborato una metodologia per la direzione spirituale che si rifà a questo autore[1], il primo scopo che si propone è di non orientare la persona verso una meta proposta dal terapeuta, evitando che l’individuo pensi, senta o agisca secondo schemi di altri. Il secondo scopo è quello di mostrare in modo concreto la fiducia del terapeuta nelle risorse e nelle energie di ogni persona, che sono orientate costitutivamente verso l’autorealizzazione.

Ne derivano una serie di interventi, durante il colloquio terapeutico, che si possono definire non direttivi o informativi. Ci si limita ad aiutare la persona a prendere coscienza del proprio mondo percettivo; a riflettere sui vari aspetti della situazione esposta; a valutare da se stessa il significato (umano o morale) del proprio comportamento; a prendere decisioni assumendosi in proprio ogni responsabilità[2]. Fondamentali, più delle tecniche, sono gli atteggiamenti del terapeuta che deve essere capace di “calore, simpatia, rispetto, interesse”[3].

Il termine direttività, per contrapposizione col primo, viene utilizzato per definire quei tipi di interventi, detti strutturanti, attraverso i quali il terapeuta mira a proporre alla persona le strutture psicologiche che egli ritiene valide o uniche: per esempio sistemi ideologici, orientamenti affettivi, rapporti sociali, una certa sensibilità religiosa e morale, insomma un sistema di valori. È evidente che l’applicazione di questi metodi al colloquio spirituale comporta due tipi di relazione nettamente diversi tra guida spirituale e diretto. 

Nel caso degli interventi direttivi il rapporto tende ad essere autoritario e paternalistico, poco responsabilizzante. D’altro lato però, una direzione spirituale corretta può forse esimersi dalla trasmissione dei valori evangelici e dal confronto con essi? Noi vogliamo che i valori evangelici strutturino la personalità. Nasce subito il problema non tanto della formazione alla libertà e alla responsabilità – cosa sulla quale tutti in linea di principio sono d’accordo – , ma del fatto che una guida spirituale cristiana vuole formare ad una certa libertà (ben orientata) e per una certa responsabilità. E inoltre affiora il problema dell’obbedienza cristiana: nel passato la sia chiedeva nella direzione spirituale, ora le è precluso ogni spazio?

Nel caso degli interventi non-direttivi, che mirerebbero ad una maggior autonomia della coscienza e ad un impegno anche spirituale più personale, il rapporto tende ad essere paritario, liberante, promuovente o incoraggiante. Ma questo tipo di intervento suppone quella che è stata chiamata “ignoranza creativa”[4]: il padre spirituale deve accettare di non conoscere il campo percettivo dell’interlocutore, di essere all’oscuro delle situazioni che l’altro espone, riconoscere che l’unico “esperto” è la persona stessa e lasciarsi guidare da lei per imparare come funziona il suo mondo. C’é da farsi alunni dei propri diretti ascoltando in modo passivo e recettivo per fare il massimo spazio a loro. E in più Rogers stesso specifica che il metodo funziona solo se è assunto come visione dell’uomo: “…io penso che la non direttività non possa essere efficace se non quando faccia parte integrante della filosofia della persona che la applica. Non si tratta affatto di una tecnica che si possa semplicemente adottare e poi respingere”[5]. Infatti la ricerca sui preti diocesani di Montréal che applicavano soprattutto l’apparato metodologico rogeriano, ha dimostrato che i consulenti non-direttivi, se non coltivano le disposizioni di fondo, diventano molto direttivi![6]

Può un direttore spirituale accettare questa filosofia? È possibile utilizzare queste metodologie come puri strumenti diciamo così tattici, a servizio di una strategia molto diversa da quella del terapeuta rogeriano, perché la guida spirituale direttamente vuole solo la crescita dell’uomo in Cristo e non la autorealizzazione della persona? Usare i metodi non direttivi come puri mezzi per un fine totalmente diverso, anzi opposto, sembra non possibile praticamente: non si corre il rischio di essere ingenui e di ottenere ciò che non si vorrebbe? Poi, utilizzare dei mezzi che sono concepiti in un contesto pedagogico e antropologico libertario e immanentista, rispetta il corretto rapporto tra la teologia spirituale, fondata sulla antropologia cristiana, e le scienze (umane) psicologiche? Questo è un problema che riguarda solo degli accidenti del Colloquio spirituale o la sua sostanza? D’altro lato, è indubbio che anche i metodi non-direttivi facilitano il rapporto e creano un clima positivo e incoraggiante, liberante per tante persone anche per la vita spirituale: come fare per “esaminare tutto e tenere ciò che è buono”?

 

Perché porsi questo problema?

Ad alcune di queste domande importanti le risposte saranno già state date nel resto del corso sul colloquio spirituale. Qui ci fermeremo piuttosto sullo specifico argomento della direttività e non-direttività. Perché porsi il problema della direttività nella direzione spirituale? Da dove nasce e perché nasce oggi, dato che la direzione spirituale ha una tradizione lunga quanto la storia della Chiesa (dal monachesimo in poi)? I motivi sono vari e ne elenco brevissimamente solo alcuni.

 

Culturalmente: un’epoca senza padri

Tra le cause della crisi della D.S. e del suo abbandono negli ultimi decenni, c’è innanzitutto il rifiuto di ogni autorità e del principio stesso d’autorità, l’accresciuto senso di autosufficienza anche nel cammino spirituale in linea con quel movimento di emancipazione che ha interessato molte categorie fuori e dentro la Chiesa. Con gli anni sessanta e settanta si sono messi seriamente in crisi non solo i modelli paternalistici, ma la figura stessa di padre, con la conseguente insofferenza verso ogni forma di dipendenza e subordinazione. L’argomento è stato studiato già da anni[7]. Con gli anni ottanta e novanta, in occidente si fa strada una tendenza sempre più libertaria e individualista, tende a scomparire una equilibrata dialettica tra oggettivo e soggettivo, per cui si crede ingenuamente nel mito della libertà assoluta e nella verità elaborata dal soggetto che prevale su ogni altra affermazione di valore. Non si sente più il bisogno di confronto e di formazione. La ricaduta sulla direzione spirituale è stata pesante.

 

Ecclesialmente: nuovi rapporti nella Chiesa

Anche nella Chiesa in particolare dopo il Concilio Vaticano II, c’è stato un grande rinnovamento dei rapporti tra le persone: una nuova valorizzazione dei laici fuori e dentro la comunità cristiana, un concetto nuovo di autorità, vista come servizio e di obbedienza, umanizzante perché attiva e responsabile. I capitoli degli istituti di vita consacrata hanno elaborato nuovi statuti, cambiato notevolmente il modo di rapportarsi nella vita comune tra i superiori e gli altri fratelli consacrati. I sacerdoti diocesani hanno iniziato a costruire comunità parrocchiali caratterizzate dalla partecipazione, dalla corresponsabilità, dall’attenzione ai carismi di tutti. I movimenti hanno messo in luce nuove figure carismatiche e nuovi punti di riferimento spirituali. Inevitabile che l’autorità della guida spirituale fosse rivista.

 

La direzione spirituale: crisi del modello obbedienziale

Dunque la figura del “direttore spirituale” viene messa in crisi negli ultimi decenni, per la quella carica di imperatività e di estrinsecismo, di obbedienza cieca e di volontarismo che evocava. La stessa definizione di “direttore” è stata sentita come troppo insistente sulla centralità della sua funzione, sull’accesso incondizionato alla vita intima del diretto, sulla elaborazione dall’esterno della spiritualità di un cristiano che appariva perdere così ogni responsabilità personale. Contro un modello direttivo si sono messe in campo riflessioni sulla legittima libertà, sulla necessaria autonomia del cristiano adulto, sulla responsabilità non delegabile delle scelte centrali e più significative della vita spirituale. Inoltre il rinnovamento della teologia spirituale ha ridato considerazione all’azione dello Spirito Santo quale maestro interiore che con i suoi carismi e la sua ispirazione, soprattutto nella preghiera, agisce nella coscienza di ogni credente. Insomma molti hanno abbandonato la direzione spirituale e comunque si è sentita da parte di tutti l’esigenza che la figura del direttore spirituale dovesse diminuire per lasciar crescere sia la persona diretta sia lo Spirito: il vero direttore spirituale!

Questo approccio molto critico, se è giustificato per degli abusi che certamente si sono verificati a causa di personaggi non abbastanza rispettosi della libertà e della coscienza dei fedeli sia nella vita consacrata, sia nel rapporto con laici troppo pii o troppo deboli, non è un approccio privo di problemi. Nella tradizione monastica antica infatti, così come al Padre spirituale veniva chiesto moltissimo (doveva avere carità, saper vincere le proprie cattive inclinazioni, pregare per i suoi discepoli, avere il dono del discernimento, della purezza di cuore che abilita alla contemplazione, della profezia nell’annuncio della parola, e il tutto meglio se unito alla esperienza, alla scienza, alla conoscenza dotta delle Scritture[8]), ma anche al discepolo era chiesto molto. “Quando è possibile il monaco deve affidarsi ai padri riguardo al numero dei passi da fare e delle gocce di acqua da bere nella sua cella, se in queste cose non vuole cadere”[9]. L’obbiettivo della paternità spirituale era di portare dalla schiavitù alla libertà dei figli di Dio, ma ciò poteva avvenire solo a patto che il figlio spirituale manifestasse tutti i pensieri del suo cuore e i movimenti dello spirito. Giovanni Cassiano, grande maestro spirituale, esorta i discepoli a portare tutto allo scoperto davanti al padre spirituale affinché le suggestioni perdano il loro veleno[10].  Inoltre il figlio spirituale deve rinnegare se stesso, la sua volontà, per sottomettersi alla volontà di Dio; per questo si deve sottomettere ad un padre spirituale. A lui si deve obbedienza piena, egli parla in nome di Dio grazie al dono del discernimento (che però non hanno tutti gli anziani) e mostra con la sua vita come agire. Si tralascia dunque il proprio discernimento, ma a ragion veduta e non ciecamente, davanti ad un discernimento ritenuto maggiore del proprio, perché proveniente da un personaggio che unendo un grande cammino di purificazione ascetica a dei doni straordinari dello Spirito Santo è in grado di generare spiritualmente.  Anche se questa figura non corrisponde pienamente ad ogni guida spirituale dei nostri giorni, come diremo, però qui la direttività sembra notevole e nei contenuti e nei metodi! Si possono mantenere oggi quelle caratteristiche, totalmente o in parte? Oppure si deve abbandonare questa tradizione che è stata importante, ma che oggi è improponibile perché culturalmente ed ecclesiologicamente datata? 

 

La spiritualità a confronto con le scienze umane: il colloquio e le tecniche del dialogo psicoterapeutico

Nel nostro secolo la teologia spirituale, ma soprattutto la pratica della formazione alla vita spirituale si è trovata a confrontarsi non solo con le opere dei grandi autori e con i movimenti spirituali tradizionali e moderni, ma con il sorgere delle scienze umane. Con un approccio sperimentale spesso positivista e con una concezione dell’uomo molto determinista e immanentista, soprattutto la psicologia è stata subito respinta. Ben presto però ci si è accorti delle acquisizioni utili che essa elaborava per ogni cammino educativo, rinnovandolo e rendendolo più efficace; ma anche buona parte di quei metodi e mezzi che l’ascesi aveva costruito nel corso dei secoli si sono potuti confrontare con una conoscenza più approfondita dell’uomo. Sono apparse subito chiare alcune analogie tra il colloquio psicoterapeutico, tra la relazione psicologo-cliente e il dialogo personale con il confessore o il padre spirituale. In ordine sparso e senza criteri abbastanza ordinati molti cultori di spiritualità, teologi, formatori, padri spirituali si sono avvicinati in particolare al colloquio psicoterapeutico, sia quello elaborato dalla scuola psicoanalitica sia quelli elaborati da altre scuole, per ricavarne indicazioni, tecniche, atteggiamenti da utilizzare nella direzione spirituale. Con una certa ingenuità si è creduto di poter accettare tutto, anche ciò che era solo ipotesi o intuizione, anche ciò che proveniva da una analisi della vita psichica influenzata da una antropologia riduttiva. Si sono adottati soprattutto elementi provenienti dalla psicoanalisi e dalla psicologia umanistica (ed esistenziale).

È in questo contesto che il metodo proposto da C. Rogers è sembrato proprio andare incontro alle richieste di una direzione spirituale meno direttiva e più in linea con i bisogni dei fedeli contemporanei. Negli anni quaranta si iniziò ad usare metodologie non direttive negli USA e nell’Europa del nord, solo vent’anni dopo in altre nazioni; in Italia la diffusione è più recente ancora.  Di fatto ora ci troviamo di fronte a tre tipi di atteggiamenti nei confronti di queste metodologie: c’è l’accettazione acritica di quelli che hanno fatto la pura trasposizione delle indicazioni tecniche; c’è l’accettazione benevolmente critica (è il caso di Giordani) che vede molti pregi e alcuni problemi; e c’è il rifiuto di quelli che hanno preferito rifarsi ad altre scuole psicologiche o di quelli che non vogliono contaminare la direzione spirituale con l’uso delle scienze umane, di solito perché non hanno avuto la possibilità o la pazienza di apprenderle e finiscono per applicare una metodologia del tutto soggettiva.

 

In tema di vocazioni: essere direttivi o non direttivi?

Infine, è decisamente importante porsi il problema del discernimento circa le metodologie direttive o non-direttive del colloquio spirituale quando si tratta di accompagnamento verso scelte vocazionali. In questo contesto la direzione spirituale ha un ruolo importantissimo, fra l’altro reso necessario dalla sapienza educativa della Chiesa oltre che dalle sue norme. È soprattutto qui che dovrebbero emergere le ispirazioni dello Spirito che conduce un chiamato verso una risposta definitiva; è qui che si dovrebbero esaminare le motivazioni più profonde per fare discernimento negli inevitabili intrecci tra le motivazioni veramente germinative, quelle strumentali e quelle spurie. La continua verifica della vita concreta per valutare se è coerente con le esigenze della vocazione a cui ci si sente chiamati,  se non si vuole che le inconsistenze minino alla base le scelte, è ineludibile. Così come è necessario il confrontarsi con i valori, se si vuole una identità stabile e integrata, sostegno di ogni atto di autentica autotrascendenza verso Dio. Nel colloquio spirituale con finalità vocazionali, è necessario rispettare la libertà del chiamato (“se vuoi”), però allo stesso tempo la si deve far incontrare con i valori più radicali del Vangelo (“venite e vedrete”). È necessario educare nel senso di e-ducere, di far emergere le indicazioni profonde del Maestro interiore, ma nello stesso tempo bisogna formare, modellare una personalità su un carisma della vita consacrata o su una spiritualità ministeriale, che hanno contenuti già prefissati, oggettivi. Si tratta allora di vedere se queste metodologie possono essere utili all’assunzione sia degli atteggiamenti, sia della logica di fondo di una vita vissuta come vocazione, cioè che si impegna in una libera trascendenza di sé per amore di Dio.

 

Gli atteggiamenti e i comportamenti direttivi

Di quali atteggiamenti e comportamenti stiamo parlando? Qui è necessario entrare nel concreto perché chi pratica il colloquio spirituale possa riconoscerli e valutarli criticamente. Iniziamo dal metodo che definiamo complessivamente direttivo (definito anche impositivo, protettivo e quindi paternalistico da chi lo critica). L’atteggiamento che sembra prevalere è quello della sfiducia, anche se solo parziale o settoriale, nella persona diretta e un certo pessimismo sulle capacità della persona di capire, scegliere e fare il bene da se stessa; fatto che porta il direttore a svolgere il ruolo di esperto, di guida, di programmatore, di autorità anche esterna.

I comportamenti direttivi più tipici[11]:

– imporre e proibire, provocando soggezione e dipendenza passiva;

– esortare, con insistenza e con coinvolgimento affettivo, che può arrivare a trasformarsi in pressione morale, protezionismo “materno”;

– consigliare e persuadere, suggerendo soluzioni già fatte, risolvendo i problemi, insistendo sulle proprie motivazioni e non su quelle del diretto;

– spiegare e interpretare, nel senso negativo di mettersi a fare i quasi-psicologi per individuare le cause nascoste dei problemi attuali e fornendo giustificazioni o intellettualizzazioni psicologistiche o pseudomistiche; (la direttività qui starebbe nel fatto che spiegazioni e interpretazioni le farebbe tutte il direttore e le offrirebbe già pronte al soggetto senza una sua introspezione e adesione anche emotiva ed esistenziale);

– suggestionare: qui è evidente l’abuso del ruolo, ma in certi casi con persone fragili e dipendenti che magari idealizzano il loro direttore, non è difficile cadere anche nella manipolazione “a fin di bene”.

 

Possiamo anche specificare ulteriormente gli interventi che abbiamo definito strutturanti, che sono più o meno direttivi[12]:

– il direttore valuta quanto la persona espone confrontandolo con norme o principi operativi, facendo anche valutazioni morali;

– interviene per far concentrare l’attenzione su quegli aspetti che lui giudica e valuta più importanti;

– minimizza aspetti che il soggetto ritiene gravi o minacciosi, con considerazioni sue, per dare sicurezza o incoraggiamento ai timorosi;

– rivolge domande, per chiarimenti o approfondimenti, orientando così il colloquio;

– confronta quanto emerge con esperienze simili, per orientare la persona verso certe scelte;

– dà saggi consigli e offre soluzioni ai problemi presentati.

 

Le critiche che vengono fatte a questi atteggiamenti e comportamenti nel colloquio spirituale sono che la guida:

– rimane chiusa nel suo mondo e si ispira a sé stessa per giudicare e dirigere;

– non dimostra fiducia, non promuove sana autonomia;

– rischia di favorire passività e dipendenza;

– rischia più facilmente di proiettare sulla persona la sua mentalità o i suoi problemi;

– con le persone molto ansiose, insicure, con forte bisogno di dipendenza affettiva, può stabilire un legame molto coinvolgente, molto infantile, tendenzialmente interminabile.

A supporto si portano anche ricerche fatte in campo laico sulla scarsa efficacia dei metodi direttivi[13].  Per esempio, oltre agli aspetti già segnalati, sarebbe emerso che: gli eventuali progressi raggiunti vengono meno quando l’appoggio esterno scompare; scattano in diversi soggetti delle forti resistenze anche solo interiori a cedere sulla propria autonomia e indipendenza; nelle situazioni concrete anche quelli che sono remissivi e passivi assumono atteggiamenti diversi da quelli loro indicati.

 

Gli atteggiamenti e i comportamenti non direttivi

Innanzitutto chi adotta il metodo non direttivo, anche nel colloquio spirituale, dovrebbe assumere tre disposizioni o atteggiamenti di fondo che permettono alla relazione di svilupparsi favorendo la conoscenza di sé della persona. È decisamente più importante, secondo questo indirizzo, il tipo di rapporto anche affettivo che si stabilisce con la persona, rispetto alle tecniche.

– L’autenticità: frutto della conoscenza e dell’accettazione di sé in tutti gli aspetti, si manifesta nello stabilire un rapporto pieno e genuino con se stessi e con gli altri; si manifesta nella trasparenza e nella comunicazione alla persona dei sentimenti che essa provoca in chi guida, anche eventualmente di quelli negativi. Con questo atteggiamento si vuole provocare franchezza e fiducia, l’abbandono delle maschere e la liberazione dalle difese.

– La considerazione positiva ed affettuosa che Rogers chiama accettazione incondizionata, e altri autori rispetto. Questo atteggiamento di fiducia verso tutti nasce dalla concezione positiva e ottimistica della natura umana propria della psicologia umanistica, e fa leva sul bisogno universale di essere accolti ed ascoltati con amore. Lo stesso Rogers ha detto che riesce a dare una considerazione positiva incondizionata chi “sente di accettare con calore ogni aspetto dell’esperienza del cliente”; e che questa considerazione è un amore non possessivo che “ha il significato del termine teologico agape e non l’abituale significato romantico e possessivo che gli si dà”[14]. La guida che assume questo atteggiamento deve abbandonare “nel colloquio i criteri oggettivi ai quali egli ispira la propria condotta, per immergersi nel mondo soggettivo dell’altro e percepire secondo l’ottica di costui gli eventuali aspetti negativi… riuscirà a comprendere che anche un comportamento oggettivamente condannabile, può essere perfettamente coerente nel contesto in cui l’individuo lo vive”[15]. Solo una educazione moralistica e un malinteso senso di responsabilità, secondo questa linea, può portare ad atteggiamenti direttivi ispirati dall’intenzione di portare un aiuto immediato in una situazione che si ritiene moralmente pericolosa. La considerazione positiva ha una serie di obbiettivi, vuole ottenere: l’autoesplorazione (conoscenza di sé); il superamento dello stato ansioso; l’accettazione di sé (“se sono stimato, mi stimerò anche se ho aspetti negativi”); la conquista di una sana autonomia personale; il superamento dei momenti critici[16]. La guida spirituale le dovrebbe mostrare questa stima e amore per la persona, con attestazioni chiare e ripetute per rafforzarla nella fiducia e nell’impegno.

– La comprensione empatica. È necessaria per avere una comprensione del significato personale e globale di ciò che la persona comunica verbalmente e non. Staccandosi da se stesso la guida spirituale deve immedesimarsi nel mondo percettivo dell’altro e partecipare alla sua esperienza. Per non cadere poi in una identificazione che lo coinvolgerebbe troppo, la guida deve richiamarsi spesso alla realtà e mantenere una distanza psicologica, come fanno gli psicoterapeuti. Entrare nel mondo soggettivo di un altro ed accogliere anche l’emotività che egli vive, è difficile e chiede di superare l’egocentrismo, la voglia di dominare, la tendenza a giudicare, la rigidità, sia l’indifferenza che l’amore troppo intenso. 

Circa i comportamenti si può dire che le tre funzioni di una guida spirituale che segua questo indirizzo vengono descritte come:

facilitare: sostenere la persona affinché si chiarisca, riformulando i contenuti già espressi perché li approfondisca;

valutare: dando informazioni e lasciando che sia la persona in forza della sua tendenza all’autorealizzazione e all’autoregolazione ad applicare le valutazioni al suo caso concreto;

orientare: indicando valori, ma non in modo strutturante, bensì empatico ed informativo, per risvegliare la tendenza all’attualizzazione che porterà il soggetto a scoprire in sé e a realizzare i suoi valori[17].

 

I contesti pedagogici di questi metodi e le antropologie sottostanti: un approccio critico

Come osservazione generale si può dire che questi metodi di intervento, sono più o meno coscientemente radicati in una visione dell’uomo che influisce sugli orientamenti pedagogici. È abbastanza chiaro dagli accenni fatti e dalla esposizione semplificata delle due metodologie direttiva e non direttiva che le visioni sottostanti sono una più pessimista e una più ottimista riguardo alle capacità della persona di percepire, di discernere, di decidersi ad agire anche in campo spirituale.

Quella pessimista pensa che l’uomo sia spesso guidato dalle passioni negative, quindi fragile, debole; ha una certa sfiducia nella persona. Perciò la guida che segue questo indirizzo usa paternalismo e autoritarismo; deve prende tutte le decisioni lei; non ci pensa nemmeno a mettere il soggetto di fronte alle sue responsabilità, per paura che cada di fronte alla tentazione; in certo senso approfitta del bisogno di dipendenza.

Una variante ancora più riduttiva di questa visione è quella che ha dato origine all’indirizzo psico-pedagogico del comportamentismo, dove l’educatore pensa che il soggetto sia una tabula rasa, quindi basti istruirlo, fargli eseguire dei compiti, guidarlo con indicazioni, direttive. La guida si accontenta del comportamento esterno; fa leva sulla educazione di gruppo; non distingue un atteggiamento tenuto per compiacenza da un atteggiamento guidato da valori interiorizzati. Non si preoccupa della mancanza di autonomia, di iniziativa, basta una buona obbedienza.

D’altro lato la guida spirituale non-direttiva, che segue un indirizzo ottimista, pensa che l’uomo sia libero, tendente naturalmente al  bene, responsabile, in crescita spontanea verso l’autorealizzazione. Non lo deve quindi limitare nelle sue scelte; lo facilita nel seguire i suoi sentimenti più autentici, perché essi tendono a corrispondere ai valori oggettivi; dà fiducia alla persona e gli lascia ogni libertà. Si aspetta che prima o poi si aprirà anche al radicalismo evangelico. Quindi non ha bisogno di confrontarlo per verificare se i criteri del suo agire sono oggettivi; non si preoccupa di distinguere un bene apparente e un bene reale nelle motivazioni che sorreggono gli atteggiamenti.

Entrambe le concezioni sono solo abbozzate e semplificate, ma come tutte le schematizzazioni esse servono per aiutarci a distinguere e leggere nella realtà. La critica di fondo che si può fare ad entrambe le modalità, direttiva e non direttiva, è che tendono a polarizzarsi e ad assolutizzare o la oggettività o la soggettività, come se l’uomo reale, anche nel suo cammino spirituale, non rimanesse sempre un “essere nel mondo”, incrocio misterioso tra coscienza pura e “cosa”, tra capacità di infinito e limiti. Se il cammino che si propone nel colloquio spirituale, come in ogni altro ambito educativo, non tiene conto di questo mistero nella sua unità, rischia appunto la duplice tentazione o di “un certo autoritarismo che pronuncia oracoli rimanendo esteriore alla persona, ed approfitta del desiderio di dipendenza” o di un certo “liberalismo, che lasciando fare approfitta del desiderio di autonomia” finendo entrambi per soccombere l’uno alla tentazione del dominio, l’altro a quella dell’abbandono. “In entrambi i casi l’individuo, come persona, non è raggiunto dall’opera educativa, il mistero della persona non viene rispettato, ma viene tradito”[18].

Anzi si potrebbero fare delle critiche anche più puntuali soprattutto alla non direttività di taglio rogeriano, come fa lo stesso Giordani che ne è stato un diffusore: si devono valutare negativamente la concezione immanentistica dei valori, il circolo chiuso entro il quale si muove l’autorealizzazione (senza autotrascendenza), la fragilità scientifica degli argomenti a sostegno della concezione ottimistica della natura umana. E anche a livello operativo ci sono alcuni punti deboli: l’uso della non direttività può essere poco stimolante e far ristagnare il dialogo; la dicotomia tra direttività e non-direttività non è corretta, gli interventi in realtà si situano su un continuum che va dall’una all’altra; nel proporre una meta non c’è un piano concreto di azione, non si propongono modelli di comportamento e di valori da conquistare.

Per rispondere ad alcuni dei quesiti che ci si ponevano all’inizio, non si può ridurre l’accompagnamento spirituale ad una questione di tecniche o di comportamenti: è l’incontro tra le due persone con tutta la loro complessità (cognitiva, affettiva, interpersonale) il vero luogo educativo, e sempre tenendo conto che in questo caso si tratta di favorire l’accoglienza e la presenza di una terza Persona, lo Spirito di Dio, che opera in modo efficace e potente nella misura in cui gli si fa liberamente spazio. Le tecniche devono essere a servizio di questo intervento.

Ma anche gli atteggiamenti di fondo (sia direttivi o non diretti) che possono essere utili in certi contesti psicoterapeutici, qui appaiono sempre riduttivi. Per esempio: si vuole promuovere il bene delle persone nella loro trascendenza verso Dio, non solo la loro tranquillità, fiducia, senso di autorealizzazione; si vuole accogliere con una bontà che sia “segno” e strumento di quella di Dio Padre, e che è più di una accoglienza positiva incondizionata; si vuole ascoltare con un interesse e un amore, che va al di là della neutralità o dell’empatia più disponibile; se si vuole orientare alla ricerca della verità, non si può accettare di essere “direttori non-direttivi” (A. Plé) o “senza risposte” soprattutto se si fa discernimento o accompagnamento vocazionale[19]. Un esperto di questo campo, il padre I.J.Allen, conclude che “nel suo insieme questo metodo deve essere  considerato come affatto non ortodosso” perché non prevede responsabilità e confronto, non accetta fondamenti etici[20].

È tutta la persona della guida spirituale che educa, con la sua filosofia di fondo, la quale si esprime in tutti gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali degli atteggiamenti che mette in atto. E gli atteggiamenti operano attraverso le tecniche, cosicché queste non sono facilmente separabili da quelli. Non è dunque indifferente usare tecniche direttive o non direttive: esse toccano la sostanza, sono mezzi orientati al fine per il quale sono stati approntati. 

In concreto, nessuna delle due metodologie se usate in modo assoluto ed esclusivo favorisce l’internalizzazione dei valori trascendenti, che è lo scopo di ogni tipo di colloquio spirituale cristiano, a maggior ragione se ha finalità di accompagnamento vocazionale. Infatti la direttività favorisce la compiacenza, il soggetto cambia gli atteggiamenti solo perché è spinto a farlo dai guadagni o per evitare problemi e solo quando sa di essere controllato. Ma anche la non-direttività lascia la persona in preda al suo soggettivismo; il buon rapporto che si stabilisce con l’educatore potrebbe, se la persona è già matura, favorire l’assunzione dei suoi valori per mezzo del processo dell’identificazione. Ma le persone già mature sono la netta minoranza, la possibilità è scarsa e comunque il processo dell’identificazione è troppo ambivalente.

 

Un modello pedagogico realista al servizio della vocazione

Il titolo di questa riflessione si concentrava su delle metodologie, su delle tecniche, ma abbiamo visto che esse non si possono adottare senza tenere conto del contesto antropologico e pedagogico in cui sono nate, per non correre il rischio di attuare un progetto educativo contrario all’antropologia cristiana. Inoltre abbiamo visto che un colloquio spirituale che voglia essere efficace non può ridursi ad un puro fatto di tecniche, né di risposte o soluzioni immediate, ma ha bisogno di essere sorretto da degli atteggiamenti educativi. Questo rimanda alla persona della guida, che è il vero strumento della crescita spirituale e vocazionale dell’altro, di cui si serve lo Spirito come maestro esteriore. Solo l’incontro tra le due persone che si coinvolgono cuore mente e volontà, permette la crescita. Entrambe le metodologie direttiva e non-direttiva, sono riduttive e insufficienti, se prese in sé.

Allora tutto quello che abbiamo visto non serve a nulla? Bisogna cercare altrove il contributo delle scienze umane al colloquio spirituale o anche da queste metodologie si possono trarre categorie e indicazioni compatibili con un progetto pedagogico che rispetti e favorisca le vocazioni cristiane? Procediamo per gradi. 

 

a) Innanzitutto chiariamo il fine del colloquio spirituale. Come processo concreto credo sia corretto dire che esso cerca di aiutare la persona a notare l’azione di Dio che lo chiama nei “frammenti” della sua storia; e nello stesso tempo aiuta la persona a leggersi in profondità per verificare se il progetto di vita che sta seguendo è una risposta coerente col piano di Dio, se si sta veramente lasciando guidare dallo Spirito, al fine di convertirsi sempre di più L’obiettivo non è la semplice maturità umana, ma è favorire l’internalizzazione, cioè una assimilazione personale e progressiva dei valori evangelici che modifichi effettivamente il modo di vivere, per arrivare ad amare Dio con tutto il cuore, la mente e le forze, nella libertà, secondo la propria vocazione. Ma per raggiungere questo obiettivo la guida deve essere abbastanza qualificata e competente da saper tenere conto delle predisposizioni umane del singolo chiamato. Il suo grado di maturità umana infatti, cioè le attese più realistiche o meno realistiche, le aree deboli di vulnerabilità che lo legano al passato o le aree forti di consistenza, hanno un grande ruolo nell’influenzare la pienezza della risposta vocazionale; perché condizionano il suo grado di libertà nell’accogliere i valori autotrascendenti della vocazione. Si potrebbe invocare lo Spirito per sanare le ferite e crescere, e si deve; ma normalmente lo Spirito fa miracoli solo con la nostra collaborazione: il cammino della maturità cristiana è lungo, chiede molta preghiera, tanta pazienza, lavoro su stessi.

b) La guida spirituale deve essere allora animata né da pessimismo, né da ottimismo pedagogico, ma da realismo cristiano, frutto di una antropologia cristiana integrale. Essa tiene presente che il chiamato è libero, ma fragile, segnato dal peccato; ha potenzialità innate che possono divenire forze per lo sviluppo umano e per la vocazione cristiana; ma si porta dentro anche tendenze emotive dissonanti rispetto al Vangelo, a volte non coscienti. È proprio del realismo cristiano tenere conto che una parte del volere emotivo della persona è in contraddizione con i valori evangelici, un’altra parte della emotività può invece servire alla vocazione e a questo va formata. La guida spirituale animata da realismo cristiano, come agisce? Non è né libertaria e permissivista, né autoritaria e paternalista. Parte dalla vita concreta del chiamato e prende in considerazione le sue domande, le sue lotte e le sue ansie. Esse sono occasioni preziose per arrivare al mistero della persona. Il primo errore da evitare è lasciare il soggetto fermo al livello dei problemi che pone (= non-direttività) senza favorire la discesa in profondità per scoprire la vera domanda sottostante che è quella che lo aprirebbe al Mistero di Dio. Una pedagogia solo “soggettiva” trascura di fatto la persona e la abbandona. Il secondo errore è che sia la guida stessa a dare gli orientamenti (= direttività), non permettendo al chiamato di fare discernimento sulle sue risposte e autocorreggersi nella libertà per essere più autentico nella scelta delle motivazioni vocazionali. Una pedagogia solo “oggettiva” corre il rischio di far sì che i valori rimangano estrinseci, imposti e sopportati anziché interiorizzati. L’unica via è quella di far incontrare il soggetto, il chiamato e i valori, specificamente quelli vocazionali, attraverso una educazione lenta e progressiva all’uso della libertà, che non è mai spontaneismo, né determinismo21. Bisogna superare la tentazione della ricerca di soluzioni facili, di certezze che derivino da esperienze immediate, illuminazioni che tolgano ogni dubbio, oppure da ragionamenti logici, matematici. Per arrivare a decidere la propria vocazione, o per scegliere tra due beni il maggiore, non si può fare a meno di consultare i desideri e i responsi spesso contraddittori del proprio cuore, analizzare gli stati emotivi e i rapporti interpersonali, per arrivare ad una verità che non si presenterà mai come una certezza assoluta alla quale aderire senza rischi, e specificamente senza il rischio della fede. La guida spirituale realista sa che l’appropriazione del vero e del bene, anche riguardo alla scelta vocazionale, non avviene immediatamente (= ottimismo), senza il travaglio della critica delle intenzioni e dei desideri del soggetto. Né i valori oggettivi di ogni vocazione cristiana sono una realtà estrinseca indipendente dallo sguardo e dal desiderio del chiamato da assumere una volta per tutte. Essi vivono se sono accolti in una interiorità che continua a porsi domande e a lasciarsi chiamare, che continua a perdersi per ritrovarsi. “L’oggettività è frutto di una soggettività autentica”[22].

c) Un primo movimento del discernimento che la guida deve favorire è allora quello di vedere e interpretare le domande, le lotte e le inquietudini anche piccole del chiamato come “il manifestarsi di una ricerca, di un desiderio, di un confronto con il Mistero” stesso di Dio[23];  nel frammento si trova il Tutto. Un secondo movimento è quello di favorire la purificazione di queste realtà che contengono sempre anche motivazioni spurie o strumentali, per riformulare e trasformare le domande iniziali; l’incontro con Dio permette come effetto secondario di riconoscere e affrontare anche le inquietudini umane. Per esempio, un giovane che dice di voler impegnarsi per una causa, di voler raggiungere un livello più alto di meditazione e di ricerca spirituale, di voler combattere per giustizia e la fratellanza nel mondo, può essere aiutato a vedere se queste ansie e lotte non rivelino che più in profondità c’è un desiderio di consacrarsi a Dio. E un giovane che sta camminando per consacrarsi a Dio, deve essere aiutato a vedere se insieme con questo obbiettivo non ci sia anche quello di trovarsi una identità positiva dopo tanta ricerca a vuoto, di trovare una comunità accogliente e affettuosa, di avere una regola che gli dia sicurezza…, affinché arrivi a coltivare solo le motivazioni vocazionali genuine e germinative. L’efficacia del colloquio vocazionale dunque (approccio “genetico”, Imoda), dipende dal mettere in discussione le domande più immediate e esplicite, senza svalutarle, rilanciandole o riformulandole ad un livello diverso per far emergere le aspirazioni implicite e nascoste, come fece Gesù col giovane ricco (cfr. Mt 19,16-22)[24]. Si tratterà, per fare un altro esempio, di andare oltre il livello cognitivo o intellettuale della formulazione del problema (“voglio conoscere meglio i problemi che mi frenano nella decisione vocazionale”), che potrebbe essere uno schermo, per arrivare al livello emotivo ed interpersonale della difficoltà che blocca la persona magari da tanto tempo (per esempio la paura della proprie passioni, o di liberare un po’ di capacità affettiva per desiderare davvero).

Si tratta in generale di: ascoltare le domande, le lotte e le ansie, aiutare a formulare i desideri (“dar loro un nome”) che si muovono dentro la persona, spesso recuperandoli perché nascosti. E poi confrontarli, perché spesso sono in contrasto tra loro, esponendoli alla coscienza e quindi alla libertà del soggetto che potrà decidere cosa fare. Dà un aiuto indispensabile anche la ricerca, nella storia personale, delle radici nel passato di queste domande o di queste inquietudini, che spesso sono il segreto della loro forza positiva o negativa, di sviluppo o di blocco.

d) Abbiamo sottolineato come nelle due metodologie direttiva e non direttiva ci sia una differenza non solo di azioni (“tecniche”), ma di atteggiamenti e soprattutto di relazione che si stabilisce tra guida e chiamato. L’incontro, ma soprattutto la relazione che si stabilisce tra i due (e con lo Spirito!) è decisiva per l’efficacia del cammino. E la relazione di fatto si trova davanti ai problemi posti dalla direttività e dalla non-direttività. Cosa fare?

 

Potremmo porre il problema così: bisogna essere accoglienti e benevolenti, far sentire amicizia, simpatia, vicinanza anche affettiva, per far sentire fiducia, oppure questo inquina il rapporto, distrae dai valori, rende troppo soggettivo il percorso e lo espone alle ambiguità di ogni rapporto interpersonale intenso; quindi bisogna mantenere le distanze affinché la persona “perda e ritrovi” se stessa? La risposta è che innanzitutto una relazione, come una comunicazione, per essere educante non può avvenire solo a livello riflessivo; è inevitabile che sia coinvolto il livello affettivo e anche quello pratico operativo, di entrambi i soggetti. L’ideale sarebbe raggiungere un  equilibrio tra avvicinarsi e distanziarsi (come tra gratificazione e frustrazione, stimolazione e stabilità, ecc.), ma non in teoria. Vicinanza e lontananza, con tutte le variazioni intermedie, sono delle occasioni educative che devono trovare l’equilibrio più conveniente nelle circostanze uniche e specifiche di ogni individuo, e non solo, ma l’allontanarsi e l’avvicinarsi potranno essere utili di volta in volta a seconda di cosa sta vivendo la persona, in relazione alle sue chiusure o aperture. Per uno la vicinanza è desiderabile per recuperare un vuoto del passato, per un altro può favorire una chiusura in sé. Una volta la vicinanza può essere rassicurazione, un’altra può essere sfida; così il distanziarsi in certi momenti può essere segno di stima, fiducia e amicizia. Solo la conoscenza approfondita del soggetto e della sua storia, letta con la competenza di chi conosce i processi di sviluppo, permette di decidere quale atteggiamento è più adatto. Solo una guida che sa stabilire una relazione matura, sarà capace di rispetto, cioè di sufficiente vicinanza e di corretta distanza. Così si innesca il processo del discernimento.

Tra i fattori che sembrano utili per raggiungere questo equilibrio nel colloquio spirituale, se ne possono elencare tre fondamentali. La conoscenza dei processi di sviluppo della persona umana; il rispetto; l’empatia. “Nel rispetto c’è la possibilità di farsi disponibili, lasciando essere l’altro e aprendo uno spazio di comunicazione, attendendo, provando ad avanzare pronti a ritirarsi, ma eventualmente anche provocando, confrontando, sfidando”[25]. L’empatia, distinta dalla semplice identificazione (fusione) e da ogni tipo di relazione narcisistica, “permette di muoversi avanti e indietro, passando con una certa facilità dall’esperienza dell’altro come sé, e del sé come altro (J. Urist)”[26]. La competenza circa i processi di sviluppo, e la maturità umana e relazionale richiesta per l’esercizio benefico del rispetto e dell’empatia, sono qualità che si costruiscono con studio, tempo, esperienza, supervisione e saranno fruttuose se inserite in un cammino spirituale che renda la guida sempre più aperta all’ispirazione dello Spirito Santo. 

 

Conclusione

Concludiamo con una nota circa il tema dell’obbedienza all’interno del colloquio spirituale, chiamato in causa dalla riflessione sulla direttività. Già alcune indicazioni sono state date, ma una distinzione ulteriore può anche chiarificare. Si potrebbero individuare diversi livelli o tipi di rapporto spirituale che si stabiliscono tra la guida e il chiamato: l’intensità di essi influirà sul tipo di obbedienza, sempre ricordando però che va mantenuta la distinzione tra foro esterno ed interno e quindi tra superiori che hanno una potestà soprattutto giuridica esterna e guida spirituale che  non ha una potestà di questo tipo.

Il p. A. Louf, monaco, studioso della spiritualità monastica antica ed esperto anche di scienze umane, distingue tre tipi di accompagnamento spirituale a livelli di profondità (e di obbedienza) crescente: 

– il dialogo di accompagnamento, la forma più frequente e praticata da diverse figure (un fratello maggiore nella fede, un altro membro della comunità, un educatore, un amico ecc.); esso avviene in clima di fraternità e di amicizia spirituale, perciò la persona tiene in grande conto l’aiuto che riceve, ma prende le sue decisioni con una certa autonomia;

– la pedagogia spirituale, più specifica e meno comune, dove il maestro spirituale accompagna per un periodo più o meno lungo, ma molto intenso della vita spirituale in vista di un obbiettivo concreto: una scelta vocazionale, un periodo di formazione, il noviziato, una crisi o una svolta nella vita, una prova particolare. La guida qui può anche non essere di libera scelta, deve essere competente per raggiungere l’obbiettivo specifico in un tempo a volte limitato. Qui riguardo all’oggetto specifico di questo accompagnamento il discepolo concede all’intervento del maestro spirituale la priorità su quello di ogni altro confidente o su quello della comunità;

– il padre spirituale: figura abbastanza rara, come è stata concepita nell’antichità e soprattutto in oriente, è dotato di un carisma particolare per cui egli partecipa alla paternità di Dio in un modo originale e intenso. È un dono che si riceve, non si può presumere di esserlo solo perché viene affidato il ruolo. Si stabilisce con lui un rapporto unico e irripetibile fonte di grazia, di generazione spirituale e di scelte decisive. A questo tipo di paternità, rara, si accede con una grandissima disponibilità e trasparenza di cuore e le si concede grande autorità su di sé, sempre nella libertà dell’amore,  finché è necessario per il proprio cammino spirituale[27].

 

Note

[1] Cfr. B. Giordani, Fattori psicologici e metodologia, in B. Giordani – A. Mercatali, La direzione spirituale come incontro di aiuto, La Scuola, Brescia 1984, pp. 207ss. A questo autore ci rifacciamo per buona parte del discorso sulla non-direttività.

[2] Cfr. B. Giordani, ivi, che cita gli studi di M. Pagès sulla non-direttività.

[3] Cfr. R. Taddei, La terapia non direttiva di Carl Rogers, in Aa.Vv. La direzione spirituale oggi, Dehoniane, Napoli 1981, p.139-143.

[4] Da Y. Saint-Arnaud, cit. in Giordani-Mercatali, p. 207.

[5] J. Mousseau, Conversazione con C. Rogers in Psicologia Contemporanea  2 (1975) 7, p. 45.

[6] Giordani-Mercatali, p.208.

[7] Per es. A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, Milano 1970.

[8] S. Consoli, La direzione spirituale nella storia, in Aa.Vv. La Direzione spirituale oggi, pp. 26-27.

[9] Antonio il Grande, in Vita e detti dei Padri del deserto, Roma 1975, I, p. 94.

[10] G. Cassiano, Conferenze spirituali, 2°, X-XI, in CONSOLI, op. cit., p. 28.

[11] Giordani-Mercatali, p. 167ss.

[12] Ivi, p. 209-211.

[13] Ivi, p.38.

[14] C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze 1970, pp. 55 e 94.

[15] Giordani-Mercatali, p. 174.

[16] Ivi, p. 176.

[17] Y. Saint-Arnaud, cit. ivi p. 158s.

[18] F. Imoda, Sviluppo umano, psicologia e mistero. Piemme, Casale Monf. 1993, p. 13.

[19] Giordani-Mercatali, p. 217 e 161-164.

[20] J. J. Allen, La via interiore, la direzione spirituale del cristianesimo orientale, Jaca Book, Milano 1996, p. 156 s.

[21] F. Imoda, op. cit., p. 355-57.

[22] Ivi, p. 356.

[23] Ivi, p. 345.

[24] C. M. Martini, Gli esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di S. Matteo, ed. C.V.C., Roma 1981, pp. 43-54. 

[25] F. Imoda, op. cit., p. 363.

[26] Ivi.

[27] A. Louf, Generati dallo Spirito, ed. Qiqajon, Bose 1994, pp. 54-59.