Appartenenza
«Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente
e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo,
che lo riconoscesse secondo la verità̀ e lo servisse nella santità̀» (Lumen gentium, 9).
«Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare (…)”» (Lc 11,1-4) Questa richiesta, espressa da uno solo dei discepoli, a guardarla bene, è una richiesta plurale ed è questa coralità che dovremmo prendere finalmente sul serio.
Le più recenti influenze culturali – o contro-culturali – che dal secolo scorso ci spingono decisamente a guardare la vita in maniera individuale e intimista, si riverberano anche nel nostro modo di saperci Chiesa e nel nostro modo di pregare.
Potremmo dire con Gesù, “in principio non fu così”: ma «la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). La vita della Chiesa nasce e cresce da e dentro una comunità di fratelli e sorelle che «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (At 2, 42-47).
Non possiamo liquidare con leggerezza questo annuncio dal sapore comunitario, assecondando la tentazione narcisista che impera in questo tempo e togliendo forza alla preghiera del popolo di Dio.
Se è vero, infatti, che la forza vocazionale che si genera dall’incontro personale con il Signore Gesù è l’energia che scatena l’urgenza del cuore a decidersi per la sequela è, e deve essere, altrettanto vero che senza la mediazione di una comunità, senza l’appartenere ad una porzione concreta del popolo di Dio in cammino, anche la conversione più travolgente rischia di disperdersi in un intimismo senza sbocchi concreti.
Dalle parole chiarissime di S. Paolo espresse nella Costituzione Apostolica con la quale si promulgava l’ufficio divino rinnovato a norma del Concilio Ecumenico Vaticano II del 1970 (9), apprendiamo la necessità di tenere insieme, nel senso più propriamente cattolico (dal greco antico καθολικός, katholikós: universale, nell’insieme, nel totale, tutto intero), l’intimità della preghiera con la sua dimensione corale: «Sebbene la preghiera fatta nella propria stanza e a porte chiuse sia sempre necessaria e da raccomandarsi, e venga anch’essa compiuta dai membri della Chiesa per Cristo nello Spirito Santo, tuttavia all’orazione della comunità compete una dignità speciale, perché Cristo stesso ha detto: ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro’».
Insegnare a pregare oggi significa restituire ad ognuno quella relazionalità che ci fa persone e non individui e che porta con sé il gusto di appartenere a un coro nel quale ogni voce ha la sua ragione di essere e prende coraggio dal legame con ogni altra voce.
Nell’accompagnamento personale e, quindi, nel discernimento vocazionale, appare urgente contribuire tanto alla ri-costruzione di uno spazio interiore per l’ascolto della Parola di Dio e della preghiera personale quanto di un luogo ospitale dove accogliere e vivere quella dimensione originaria fatta di fraternità, condivisione e amicizia, regalataci da Dio in quel meraviglioso sesto giorno della creazione.
Non possiamo dimenticare quanto, a questo proposito, è stato magistralmente espresso già nel 2009, da Benedetto XVI nella lettera enciclica Caritas in Veritate al numero 53: «La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale». Quello che si può dire per la maturazione della propria identità si può dire altresì per la maturazione della propria vocazione: sono processi rivelativi che accadono dentro e attraverso le relazioni e non altrimenti.
«Proprio questa è l’originalità della vocazione cristiana: far coincidere il compimento della persona con la realizzazione della comunità; ciò vuol dire — ancora una volta — far prevalere la logica dell’amore su quella degli interessi privati, la logica della condivisione su quella dell’appropriazione narcisistica dei talenti (cf. 1 Cor 12-14)» (CIVCSVA, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 1997, 18).
Appartenere a un popolo è, a giudizio di chi scrive, una notizia da condividere e rilanciare il più possibile proprio nell’universo cattolico dei giovani in ricerca vocazionale perché conoscano da subito che non sono soli, ma che la Chiesa è una carovana in movimento, è un pellegrinaggio di persone oranti che ha visto il suo avvio da ogni fonte battesimale e vede la sua destinazione nel regno dei cieli.