N.03
Maggio/Giugno 2012

“Alzati, amica mia bella, e vieni”

Sono alcuni dei passaggi più limpidi della poesia tersa e cristallina che, come scintilla luminosa, emana dal secondo poema del Cantico dei Cantici (2,8-3,5). Questo nuovo appuntamento della rivista vuole percorrere ed approfondire alcune di quelle intuizioni, esplorando la dimensione del “fidanzamento” come cifra di lettura di ogni Vocazione, ben sapendo che ogni scelta di Consacrazione è legata ad un innamoramento, ad un tempo di ricerca, di attesa e di scoperta dei segreti del cuore umano, per renderlo recettivo a quella Voce che chiama e fa di ogni scelta vocazionale un grande inno all’Amore ricevuto e donato. Ritorniamo per qualche istante al secondo poema del Cantico dei Cantici. Esso manifesta il desiderio intenso della presenza di colui o colei di cui si è innamorati; è la ricerca affannosa dell’Amato, il sogno di cercarlo e la delusione di non trovarlo. Un tratto essenziale di questa ricerca è rappresentato proprio dalla “Voce”. Essa non è solo segnale di identificazione pura e semplice di qualcuno: la sua modulazione, il suo timbro, la sua intonazione dicono molto di una persona.

La Voce esprime il pensiero e svela il sentimento; evoca una emozione e stabilisce una sintonia; manifesta o nasconde una verità. La Voce dell’Amato è come intarsiata entro forme dai contrasti vivissimi, nel profumo accattivante della primavera e nel suono di un passo atteso, tra inverno e primavera; ed esplode nella sua forza di vita, in questo misterioso gioco di assenza e presenza. La voce amata è riconoscibile tra mille altre voci. Questo secondo poema potrebbe scandire bene i tempi di ogni innamoramento e di ogni scelta di vita, in cui la cifra amorosa è imprescindibile e insieme così misteriosa da individuare e da raccontare. Il richiamo del poemetto alla pioggia invernale, con il suo freddo che quasi gela il cuore, denota tutta l’insistenza e il fastidio dell’amato, che non ha potuto incontrare il respiro del suo cuore.

Ed ecco stagliarsi sullo sfondo l’immagine in cui l’amata è paragonata alla colomba selvatica, che nidifica negli anfratti delle rocce. Chi è innamorato è fantasioso e creativo, non cade nella routine e nella noia. Questo itinerario vibrante sfocia in una espressione che potrebbe essere la sintesi più bella di ogni scelta vocazionale, intesa come “innamoramento e fidanzamento”: “Il mio amato è mio e io sono sua“. Questa è sicuramente una dichiarazione d’amore tra le più intense della letteratura di tutti i tempi. “È la formula della mutua appartenenza“, come la definisce il romanziere francese Octave Feuillet (18211890) . Tutto si esprime in un soffio, una melodia, un respiro brevissimo: “Dodì lì, wa’anì lò“. Tradotta in parole d’amore, è la formula della Alleanza: “Il Signore sarà il tuo Dio e tu sarai un popolo tutto suo” (Dt 26,17-18). Se l’amore è come un diamante prezioso, c’è un’altra sfaccettatura dalla quale non si può prescindere nel contemplarlo.

È la capacità di esprimere tenerezza. Al di là di tutto quello che si può cercare di dire su questo sentimento meraviglioso del cuore umano, la tenerezza rimane pur sempre qualcosa di ineffabile e di indefinibile. Nella tenerezza non ritroviamo forme di languide sdolcinature: essa diviene parola e gesto vissuti nell’orizzonte del dono. Essa significa dare la possibilità all’altro di trovarsi a proprio agio in una relazione profonda. Se questo vale a livello umano, quanto più sarà vero nel rapporto con Colui che ci ama e ci chiama: il Signore Gesù.

La tenerezza è un elemento di abbandono e di sicurezza, da cui sentirsi avvolti, che ci permette di svelarci e di donarci agli altri, dolcemente e delicatamente, vivendo la bellezza di gesti di Bene, coinvolgenti e intensi, carichi solo del desiderio che ogni cuore donato a Dio sia anche un cuore profondamente donato agli uomini. Beati coloro che sapranno viversi come dono!

È sotto ai nostri occhi nella vita di tutti i giorni: gli uomini del nostro tempo vorrebbero avere la pretesa di dominare, anzi, di catturare gli altri; noi vorremmo avere la pretesa di saper donare. A ciascuno di noi il Signore affida qualcuno.

Il nostro dono è saper ascoltare e accogliere nell’altro la parte di lui o di lei che è ferita, che fa male, che sanguina. È cercare di comprendere quello che sta vivendo il suo cuore fino a che, anche nel profondo di una vita tormentata dalla lotta, dalla prova e dal dolore, potremo  insieme scoprire la speranza di Dio, la sua consolazione, che è poi la speranza stessa per vivere. Il vero ascolto è un capire anche senza parole, anche nel silenzio, quello che la vita di ognuno bisbiglia e sussurra. È uno scoprire simultaneamente lo splendore e la fragilità, l’abisso e la pienezza della vita stessa. Mario Pomilio, scrittore e giornalista (1921-1990), fa dire ad Alessandro Manzoni nel suo romanzo Il Natale del 1833 (Premio Strega 1983): “Se pure corressi per mari stranieri, tornerò sempre, o Signore, a far naufragio nel tuo mare“. E il grande poeta e filosofo spagnolo Miguel De Unamuno y Jugo (1864-1936), afferma: “Rammento di aver sentito dire che le ostriche si possono aprire con la persuasione. Mettendole nell’acqua salata, esse s’immaginano di essere nel loro elemento, nell’acqua di mare, e, sentendosi sicure, si aprono da sé“.

 

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