N.06
Novembre/Dicembre 2012
Studi /

Abitare la città: aspetti socio-culturali della civitas

Due sono i principali modelli di ordine sociale che si sono affermati e diffusi in Occidente: quello della polis greca e quello della civitas romana. Quest’ultima, a differenza della prima, è un tipo di società includente di tipo universalistico e ciò nel senso che tutti devono poter essere accolti nella città, sotto l’unica condizione che se ne rispettino le leggi e i principi fondamentali del vivere comune. Non così nella polis greca, alla cui agorà (piazza) non erano ammesse le donne, né i servi, né gli incolti. Quello della polis greca fu dunque un modello sociale escludente. Come è stato detto, Roma fu cattolica (cioè, letteralmente, universale) prima ancora di diventare cristiana.

È sul fondamento valoriale della civitas che, a far tempo dalla rinascita dell’XI secolo (il secolo del c.d. “risveglio europeo”), prende avvio in Italia il modello della civiltà cittadina, una delle più straordinarie innovazioni sociali nella storia dell’umanità. La ripresa della vita culturale, emblematicamente espressa dalla nascita dell’Università a Bologna nel 1088, per un verso, e il successo straordinario della Rivoluzione Commerciale, per l’altro verso, sono all’origine di un nuovo modello di ordine sociale centrato sulla “città”. Non però la metropoli capitale di imperi, come erano state Roma o Costantinopoli, luoghi del potere centralistico e crocevia di etnie diverse. Ma la città-comunità di uomini liberi che si autogovernano mediante istituzioni appositamente create che si attornia di mura per tutelarsi da chi non è parte della comunità e dunque non merita la pubblica fiducia. Lo stesso spazio urbano è disegnato in modo da rendere visibile e da favorire lo sviluppo degli assi portanti della nuova convivenza: la piazza centrale intesa come agorà, la cattedrale, il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni, il mercato come luogo delle contrattazioni e degli scambi, i palazzi dei ricchi borghesi, le chiese che ospitano le confraternite.

Era entro questi luoghi, tutt’altro che virtuali, che venivano coltivate quelle virtù che definiscono una società propriamente civile: la fiducia reciproca; la sussidiarietà; la fraternità; il rispetto delle idee altrui; la competizione di tipo cooperativo. Questo impianto della città è qualitativamente diverso sia da quello dei villaggi agricoli, spesso un mero agglomerato di case senza un’urbanistica che rinviasse a pratiche di autogoverno, sia da quello dei villaggi annessi ai castelli dei signori feudatari. La cifra della città-comunità non è tanto la più grande dimensione, quanto piuttosto la capacità di realizzare coesione sociale e di esprimere un’autonomia politica ed economica. Nel Trecento, nell’Italia centro-settentrionale, dove il modello di civiltà cittadina ha trovato facile diffusione, si contavano già 96 città con più di cinquemila abitanti – 53 delle quali con più di diecimila abitanti – con un’incidenza del 21,4% sul totale della popolazione ivi residente, a fronte di un’incidenza europea del 9,5%.  Solamente i Paesi Bassi riuscirono ad imitare celermente il modello italiano, mentre l’Inghilterra ancora nel 1500 aveva un’incidenza della popolazione urbana pari a solo il 4,6%.

Ad una delle istituzioni che molto presto vennero create va fatta risalire l’organizzazione del lavoro manifatturiero, cui si deve non solamente l’aumento della produttività, ma anche l’incremento continuo della qualità dei prodotti. Si tratta delle corporazioni di arti e mestieri, il cui fondamentale ruolo civilizzatore si va ora riscoprendo. Fu attraverso le corporazioni che avveniva la formazione delle nuove leve lavorative per il tramite dell’apprendistato, (che terminava con il “capolavoro”, termine che viene coniato in questo periodo) ed è ancora ad esse che si deve la predisposizione di quegli strumenti di misura e di controllo della qualità (i cosiddetti standard) che valsero a rendere il mercato più affidabile e trasparente, abbassando così i costi di transazione – in particolare i costi di raccolta delle informazioni. Col tempo si esagerò con il vincolismo e le corporazioni si chiusero nei confronti dei vari gruppi di “infami”. Per questo già nel Settecento esse vennero smantellate, ma ciò avvenne dopo che avevano insegnato al mondo il principio dell’autorganizzazione dei produttori. Ha scritto George Simmel: «La corporazione racchiudeva in sé l’uomo intero; l’arte dei lanaioli non era soltanto un’associazione di individui che curava gli interessi della manifattura della lana, ma anche una comunità di vita, dal punto

di vista tecnico, sociale, religioso, politico e da molti altri punti di vista» (1984, p. 491).

L’economia delle città italiane era costituita di manifattori e di mercanti, oltre che di navigatori nelle città costiere. Ai mercanti spettò il ruolo di aprire nuovi mercati, anche a grande distanza, verso i quali riversare i prodotti della manifattura e dai quali importare materie prime e quanto di interessante essi avevano da offrire. I mercanti furono non solamente i più attivi produttori di innovazioni organizzative in campo aziendale – come già si è ricordato – ma anche i più attivi soggetti di apertura culturale. Scrive, al

riguardo, Benedetto Cotrugli nel suo Della Mercatura e del Mercante Perfetto, pubblicato intorno alla metà del Quattrocento: «Et habbino pazienza alcuni ignoranti li quali dannano il mercante, che è sciente.

Anzi incorrono in maggiore insolentia volendo che il mercante debba essere illetterato. Et io dico che il mercante non solo deve essere buono scrittore, abbachista, quadernista, ma anche letterato et buon retorico».

Fu all’interno delle città che si affermò l’amore per il bello – la filocalia che crea e realizza la percezione di un’appartenenza, e quindi facilita le relazioni interpersonali. Se ne ha chiara manifestazione

nella costruzione e nell’arredamento delle Chiese, nella edificazione di palazzi, dapprima pubblici e poi anche privati, inaugurando quel mecenatismo che non solo finanziò gli artisti, ma consentì la nascita del mercato dei beni durevoli di carattere artistico. Il mercante – si badi – non è semplicemente il filantropo che, mentre fa donazioni attingendo alla propria ricchezza, non si cura dei modi del loro utilizzo. Il mecenate, invece, si relaziona con l’artista, instaurando rapporti di collaborazione di lungo periodo, non sempre privi di conflitti, ma certo non anonimi, allo scopo di perseguire obiettivi di interesse collettivo in funzione dei quali egli pone le proprie risorse e il know-how organizzativo.

La città rappresentava l’ambiente ideale per tutto ciò e se ne comprende agevolmente la ragione. Di cosa aveva primariamente necessità il nuovo modello di ordine sociale che, in modo del tutto spontaneo, si andava imponendo? Soprattutto di fiducia e di credibilità reciproca, virtù queste che abbisognavano di norme sociali la cui propagazione l’ambiente cittadino tendeva appunto a favorire. Al tempo stesso, però, un tale ordine sociale finiva con il distinguere nettamente tra coloro che prendevano parte attiva alla

costruzione del bene comune attraverso attività economiche esercitate con competenza e con profitto e coloro invece – come gli usurai, gli avari, i manifattori incompetenti, ma anche quei poveri che, pur potendo fare qualcosa, si lasciavano andare all’accidia – che accumulavano solo per sé, tendendo a sterilizzare la ricchezza in impieghi improduttivi. Per garantire che la fiducia non venisse mal riposta, le città si dotavano sia di tutte quelle istituzioni di controllo dell’attività economica facenti capo alla Camera dei Mercanti (in seguito, Camera di Commercio) sia di quelle iniziative di solidarietà civica messe in atto dalle confraternite. Chi sono le persone degne di rispetto e di fiducia? Quelle che non lavorano solo per sé e per la propria famiglia, ma che si adoperano per realizzare opere di carità e che mantengono la parola data: in tal modo, facendosi conoscere ed apprezzare dalla comunità, esse accrescono il proprio capitale

reputazionale.

 

  1. Dal bene proprio al Bene comune

La diffusione e l’espansione delle città – conseguenza e causa, ad un tempo, della fioritura del modello di civiltà cittadina – alle novità e ai punti di forza di cui si è detto nel capitolo precedente associano un esito del tutto indesiderato: lo spirito di fazione. Come suggerisce Francesco Bruni (2003), Dante fu tra i primi ad intuire che ciò costituiva un fattore di estrema pericolosità, capace di minare le

fondamenta stesse della coesione e dell’armonia sociale. Nel libro IV del Convivio, il poeta non esita ad indicare nella cupidigia l’origine dello spirito di parte, tanto che la ben nota proposta dell’impero universale viene giustificata come rimedio estremo all’avanzata di tale vizio: solo un dominio esteso a tutto il mondo potrebbe indurre l’imperatore a dar vita al migliore dei governi e ad amministrare con saggezza la giustizia. Ambrogio Lorenzetti, nella sua celebre Allegoria del buon governo (1338), rappresenta l’avarizia come la causa di tutto quello (ruberie, rapine, violenza) che non consente lo sviluppo armonioso della città. Poiché il buon governo è sinonimo di buon commercio – la civiltà, sembra voler dire il pittore, è il mercato – l’avarizia del mercante accresce la faziosità e quindi induce

al malgoverno.

La cura da tutti invocata per contrastare lo spirito di fazione è il bene comune, che è l’esatto contrario del bene proprio. È ai francescani dell’Osservanza che si deve la prima sistematica traduzione

della nozione di bene comune sul terreno propriamente economico. La figura che giganteggia a tale riguardo è quella di Bernardino da Siena che verrà proclamato santo da Pio II – il grande umanista Enea

Silvio Piccolomini – già nella seconda metà del Quattrocento, a soli pochi anni dalla morte. In una predica senese del 1425, Bernardino incita alle pratiche di bene comune perché “Idio è comuno bene”;

quanto a dire che la condanna dello spirito di parte trova il suo fondamento addirittura nella teologia. La nozione di bene comune, per il pensiero francescano, non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in quanto è in relazione essenziale con l’altro. Comune è dunque il bene della relazione stessa fra persone; è il bene proprio della vita in comune. È comune ciò che non è solo proprio – è tale invece il bene privato – né ciò che è di tutti indistintamente – è tale il bene pubblico. Nel bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una data comunità non può essere scisso dal vantaggio che altri pure traggono da esso. Quanto dire che l’interesse di ognuno si realizza assieme a quello degli altri, non già contro – il che è quanto succede col bene pubblico. Come già Aristotele aveva chiarito nell’Etica Nicomachea, la vita in comune tra esseri umani è cosa ben diversa dalla mera comunanza del pascolo propria degli animali. Nel pascolo, ogni animale mangia per proprio conto e cerca, se gli riesce, di sottrarre cibo agli altri. Nella società umana, invece, il bene di ognuno può essere raggiunto solo con l’opera di tutti, e soprattutto il bene di ognuno non può essere goduto se non lo è anche dagli altri. Ecco perché il bene comune, che è il bene della città, è superiore al bene dell’individuo. Tommaso sarà ancora più esplicito quando scrive che il «bene comune è più divino perché più simile a Dio che è la causa ultima di tutto il bene».

La realtà economica possiede, di per sé, capacità coesiva per la communitas christianorum, ma a condizione che gli individui, entro la communitas-mercato, non lascino prevalere l’avarizia e l’egoismo.

Quanto a dire che communitas-christianorum e communitas-mercato non sono due realtà scindibili, perché l’una implica l’altra. È da questo convincimento profondo che Bernardino e, più in generale,

l’Osservanza partono per la riorganizzazione etico-economica delle città e per l’esplicita polemica nei confronti dell’attività feneratizia ebraica. Quest’ultima, particolarmente diffusa nell’Italia centro-settentrionale alla fine del Trecento, è presa di mira perché responsabile sia della rottura delle relazioni interpersonali sia della sottrazione della ricchezza dal circuito virtuoso della stessa. L’avaro, e perciò

usuraio, si serve del denaro e della ricchezza in senso anticittadino e teologicamente perverso. Di qui l’ostilità dei predicatori dell’Osservanza nei confronti delle comunità ebraiche, percepite come soggetti

collettivi generatori di effetti antieconomici e antisociali, ad un tempo.

Tutto ciò spiega perché furono proprio i francescani dell’Osservanza a progettare e a dare vita a quell’istituzione economico-finanziaria veramente notevole che sono stati i Monti di Pietà, il primo dei quali viene fondato a Perugia nel 1462. Nati con l’obiettivo di arginare il prestito feneratizio e di recuperare entro la comunità la trama di relazioni che l’usura andava distruggendo, i Monti di Pietà si posero a scalzare gli istituti di prestito su pegno privati, assumendo un ruolo di mediatori tra gli interessi delle varie categorie di cittadini: garantire l’accesso al credito dei meno abbienti; andare incontro alle necessità dei mercanti; favorire la creazione di opportunità di investimento per i risparmiatori. Inizialmente i depositi sono gratuiti, ma poi si arriva fino ad una remunerazione intorno al 4%, mentre per gli impieghi si può arrivare ad un tasso del 6%. Il differenziale tra tassi attivi e passivi serve a coprire le spese di gestione, assicurando così la sostenibilità nel tempo del Monte.

È a Bernardino da Feltre (1439-1494) che si devono le prime sistematiche spiegazioni del significato economico dell’attività dei Monti. Nelle sue prediche a favore dell’erezione dei Monti – oltre 3.600 sermoni pronunciati nelle principali città dell’Italia centrosettentrionale – Bernardino fornisce argomenti volti a dimostrare la superiorità della nuova istituzione rispetto all’elemosina nella lotta contro la miseria e nel finanziamento di chi è portatore di idee nuove. Il primo di tali argomenti è la superiorità di un’istituzione cui molti contribuiscono, pur in piccola parte, rispetto all’iniziativa dei singoli. Il secondo è l’argomento “pluralitatis”: a differenza dell’elemosina, il Monte è in grado di aiutare molti allo stesso tempo e per bisogni diversi. Il terzo è l’argomento “sanctitatis”, particolarmente caro ai francescani: il contributo dato al Monte, essendo finalizzato alle opere di misericordia, assicura il Paradiso più efficacemente che il contribuire all’ornamento di Chiese. Infine, fondare un Monte significa «adiuvare rem publicam, bonum commune», anche se ciò può danneggiare gli interessi degli usurai e dei ricchi mercanti che – non a caso – avversavano la nuova istituzione, talvolta in modi addirittura violenti.

Il declinare del XV secolo vede l’inizio della secolarizzazione dell’Occidente e con essa della nascita dello Stato moderno. Dapprima, si tratta di un movimento di idee messo in atto dai circoli del Rinascimento, da quello di Salutati a quello di Bessarione dopo il 1453, a quelli dell’accademia ficiniana, portatori di programmi di rinnovamento sia sociale sia economico. Poi, nel secondo Settecento, la secolarizzazione si diffonderà al di fuori dei circoli intellettuali fino ad occupare gli spazi e i luoghi in cui si decide dell’esercizio del potere.

Laicizzante l’età moderna, ma non contraria alla religione. Con l’umanesimo l’uomo era stato posto al centro dell’universo, mentre la filosofia si era emancipata dall’aristotelismo, auspice il volontarismo

francescano con i filosofi nominalisti. William Ockham – il più famoso dei nominalisti – e i suoi allievi, Jean Buridan e Nicolas de Oresme, avevano ormai resa obsoleta la dottrina tomista degli universali mostrandone tutta l’irrilevanza (gli universali designavano le proprietà essenziali delle cose). La conoscenza – sostenevano i nominalisti – va cercata nello studio degli aspetti individuali, empirici delle cose, non già nella loro essenza universale. E mentre la politica con Machiavelli aveva cessato di essere una branca della filosofia morale, per diventare scienza, con la Riforma era la fede stessa che si emancipava dall’autorità costituita – «ognuno sacerdote di se stesso», come dirà poi Nietzsche. Il Principe viene scritto nel 1513; l’inizio della predicazione di Lutero nel 1517. Nel trattato Del commercio

e dell’usura (1524) Lutero si dice desolato nel constatare che «il male [l’usura] ha fatto progressi enormi e ha preso il sopravvento in tutti i paesi». Sposando una concezione rigorista del prestito, scrive: «Scambiare una cosa con qualcuno facendo nel cambio un guadagno, non è compiere opera di carità, è rubare. L’usuraio merita di essere impiccato e chiamo usurai quanti prestano all’interesse del 5 o 6 per cento». E le nascenti compagnie commerciali sono condannate senza attenuanti: «In esse, tutto è senza fondamento e senza ragione, avendo come fine solo la cupidigia e l’ingiustizia. Se proprio devono esistere le società o compagnie, allora bisogna che scompaiono giustizia e carità; ma se giustizia e onestà devono continuare ad esistere, devono scomparire le compagnie». È a dir poco sorprendente che parole del genere possano essere state dette dall’iniziatore di quell’etica protestante che di lì ad un paio di secoli

avrebbe costituito – secondo la ricostruzione di Max Weber – la matrice dello spirito capitalistico.

 

  1. Principio democratico e principio capitalistico

Veniamo al nostro tempo. Cosa può far pensare che il progetto tendente a restituire il principio francescano del bene comune alla sfera pubblica della città – non sia oggi solo una consolatoria utopia?

Due considerazioni, entrambe verificabili. La prima ha a che vedere con la presa d’atto che alla base dell’economia capitalistica è presente una seria contraddizione di tipo pragmatico – non logico, beninteso. Quella capitalistica è certamente un’economia di mercato, cioè un assetto istituzionale in cui sono presenti e operativi i due principi basilari della modernità: la libertà di agire e fare impresa; l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Al tempo stesso, però, l’istituzione principe del capitalismo – l’impresa capitalistica, appunto – è andata edificandosi nel corso degli ultimi tre secoli sul principio di gerarchia. Ha preso così corpo un sistema di produzione in cui vi è una struttura centralizzata alla quale un certo numero di individui cedono, volontariamente, in cambio di un prezzo (il salario), alcuni dei loro beni e servizi, che, una volta entrati nell’impresa, sfuggono al controllo di coloro che li hanno forniti.

Sappiamo bene, dalla storia economica, come ciò sia avvenuto e conosciamo anche i notevoli progressi sul fronte economico che tale assetto istituzionale ha garantito. Ma il fatto è che nell’attuale

passaggio d’epoca, sempre più frequenti sono le voci che si levano ad indicare le difficoltà di far marciare assieme principio democratico e principio capitalistico. Il fenomeno della cosiddetta privatizzazione del pubblico è ciò che soprattutto fa problema: le imprese dell’economia capitalistica vanno assumendo sempre più il controllo del comportamento degli individui – i quali, si badi, trascorrono ben oltre la metà del loro tempo di vita sul luogo di lavoro – sottraendolo allo Stato o ad altre agenzie, prima fra tutte la famiglia. Nozioni come libertà di scelta, tolleranza, eguaglianza di fronte alla legge, partecipazione ed altre simili, coniate e diffuse all’epoca dell’Umanesimo civile e rafforzate poi al tempo dell’Illuminismo, come antidoto al potere assoluto (o quasi) del sovrano, vengono fatte proprie, opportunamente ricalibrate dalle imprese capitalistiche per trasformare gli individui, non più sudditi, in acquirenti di quei beni e servizi che esse stesse producono.

La discrasia cui sopra facevo riferimento sta in ciò che, se si hanno ragioni cogenti per considerare meritoria l’estensione massima possibile del principio democratico, allora occorre cominciare a guardare quel che avviene dentro l’impresa e non solamente quel che avviene nei rapporti tra imprese che interagiscono nel mercato. «Se la democrazia – scrive Dahl (41) – è giustificata nel governo dello Stato, allora essa è pure giustificata nel governo dell’impresa» (p. 57). Mai sarà compiutamente democratica la società nella quale il principio democratico trova concreta applicazione nella sola sfera politica. La buona società in cui vivere non costringe i suoi membri ad imbarazzanti dissociazioni: democratici in quanto cittadini elettori; non democratici in quanto lavoratori o consumatori.

 

  1. Dimensioni costitutive della libertà

La seconda considerazione riguarda l’insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: l’autonomia, l’immunità, la capacitazione. L’autonomia dice della libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L’immunità dice, invece, dell’assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. È, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la “libertà da”) di cui ha parlato I. Berlin. La capacitazione, nel senso di A. Sen, infine, dice della capacità di scelta, di conseguire cioè gli

obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita. Ebbene, mentre l’approccio liberal-liberista vale ad assicurare la prima e la seconda dimensione della libertà a scapito della terza, l’approccio stato-centrico, vuoi nella versione dell’economia mista vuoi in quella del socialismo di mercato, tende a privilegiare la seconda e la terza dimensione a scapito della prima. Il liberismo è bensì capace di far da volano del mutamento, ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, dovute all’elevata asimmetria temporale tra la distribuzione dei costi del mutamento e quella dei benefici. I primi sono immediati e tendono a ricadere sui segmenti più sprovveduti della popolazione; i secondi si verificano in seguito nel tempo e vanno a beneficiare i soggetti con maggiore talento. Come J. Schumpeter fu tra i primi a riconoscere, è il meccanismo della distruzione creatrice il cuore del sistema capitalistico – il quale distrugge “il vecchio” per creare “il nuovo” e crea “il nuovo” per distruggere “il vecchio”– ma anche il suo tallone d’Achille. D’altro canto il socialismo di mercato – nelle sue plurime versioni – se propone lo Stato come soggetto incaricato di far fronte alle asincronie di cui si è detto, non intacca la logica del mercato capitalistico; ma restringe solamente l’area di operatività e di incidenza. Il proprium del paradigma del bene comune, invece, è il tentativo di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale esso appare come una prospettiva quanto meno interessante da esplorare.

L’idea guida del pensiero francescano in ambito socio-economico è quella del bene comune come abbiamo detto. Certo, i modi e le forme che il bene comune può assumere mutano a seconda dei tempi e dei luoghi; ma mai l’etica cattolica potrà essere chiamata a fornire un supporto culturale a modi di produzione o a organizzazioni economiche che nei fatti, a prescindere dalle dichiarazioni verbali, negano la prospettiva del bene comune. Che la categoria di bene comune conosca, oggi, una sorta di risveglio è cosa che ci viene confermata da una pluralità di segni, i quali dicono, in buona sostanza, di un rinnovato interesse a prendere in seria considerazione, almeno come ipotesi di lavoro, la prospettiva dell’economia civile. Non c’è da meravigliarsi di ciò: quando si prende atto della crisi di civilizzazione che oggi incombe, si è quasi sospinti ad abbandonare ogni atteggiamento distopico e ad osare vie nuove di pensiero.

Perché nell’ultimo quarto di secolo la prospettiva di discorso del bene comune, secondo la formulazione ad essa data dalla Dottrina Sociale della Chiesa, dopo almeno un paio di secoli durante i quali essa era di fatto uscita di scena, sta oggi riemergendo al modo di fiume carsico? Perché il passaggio dai mercati nazionali al mercato globale, consumatosi nel corso dell’ultimo quarto di secolo, va rendendo di nuovo attuale il discorso sul bene comune? Osservo, di sfuggita, che quanto accade è parte di un più vasto movimento di idee in economia, un movimento il cui oggetto è il legame tra religiosità e performance economica. Un nuovo capitolo della ricerca economica si è affermato di recente soprattutto in ambiente anglosassone: l’economia delle religioni. A partire dalla considerazione che le credenze religiose sono di importanza decisiva nel forgiare le mappe cognitive dei soggetti e nel plasmare le norme sociali di comportamento, questo nuovo capitolo cerca di indagare quanto la prevalenza in un determinato paese (o territorio) di una certa matrice religiosa influenzi la formazione di categorie di pensiero economico, i programmi di welfare, la politica scolastica e così via (38). Dopo un lungo periodo di tempo, durante il quale la celebre tesi della secolarizzazione pareva avesse detto la parola fine sulla questione religiosa, almeno per quel che concerne il campo economico, quanto sta oggi accadendo suona veramente paradossale.

Torno alla domanda iniziale osservando come, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, la visione civile del mercato e, più in generale, dell’economia scompare sia dalla ricerca scientifica sia dal dibattito politico-culturale. Parecchie e di diversa natura le ragioni di tale arresto. Ci limitiamo ad indicare le due più rilevanti. Per un verso, la diffusione a macchia d’olio, negli ambienti dell’alta cultura europea, della filosofia utilitarista di Jeremy Bentham, la cui opera principale, che è del 1789, impiegherà parecchi decenni prima di entrare, in posizione egemone, nel discorso economico. È con la morale utilitaristica e non già con l’etica protestante – come taluno ritiene ancora – che prende piede dentro la scienza economica l’antropologia iper-minimalista dell’homo oeconomicus e con essa la metodologia dell’atomismo sociale. Notevole per chiarezza e per profondità di significato il seguente passo di Bentham: «La comunità è un corpo fittizio, composto di persone individuali che si considera come se costituissero le sue membra. L’interesse della Comunità è cosa? – la somma degli interessi dei parecchi membri che la compongono » (1789 [1823], I, IV).

  1. La società industriale

Per l’altro verso, l’affermazione piena della società industriale a seguito della rivoluzione industriale. Quella industriale è una società che produce merci. La macchina predomina ovunque e i ritmi della vita sono meccanicamente cadenzati. L’energia sostituisce, in gran parte, la forza muscolare e dà conto degli enormi incrementi di produttività, che a loro volta si accompagnano alla produzione di massa. Energia e macchina trasformano la natura del lavoro: le abilità personali sono scomposte in componenti elementari. Di qui l’esigenza del coordinamento e dell’organizzazione. Si fa avanti così un mondo in cui gli uomini sono visualizzati come “cose”, perché è più facile coordinare “cose” che non uomini, e nel quale la persona è separata dal ruolo che svolge. Le organizzazioni, in primis le imprese, si occupano dei ruoli, non tanto delle persone. E ciò avviene non solamente all’interno della fabbrica, ma nella società intera. È

in ciò il senso profondo del ford-taylorismo come tentativo (riuscito) di teorizzare e di tradurre in pratica questo modello di ordine sociale. L’affermazione della “catena di montaggio” trova il suo correlato nella diffusione del consumismo; donde la schizofrenia tipica dei “tempi moderni”: da un lato, si esaspera la perdita di senso del lavoro (l’alienazione dovuta alla spersonalizzazione della figura del lavoratore); dall’altro lato, a mo’ di compensazione, si rende il consumo opulento. Il pensiero marxista e le sue articolazioni politiche nel corso del Novecento si adopereranno, con alterni ma modesti successi, per offrire vie d’uscita ad un tale modello di società.

Dal complesso intrecciarsi e scontrarsi di questi due insiemi di ragioni è derivata una conseguenza importante ai fini del nostro discorso: l’affermazione, tuttora presente nelle nostre società, di due opposte concezioni del mercato. L’una è quella che lo vede come un “male necessario”, cioè come un’istituzione di cui non si può fare a meno, perché garanzia di progresso economico, ma pur sempre un “male” da cui guardarsi e pertanto da tenere sotto controllo. L’altra è quella che considera il mercato come luogo idealtipico per risolvere il problema politico, proprio come sostiene la posizione liberalindividualistica, secondo cui la “logica” del mercato deve potersi estendere, sia pure con gli adattamenti del caso, a tutti gli ambiti della vita associata – dalla famiglia, alla scuola, alla politica, alle stesse pratiche religiose.

Non è difficile cogliere gli elementi di debolezza di queste due concezioni tra loro speculari. La prima – stupendamente resa dall’aforisma: «Lo Stato non deve remare, ma stare al timone» – si appoggia sull’argomento della lotta alle ineguaglianze: solo interventi dello Stato in chiave redistributiva possono ridurre la forbice fra individui e fra gruppi sociali. Le cose però non stanno in questi termini. Le disuguaglianze nei paesi avanzati dell’Occidente, che erano diminuite dal 1945 in poi, sono tornate scandalosamente a crescere negli ultimi vent’anni e ciò nonostante i massicci interventi dello Stato in economia (in Italia, ad esempio, lo Stato intermedia circa il 50% della ricchezza prodotta nel Paese). Conosciamo certamente le ragioni per le quali ciò avviene, ragioni che hanno a che vedere con la transizione alla società post-industriale. Si pensi a fenomeni quali l’ingresso nei processi produttivi delle nuove tecnologie infotelematiche e la creazione di mercati del lavoro e del capitale globale; ma il punto è capire perché la ridistribuzione in chiave perequatrice non può essere un compito esclusivo dello Stato. Il fatto è che la stabilità politica è un obiettivo che, stante l’attuale modello di democrazia – quello elitistico-competitivo di Max Weber e di Joseph Schumpeter –, non si raggiunge con misure di riduzione delle ineguaglianze, ma con la crescita economica. La durata e la reputazione dei governi democratici sono assai più determinate dalla loro capacità di accrescere il livello della ricchezza che non dalla loro abilità di ridistribuirla equamente tra i cittadini. E ciò per la semplice, seppure triste, ragione che i “poveri” non partecipano al gioco democratico, e dunque non costituiscono una classe di stakeholders capace di impensierire la ragion politica. Se dunque si vuole contrastare l’aumento endemico delle disuguaglianze, perché foriero di pericoli seri sul fronte sia della pace sia della democrazia, occorre intervenire prima di tutto sul momento della produzione della ricchezza e non solo su quello della sua ridistribuzione. Cosa c’è che non regge nell’altra concezione del mercato, oggi efficacemente veicolata dal pensiero unico della one best way? Che non è vero che la massima estensione possibile della logica del mercato (acivile) accresce il benessere per tutti. Non è vera, cioè, la metafora secondo cui “una marea che sale solleva tutte le barche”. Il ragionamento che sorregge la metafora è basicamente il seguente: poiché il benessere dei cittadini dipende dalla prosperità economica e poiché questa è causalmente associata alle relazioni di mercato, la vera priorità dell’azione politica deve essere quella di assicurare le condizioni per la fioritura massima possibile della cultura del mercato. Il welfare state, dunque, quanto più è generoso tanto più agisce come vincolo alla crescita economica e quindi è contrario alla diffusione del benessere. Donde la raccomandazione di un welfare selettivista che si occupi solamente di coloro che la gara di mercato lascia ai margini. Gli altri, quelli che riescono a rimanere entro il circuito virtuoso della crescita, provvederanno da sé alla propria tutela. Ebbene, è la semplice osservazione dei fatti a svelarci l’aporia che sta alla base di tale linea di pensiero: crescita economica (cioè aumenti sostenuti di ricchezza) e progresso civile (cioè allargamento degli spazi di libertà delle persone) non marciano più insieme. Come dire che all’aumento del benessere materiale (welfare) non si accompagna più un aumento della felicità (well-being): ridurre la capacità di inclusione di chi, per una ragione o l’altra, resta ai margini del mercato, mentre non aggiunge nulla a chi vi è già inserito, produce un razionamento della libertà, che è sempre deleterio per la “pubblica felicità”.

  1. Quale idea di “mercato”?

Queste due concezioni del mercato, tra loro diversissime quanto a presupposti filosofici e a conseguenze politiche, hanno finito col generare, a livello in primo luogo culturale, un risultato forse inatteso: l’affermazione di un’idea di mercato antitetica a quella della tradizione di pensiero dell’economia civile. Un’idea, cioè, che vede il mercato come istituzione fondata su una duplice norma: l’impersonalità delle relazioni di scambio (tanto meno conosco la mia controparte tanto maggiore sarà il mio vantaggio, perché gli affari riescono meglio con gli sconosciuti!); la motivazione esclusivamente auto-interessata di coloro che vi partecipano, con il che “sentimenti morali” quali la simpatia, la reciprocità, la fraternità ecc., non giocano alcun ruolo significativo nell’arena del mercato. È così accaduto che la progressiva e maestosa espansione delle relazioni di mercato nel corso dell’ultimo secolo e mezzo ha finito con il rafforzare quell’interpretazione pessimistica del carattere degli esseri umani che già era stata teorizzata da Hobbes e da Mandeville, secondo i quali solo le dure leggi del mercato riuscirebbero a domarne gli impulsi perversi e le pulsioni di tipo anarchico. La visione caricaturale della natura umana che così si è imposta ha contribuito ad accreditare un duplice errore: che la sfera del mercato coincide con quella dell’egoismo, con il luogo in cui ognuno persegue, al meglio, i propri interessi individuali e, simmetricamente, che la sfera dello Stato coincide con quella della solidarietà, del perseguimento cioè degli interessi collettivi. È su tale fondamento che è stato eretto il ben noto modello dicotomico Stato-mercato: un modello in forza del quale lo Stato viene identificato con la sfera del pubblico e il mercato con la sfera del privato.

Di una conseguenza importante dell’uscita di scena della prospettiva dell’economia civile, conviene qui fare rapido cenno. Tale uscita ha costretto quelle organizzazioni della società civile oggi note come non profit o terzo settore, a definire la propria identità in negativo rispetto ai termini di quella dicotomia: come “non Stato” oppure come “non mercato”, a seconda dei contesti. Non vi è chi non veda come questa concettualizzazione lasci insoddisfatti. Non solamente perché da essa discende che il terzo settore può tutt’al più aspirare ad un ruolo residuale e di nicchia, ma anche perché tale ruolo sarebbe comunque transitorio. Come è stato affermato, quelle non profit sarebbero organizzazioni transitorie che nascono per soddisfare nuovi bisogni non ancora raggiunti dal mercato capitalistico, destinate, col tempo, a scomparire oppure a trasformarsi nella forma capitalistica di impresa. Su cosa poggia una “certezza” del genere? Sulla acritica accettazione del presupposto secondo cui la forma naturale di fare impresa è quella capitalistica e dunque che ogni altra forma di impresa deve la propria ragione di esistere o a un “fallimento del mercato” oppure a un “fallimento dello Stato”. Quanto a dire che se si potessero rimuovere le cause generatrici di quei fallimenti (le asimmetrie informative; le esternalità; l’incompletezza dei contratti; i mal funzionamenti della burocrazia e così via) si potrebbe tranquillamente fare a meno delle organizzazioni della società civile. In definitiva, una volta supinamente accolto il principio della naturalità dell’individualismo ontologico, e in particolare dell’homo oeconomicus, si ha che l’unico banco di prova per il soggetto non profit è quello dell’efficienza: solamente se dimostra di essere più efficiente dell’impresa privata e/o dell’impresa pubblica esso ha titolo per meritare rispetto. (Si badi che quella di efficienza non è, in economia, una nozione  assiologicamente neutrale: solo dopo che si è dichiarato il fine dell’azione economica si può definire l’efficienza).

 

  1. Bene comune: cifra dell’etica cattolica

Non è difficile a questo punto spiegarsi il ritorno nel dibattito culturale contemporaneo della prospettiva del bene comune, vera e propria cifra dell’etica cattolica in ambito socio-economico. Come Giovanni Paolo II in parecchie occasioni ha chiarito, la Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) non va considerata una teoria etica ulteriore rispetto alle tante già disponibili in letteratura, ma una “grammatica comune” a queste, perché fondata su uno specifico punto di vista, quello del prendersi cura del bene umano. Invero, mentre le diverse teorie etiche pongono il loro fondamento vuoi nella ricerca di regole (come succede nel giusnaturalismo positivistico, secondo cui l’etica viene derivata dalla norma giuridica), vuoi nell’agire (si pensi al neo-contrattualismo rawlsiano o al neo- utilitarismo di John Harsanyi), la DSC accoglie come suo punto archimedeo lo “stare con”. Il senso dell’etica del bene comune è che per poter comprendere l’azione umana occorre porsi nella prospettiva della persona che agisce – cf Veritatis Splendor, 78 – e non nella prospettiva della terza persona (come fa il giusnaturalismo) ovvero dello spettatore imparziale (come Adam Smith aveva suggerito). Infatti il bene morale, essendo una realtà pratica, la conosce primariamente non chi lo teorizza, ma chi lo pratica: è lui che sa individuarlo e quindi sceglierlo con certezza ogniqualvolta è in discussione. Nella Bolla d’indizione dell’Anno Santo 2000, Incarnationis Mysterium, si legge: «Una delle finalità del Giubileo è di contribuire a creare un modello di economia a servizio di ogni persona» (n. 12, corsivo aggiunto). Questo brano va enfatizzato. Non era mai accaduto, nella lunga storia dei giubilei, che un Pontefice ponesse come finalità – e non già come conseguenza più o meno accidentale – di un giubileo un compito del genere. E in modo ancora più esplicito, nel messaggio per il 1° gennaio 2000, dal titolo Pace in terra agli uomini che Dio ama, si legge: «In questa prospettiva è doveroso interrogarsi anche su quel crescente disagio che, al giorno d’oggi, (…) molti studiosi e operatori economici avvertono quando riflettono sul ruolo del mercato, sulla pervasiva dimensione monetariafinanziaria, sulla divaricazione tra l’economico e il sociale. È forse giunto il momento di una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini. (…) Vorrei qui invitare i cultori della scienza economica e gli stessi operatori del settore, come pure i responsabili politici, a prendere atto dell’urgenza che la prassi economica e le politiche corrispondenti mirino al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo» (nn. 15 e 16, corsivo aggiunto). La novità, per certi aspetti sorprendente, è nell’invito ad affrontare il problema di cui qui si tratta a livello dei suoi fondamenti teorici, o meglio del suo presupposto culturale. Dinnanzi allo squallore capitalistico della tendenziale riduzione dei rapporti umani allo scambio di prodotti equivalenti, lo spirito dell’uomo contemporaneo insorge e domanda un’altra storia. La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità, parola già presente nella bandiera della Rivoluzione Francese, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato – per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. È stata la scuola di pensiero francescana – come si è ricordato – a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi. Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è necessariamente vero. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.

  1. La responsabilità sociale

Che il concetto di responsabilità trovi, oggi, non poche difficoltà ad essere accolto, prima ancora che essere applicato, è tutto sommato comprensibile. Per un verso, la globalizzazione va aumentando, in misura mai conosciuta in precedenza, la distanza tra azione e conseguenze ultime della stessa. Si pensi all’impatto dei processi di fusione e incorporazione sul fenomeno del “corto-termismo”: le imprese che temono le scalate tendono a prestare scarsa attenzione a tutto ciò che non è quantitativamente misurabile a breve termine – ivi inclusa la responsabilità sociale. Per l’altro verso, le nuove tecnologie che connotano di sé la terza rivoluzione industriale tendono ad affievolire il senso di responsabilità e ciò nella misura in cui aumentano le conseguenze non prevedibili delle azioni. La nozione di responsabilità rinvia sempre a quella di affidabilità, di ponderazione. Responsabile è chi sa venire a capo delle situazioni valutandone adeguatamente i rischi e gli esiti. Ma l’attuale mutamento tecnologico sempre più rende questo esercizio difficoltoso, se non impossibile. Come ha scritto Z. Baumann: «Oggi, l’organizzazione nel suo complesso è uno strumento per la cancellazione delle responsabilità» (Modernità e Olocausto, Il Mulino, 1992, p. 225). Non deve perciò sorprendere se ancora tante sono le resistenze e le titubanze, anche culturali, nei confronti della responsabilità declinata in ambito sia economico sia politico. Certo, può fare specie, in questa epoca, parlare di comportamenti virtuosi da parte sia delle imprese sia dei cittadini consumatori. Quando, in conseguenza dell’attuale profonda crisi, l’opinione pubblica vede la logica di mercato come corruttrice delle virtù civili e il mercato come luogo di mercantilizzazione di tutte le relazioni umane, proporre al mondo degli affari l’etica delle virtù potrebbe apparire ingenuo o utopistico. Ma è proprio questa situazione ad indurci a riaprire il dibattito circa la natura dell’impresa, del mercato, del capitalismo e del suo futuro. Il fatto è che impresa e mercato diventano fattori di civilizzazione quando e se sono intesi come espressione di virtù civili. E parlare di virtù civili significa riconoscere che ciò che è tipico del mercato e dell’impresa è la dimensione della reciprocità, dal momento che le virtù in ambito economico sono sociali nella loro essenza. È bensì vero che vi sono virtù individuali rilevanti (prudenza; creatività; intraprendenza; ecc.), ma la grande regola aurea del mercato è la reciprocità, perché i contratti, gli scambi, le imprese sono, basicamente, una questione di cooperazione, di vantaggio comune. Ecco perché l’assetto istituzionale dell’economia – vale a dire la definizione dell’insieme delle regole del gioco economico – costituisce oggi l’oggetto primario del discorso sulla responsabilità. Come efficacemente suggerisce il titolo del bel libro di Lynn Stout (Cultivating conscience: how good laws make good people, Princeton Univ. Press, Princeton  2011) è possibile coltivare la coscienza intervenendo sul modo in cui si disegnano le regole del gioco, perché le «buone leggi, fanno buone le persone» e anche le imprese. Impegnarsi oggi per ricostruire la città è compito ineludibile per tutti gli uomini di buona volontà; ma lo è soprattutto per il cristiano, il quale sa che la sua salvezza si decide nella storia, nelle situazioni di vita in cui è chiamato ad operare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Temi