N.04
Luglio/Agosto 2024

Andata e ritorno

Vocazione e lavoro

 

 

 

 

1. Alla sequela di Cristo

La preoccupazione per il lavoro è una costante nel magistero sociale di papa Francesco. Il tema è presente in tutti i suoi documenti, a conferma di quanto lo senta nelle sue corde e lo percepisca come questione centrale del nostro tempo.

Una riflessione compiuta sul rapporto tra lavoro e vocazione si legge nell’esortazione apostolica Christus vivit(2019). Il Sinodo dei giovani aveva definito con chiarezza che il senso della vita si manifesta nell’«essere per gli altri», e ciò si realizza in due ambiti fondamentali: la famiglia e il lavoro. Ai due temi il documento dedica buona parte del capitolo ottavo, incentrato sulla vocazione. Ma già al n. 28 veniva ricordato come Gesù fosse riconosciuto da tutti per il suo mestiere. Ha imparato un lavoro da Giuseppe e lo ha aiutato come falegname. Se in Mt 13,55 viene chiamato «il figlio del falegname», in Mc 6,3 è definito semplicemente come «il falegname». La parola greca téktōn è usata per artigiani e lavoratori del legno, ma si può anche riferire a scalpellini, carpentieri, costruttori e perfino a coloro che eccellono nel loro mestiere e sono in grado di insegnarlo agli altri. Quindi, Gesù è riconosciuto per il suo mestiere ed è considerato un giovane come tutti gli altri, un talentuoso artigiano alle prese con il legno e i metalli. È uno che sa il fatto suo nella bottega artigianale e con ogni probabilità questa è la vocazione che gli viene riconosciuta. Ha le mani in pasta con la creazione, tanto da saper usare bene gli attrezzi del mestiere e lavorare con creatività, come accade in qualunque attività artigianale. Definire Gesù come il falegname significa riconoscergli una competenza sulla materia: l’incarnazione del Figlio di Dio sta anche nel vivere una vocazione lavorativa.

L’esperienza di Gesù fa comprendere che il lavoro definisce la traiettoria dell’esistenza. Per questo, la preoccupazione odierna del pensiero sociale della Chiesa nei confronti del mondo giovanile è ampiamente giustificata. Il precariato e il «vagabondaggio professionale» con contratti trimestrali o semestrali potranno accrescere il numero di esperienze accumulate, ma non favoriscono la valorizzazione delle competenze e la maturazione dell’identità. Se a questo si aggiunge il fattore comunitario, il disastro è annunciato. Infatti, non si lavora mai da soli, ma all’interno di relazioni che fanno crescere amicizie e contribuiscono a esercitare una cittadinanza. Insomma, attraverso il lavoro, un giovane comprende il proprio posto nella società. Con una rilettura di fede, impara a discernere la chiamata del Signore a seguirlo in una modalità unica e irripetibile. La personalizzazione del lavoro è una caratteristica specifica della dimensione vocazionale. Sia chiaro: due persone che fanno la stessa professione, in realtà non lavorano mai allo stesso modo. La manualità distingue come una sorta di stampo personale. L’affermazione astratta che ognuno è unico e irripetibile agli occhi di Dio trova concretezza nel volto, nel cuore e nelle mani. L’interiorità, l’intelligenza della vita, la capacità di amare e la manualità sono i tratti distintivi di ogni esistenza umana. Trascurare il valore del lavoro significa intaccare la dignità personale di ciascuno.

In negativo, il documento del Dicastero per la dottrina della fede, Dignitas infinita ricorda che «la povertà si diffonde in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà. Tra questi effetti distruttori dell’Impero del denaro, si deve riconoscere che non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro» (DI 37). Le diverse forme di sfruttamento, di precariato infinito, di disoccupazione protratta, di insicurezza o di incertezza non screditano solo il valore del lavoro, ma deprimono la persona, che si sente strumentalizzata e usata per scopi esclusivi di profitto. La vocazione è ignorata, con conseguenze drammatiche sia sulla persona sia sulla comunità. Non si deve dimenticare, infatti, che «il lavoro per un giovane non è semplicemente un’attività finalizzata a produrre un reddito. È un’espressione della dignità umana, è un cammino di maturazione e di inserimento sociale, è uno stimolo costante a crescere in termini di responsabilità e di creatività, è una protezione contro la tendenza all’individualismo e alla comodità, ed è anche dar gloria a Dio attraverso lo sviluppo delle proprie capacità» (ChV 271). Per questo, un giovane, pur tra le difficoltà del contesto odierno, non deve mai rinunciare ai suoi sogni, non può accettare di darsi per vinto e seppellire il desiderio che lo muove interiormente anche nell’ambito professionale. Papa Francesco si rivolge così a ciascuno: «Continua sempre a cercare, come minimo, modalità parziali o imperfette di vivere ciò che nel tuo discernimento riconosci come un’autentica vocazione» (ChV 272). E aggiunge: «Quando uno scopre che Dio lo chiama a qualcosa, che è fatto per questo – può essere l’infermieristica, la falegnameria, la comunicazione, l’ingegneria, l’insegnamento, l’arte o qualsiasi altro lavoro – allora sarà capace di far sbocciare le sue migliori capacità di sacrificio, generosità e dedizione. Sapere che non si fanno le cose tanto per farle, ma con un significato, come risposta a una chiamata che risuona nel più profondo del proprio essere per dare qualcosa agli altri, fa sì che queste attività offrano al proprio cuore un’esperienza speciale di pienezza» (ChV 273).

 

2. Lavoro e sradicamento

A Simone Weil dobbiamo una riflessione approfondita sul lavoro in un’ottica vocazionale, a partire dalla sua esperienza concreta. Nel libro La prima radice analizza il fenomeno dello sradicamento della condizione operaia e contadina. Il problema, infatti, è quando l’operaio viene trattato come «carne da lavoro» [1] oppure, nel caso del disoccupato, la persona non si sente a casa né in fabbrica né nella società. La malattia sociale dello sradicamento è pericolosa perché ha conseguenze sulle singole esistenze e sulla comunità civile. Le persone sradicate hanno due possibilità: rassegnarsi nell’inerzia dell’anima come se stesse morendo, oppure gettarsi in azioni che a loro volta sradicano.x L’unica chance è costruire, invece, una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro: al centro non ci dev’essere la costrizione, ma lo sguardo verso il futuro. La filosofa si serve dell’immagine di due donne che stanno cucendo un corredino, ma in contesti radicalmente differenti. L’una è detenuta ed è costretta a farlo per paura di una punizione, mentre l’altra è incinta e pensa al figlio in arrivo. Ogni lavoro ha bisogno di passare attraverso questa trasformazione. «Le cose sarebbero diverse se l’operaio sapesse chiaramente, ogni giorno, ogni istante, quale luogo occupa, nella produzione della fabbrica, quel che sta facendo e quale posto occupa nella vita sociale la fabbrica nella quale lavora»[2].

Il lavoro fisico è assimilabile alla morte: «Lavorare è immettere il proprio essere, anima e carne, nel circuito della materia inerte, farne l’intermediario tra uno stato e un altro di un frammento di materia, farne uno strumento. Il lavoratore fa del suo corpo e della sua anima un’appendice dell’utensile che maneggia»[3]. La morte e il lavoro non sono una scelta, ma una necessità. «L’universo si dà all’uomo nel nutrimento e nel calore solo se l’uomo si dà all’universo nel lavoro»[4]. La differenza sta tra la scelta di subire il lavoro o di accettarlo. In tal senso, il lavoro diventa il più perfetto atto di obbedienza che l’uomo possa compiere, perché necessario per la sopravvivenza; la sua accettazione è segno del primato della spiritualità. In L’ombra e la grazia Simone Weil riprende il tema della spiritualità del lavoro proprio nella relazione con il nutrimento: «Lavorare per mangiare, mangiare per lavorare… Se si guarda una di queste due cose come un fine, o l’una o l’altra prese separatamente, si è perduti. Il ciclo contiene la verità»[5]. Il rischio è rimanere imprigionato nell’estrema miseria, oppure pensare all’estrema grandezza. Il lavoro manuale ha un aspetto di penosità legato allo sforzo per esistere, che può degradare fino alla schiavitù. Lo schiavo, infatti, non ottiene nulla dalle sue fatiche, il suo sforzo è senza finalità. Solo la bellezza può dare una ragione più profonda, per cui «i lavoratori hanno bisogno di poesia più che di pane. Bisogna che la vita loro sia poesia. Bisogno d’una luce di eternità»[6]. La schiavitù è il lavoro senza poesia e senza luce di eternità, racchiusa dentro alla sola costrizione e al guadagno. Tuttavia, occorre anche riconoscere che non vi è lavoro senza fatica, in una obbedienza alla materia che porta a considerarlo come una morte.

Anche Hannah Arendt in Vita activa sottolinea la tendenza presente in tutte le teorie del lavoro contemporanee ad abbassare l’attività umana al livello di «guadagnarsi la vita», opponendo il lavoro al gioco. In questa logica si è costruita una società di lavoratori resi consumatori. Unica eccezione è l’artista. La richiesta di diminuire le ore di lavoro per garantire alle persone il tempo libero ha finito per liberare tempo speso per il consumo. Il pericolo è di favorire una società che non riesce più a riconoscere la gratuità o la futilità «di una vita che non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata» [7]. L’homo faber è schiacciato sulla dimensione dell’utile e riduce tutto a merce. Solo l’opera d’arte invoca un riferimento alle facoltà superiori.

Racchiudere il lavoro all’interno di logiche materialistiche significa trascurarne la dimensione vocazionale. È possibile superare lo sradicamento del lavoro a patto che se ne percepisca il valore di senso per l’umano. Si lavora per vivere, ma è altrettanto vero che si vive davvero se non si rinuncia a lavorare.

 

3. Vocazione fa rima con formazione

Il mondo cattolico non può accontentarsi di una visione meramente tecnocratica del lavoro, quasi che le persone siano pedine da spostare da una parte all’altra secondo le fredde esigenze del mercato. Il rapporto tra l’uomo e il lavoro tocca la dignità delle persone e lo sguardo sul futuro. «Il lavoro definisce e influenza l’identità e il concetto di sé di un giovane adulto ed è un luogo fondamentale dove si sviluppano le amicizie e altre relazioni, perché di solito non si lavora da soli» (ChV 268). Sulla stessa lunghezza d’onda è l’enciclica Fratelli tutti, per la quale occorre «assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (FT 162). Quindi lo spreco di cui parliamo non è solo economico e produttivo, ma prima ancora esistenziale e vocazionale. Per questo, è ancora più insostenibile: le ferite che i giovani sperimentano nella lunga precarietà, nella mancanza di sbocchi lavorativi, nel sentirsi messi in un angolo… si approfondiscono e possono lasciare un segno profondo nell’anima. Si sa: la sofferenza circa le prospettive di futuro influisce anche sul desiderio di maternità o di paternità, sulla possibilità di decidere di costruirsi una famiglia, sulle relazioni sociali, sull’impegno nel dare realizzazione ai propri sogni. Davvero tutto è connesso, e dobbiamo crescere nella consapevolezza che gli anni della formazione sono delicati. Possiamo far crescere eterni Peter Pan oppure far spiccare il volo nella vita con la consapevolezza di sé per migliorare il mondo. Sempre papa Francesco ricorda che «ogni formazione è vocazionale» (ChV 254). Trascurare la dimensione vocazionale della formazione sarebbe come trovarsi alla griglia di partenza in una gara automobilistica con le ruote sgonfie e il serbatoio vuoto.

Un tema da sviluppare è sicuramente quello del benessere nei luoghi di lavoro: una persona si impegna se trova nel lavoro qualcosa di appassionante, che gli offre un significato esistenziale, un riconoscimento valoriale. Si chiama vocazione e coincide con il principio di identificazione del sé. L’orientamento nella realizzazione vocazionale è sfida affascinante nella vita di un giovane: se vi sono un buon discernimento e un buon accompagnamento, egli può leggere nell’animo l’attrazione particolare verso un lavoro o un’attività. Inseguire la propria vocazione, non può diventare un privilegio o un’eccezione, ma deve diventare l’ordinario nei percorsi educativi se non si vuole far finire i giovani su una panchina esistenziale. Ciò interpella il mondo adulto, a partire dagli educatori.

Il miracolo sta nel risvegliare il desiderio di appassionarsi a una professione che possa diventare la ragione profonda del riscatto umano e sociale. È il tentativo di portare al centro periferie esistenziali che rischierebbero sempre di giocare la partita della loro vita in campionati minori. La formazione diventa discriminante per far fiorire le esistenze appassite e rassegnate in esistenze che spiccano il volo.

Il tema della formazione si innesta in questo quadro e va annoverato nel capitolo «diritto al futuro». Diventa sempre più importante una visione integrale della formazione, che sappia dare spazio alla dimensione umanistica e che, nello stesso tempo, non trascuri le nuove tecnologie e il digitale. Se è vero che, già oggi, il 33% delle professionalità tecniche risulta introvabile, il mancato investimento nella formazione professionale è un imperdonabile autogol. Significa spianare la strada alla disoccupazione. Con buone ragioni, l’ex sindacalista Marco Bentivogli ritiene anacronistico il mantenimento del valore legale del titolo di studio: «Avrebbe più senso una certificazione delle competenze aggiornata lungo tutta la vita lavorativa». L’orizzonte diventa quello della formazione continua con un sistema in grado di valorizzare le competenze acquisite (una sorta di «passaporto delle competenze»). La transizione digitale richiede sempre più la capacità di lavorare in team multidisciplinari di pianificazione e di realizzazione delle iniziative, oltre all’abilità di gestire il cambiamento. Il lavoro che attende la società futura chiede di risolvere problemi complessi, di decidersi, di formarsi un pensiero critico, di giocarsi con fantasia e creatività, di coordinarsi, di adattarsi…

Per questo, risulta fondamentale custodire i due livelli della formazione: quello personale e quello sociale.

La formazione della coscienza risponde alle motivazioni di fondo, alla capacità di discernimento e alla possibilità di decidersi per il bene concretamente possibile. Ciò avviene attraverso le connessioni tra le conoscenze e le affezioni: il lavoro non è mai qualcosa di intellettuale e freddo, ma implica un forte coinvolgimento motivazionale. Del resto, nessuno investe gran parte del suo tempo in qualcosa che non lo appassiona. E nessuno intende essere ricordato tra quelli incapaci di portare anche un piccolo contributo per migliorare il mondo.

Il secondo livello rimanda alle relazioni come punto nevralgico del vivere sociale. La formazione alla mentalità cooperativa, alla solidarietà, alla condivisione, al lavorare in equipe, all’esercizio del discernimento comunitario, alla capacità di valorizzare gli altri, alla competizione nel bene che non schiaccia, alla cittadinanza partecipativa attraverso il lavoro… avvengono nelle dinamiche relazionali ordinarie. Un di più potrebbe venire da esperienze di volontariato e di servizio per gli altri. I luoghi di lavoro migliorano nella loro qualità relazionale se c’è qualcuno che tesse reti e cuce i rapporti grazie al filo dei talenti di ciascuno.

 

4. Lavoro e preghiera

Lo stretto legame tra lavoro e preghiera rafforza ancora di più il senso vocazionale. Di primo acchito appare una ovvietà. Tutti, infatti, attraverso il lavoro contribuiscono a prendersi cura del mondo e la preghiera è il respiro dell’anima per ogni credente. Perciò non deve meravigliare il fatto che un lavoratore credente preghi e veda nella sua attività molto di più che un mezzo di sostentamento.

Il problema è un altro: come pregare? La preghiera va vissuta fuori dai luoghi di lavoro (in parrocchia, in famiglia…) oppure può essere di casa proprio in quegli ambienti? In chi vive la professione in modo «libero, creativo, partecipativo e solidale» (EG 192), sgorga spontanea la gratitudine per un lavoro che fa sentire realizzati. Al contrario, se è esperienza fallimentare di sfruttamento e di degrado umano, il mestiere appare come una maledizione e la preghiera diventa difficile. La qualità delle relazioni fa la differenza. Impatta sulla vocazione. La preghiera stessa del lavoratore subisce l’influsso dell’ambiente in cui trascorre una buona parte della vita.

Pregare è affidarsi a Dio. Chiede il coraggio di domandare la speranza nel quotidiano. E il lavoro è fatica, oltre che cura del mondo. La spiritualità del lavoro è direttamente connessa con il mistero pasquale di croce e risurrezione, di passione e rinascita. Il sudore e la fatica, tipici di qualsiasi attività professionale, consentono «di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere» (Laborem exercens, 27) e collocano il lavoratore nel disegno della redenzione realizzata da Cristo. Il lavoro è esercizio di discepolato, per cui non può trascurare la dimensione della preghiera che si affida, alla maniera di Cristo nel Getsemani. Si badi bene, non è la fatica fine a sé stessa, che rimane sterile, ma è la fatica assunta per amore a diventare un allenamento alla preghiera. Ecco gli esercizi spirituali quotidiani a cui un lavoratore è tenuto. L’attività quotidiana può renderci sempre più umani se è alimentata dalla relazione con Cristo Risorto. La preghiera aiuta a non soccombere nella fatica e negli affanni. Gesù ha invitato a vegliare pregando in ogni momento, mettendo in guardia da cuori pesanti e affannosi: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita» (Lc 21,34). Così il popolo d’Israele si è rivolto a Dio perché lo liberasse dalla schiavitù d’Egitto (Es 3,7), che tra l’altro comportava l’assoggettamento a lavori servili e a ritmi impossibili. La preghiera del popolo è stata esaudita attraverso la disponibilità di Mosè a mettersi in gioco in prima persona. Vocazione della comunità cristiana non è forse ancora oggi quella di mettersi in ascolto del grido dei lavoratori che lamentano insicurezza, precariato, sfruttamento, caporalato, illegalità, ingiustizia? Queste richieste non possono essere interpretate come una preghiera che sale incessante a Dio giorno e notte perché li liberi da attività disumanizzanti? Non sono anche questi i «gemiti inesprimibili» (Rm 8,26) con cui lo Spirito intercede? Guai a noi se spiritualizzassimo la preghiera separandola dalla vita concreta delle persone! I lavoratori non accettano una Chiesa lontana, fredda, abile nelle sentenze ma incapace di ascolto. Hanno una acuta sensibilità al riguardo… Non è questo il senso del Cammino sinodale della Chiesa e del Giubileo che è alle porte? Non siamo forse chiamati ad essere «pellegrini di speranza» per camminare fianco a fianco e non sopra le teste?

La liturgia eucaristica fa cenno al lavoro durante la presentazione dei doni. Chi presiede alza il pane e il vino, frutti della terra e «del lavoro dell’uomo», invocando la trasformazione in cibo e bevanda di salvezza. Nell’eucaristia avviene il miracolo che il lavoro in qualche modo opera nel quotidiano: trasformare la materia. La preghiera rivolta a Dio necessita di presentare doni che provengono dalla creazione e dall’attività umana. Non esistono in natura il pane e il vino, ma grano e uva. La cultura e l’ingegno umano sanno convertire quei beni in cibo e bevanda da condividere. Perciò, nella liturgia, troviamo presenti le diverse forme di preghiera che esprimono trasformazioni: la richiesta di perdono, il ringraziamento, la lode, l’intercessione, la domanda di aiuto. Trovano senso nel profondo legame con la vita. Chiamata al lavoro e chiamata al rendimento di grazie sono in stretta correlazione. Arrivano a coincidere sull’altare.

Il lavoratore che prega indossa lo sguardo contemplativo sulla realtà. Don Luisito Bianchi, prete operaio e scrittore, se ne è fatto interprete con queste parole: «Ecco, Signore, la mia cattedrale (…). Il vapore delle tine è il mio incenso per il sacrificio, la lampada che immetto nel loro ventre luce al mio cammino e lucerna d’olio saturata, gli agitatori e le pompe mai stanchi la voce del diuturno lavoro del Padre». Splendida metafora: il luogo di lavoro è una cattedrale dove si consuma la liturgia della vita. Le energie dei lavoratori abbelliscono il mondo. Però, la cattedrale può anche essere dissacrata nel sangue dell’oppresso o nell’indifferenza verso l’altro. Unire lavoro e preghiera è un modo per vegliare nella storia.

 

5. Un impegno pastorale di andata e ritorno

Le riflessioni condivise sinora portano a suggerire alcune piste di impegno pastorale. La vita ecclesiale, nel suo andamento ordinario, vive della vocazione come qualcosa di costitutivo. Mettere a tema il suo rapporto con il lavoro non fa che arricchire uno sguardo e una prospettiva. Si delineano due direzioni.

  1. Dalla vocazione al lavoro. Il discernimento favorito dalla pastorale ha l’obiettivo di far incontrare ciascuno con la persona del Risorto. Quando ciò accade, il presente assume la forma della chiamata e il futuro si tinge di sequela. La vita cristiana è tutta qui, in un incontro che genera conversione e mette in circuito la vita. Il lavoro diviene così uno degli aspetti concreti con cui la persona risponde alla chiamata di Cristo. Non coincide con un mestiere o una professione, ma con il proprio modo di stare nel mondo, rispondendo con generosità e fiducia a una chiamata. La pastorale ha bisogno di un orizzonte allargato. Non basta sottolineare la chiamata all’esistenza o le differenti vocazioni con cui si specifica la chiamata alla fede (prete, monaco, missionario, religioso/a…), occorre accompagnare le persone a un discernimento più opportuno all’interno dell’attività lavorativa. La pastorale ne guadagnerebbe in concretezza e in incarnazione. Troppo spesso le persone lamentano una distanza della comunità cristiana dai luoghi della vita, soprattutto in termini di condivisione. Se il lavoro è vocazione, anch’esso richiede forme di discernimento e di accompagnamento. La formazione del clero, ad esempio, come può attrezzarsi per rispondere a questa esigenza?
  2. Dal lavoro alla vocazione. Si sa che nella vita le cose non procedono mai in modo lineare. Spesso è l’esperienza a far scoprire la propria vocazione. Perciò, attraverso l’attività quotidiana e l’esercizio della creatività, ognuno riesce a discernere quale progetto concreto Dio gli rivela. Così si scopre una vocazione. Anche in questo caso, occorre prevedere forme di accompagnamento pastorale che sappiano comprendere il magistero delle consolazioni o desolazioni interiori sia nell’esperienza lavorativa sia nella comunità di lavoro. Talvolta, infatti, la persona può incontrare problemi all’interno di un luogo di lavoro per la scarsa qualità relazionale, ma ciò non significa che quello non sia la sua vocazione. Esercizi di discernimento portano a leggersi dentro, a conoscersi e a scoprire doni inaspettati. La vocazione passa da qui. Occorre una competenza della comunità cristiana nell’accompagnamento. Il caso evangelico di Zaccheo risulta significativo al riguardo (Lc 19,1-10). Gesù non gli chiede di cambiare mestiere, ma gli fa capire che lo può vivere nell’ottica della condivisione e della responsabilità. Non stravolgimenti, ma coinvolgimenti.

Dunque, non c’è vocazione che non comporti uno sbocco lavorativo e non c’è lavoro che non riveli una bellezza vocazionale. Vocazione e lavoro si richiamano sempre. Camminano l’una verso l’altro. Un percorso in andata e ritorno.

 

 

 

[1] S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri dell’uomo, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2017, 52.

[2] S. Weil, La condizione operaia, SE, Milano 1994, 273.

[3] S. Weil, La prima radice, 316.

[4] Id., 316.

[5] S. Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Firenze-Milano 2018, 319.

[6] Id., L’ombra e la grazia, 321.

[7] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 20008, 96.