N.01
Gennaio/Febbraio 2011
Studi /

Lettura del fenomeno dell’emergenza educativa

1. I processi educativi non sono una clessidra

Che vi sia oggi, forse con più evidenza in Italia che altrove, una questione educativa è cosa su cui è difficile non convenire. E che sia tempo ormai perché essa venga colta come una sfida e affrontata è un’idea altrettanto condivisibile. È sulla natura di questa sfida e sui modi in cui sarà possibile affrontarla efficacemente e sensatamente che la discussione appare appena iniziata e ha bisogno di essere approfondita.

Sarebbe ad esempio utile chiedersi se i problemi che vengono ricondotti sotto l’ombrello, che rischia troppo rapidamente di diventare onnicomprensivo, della “emergenza educativa” non siano di natura più ampia, sociale, culturale e anche politica (perchè no?), e quindi tali da non prevedere soluzioni lungo la linea meramente educativa.

E sarebbe necessario chiedersi, quando si accenna alla questione educativa, quale modello operi nel senso comune delle nostre Chiese, non nelle visioni dotte che certamente sono più articolate ma vengono poi filtrate e semplificate da questo. L’impressione è che i processi educativi vi siano metaforicamente rappresentati come una sorta di clessidra. In alto troviamo i modelli culturali delle generazioni adulte, in basso un vuoto che si appresta ad essere riempito da quegli stessi modelli. Entro questo schema mentale i problemi nascono dal fatto che qualcosa si è guastato nel condotto ristretto attraverso cui i granelli di sabbia (i modelli culturali) passano per giungere alle nuove generazioni. Lì ci sono degli ostacoli, dei freni; si è persa l’arte, la volontà, la convinzione, l’autorità, ecc. e ciò comporta una carenza, nella parte bassa, che si esprime in varie forme: caos culturale, assenza di direttive per l’azione, relativismo, nichilismo, ecc.

Ma naturalmente dovremmo chiederci che cosa realmente vi sia nella parte alta della clessidra. Se anche là non vi sia disordine, scompiglio, relativismo e quant’altro. Perché se così fosse la faccenda sarebbe ovviamente più complessa. La questione educativa non può evitare di porsi la domanda “chi educa chi?”.

Dovremmo poi chiederci se è poi così vero che il ristretto condotto attraverso cui la sabbia deve passare sia ossidato al punto tale da non lasciarla più scorrere. Anche se molta riflessione teorica tende a dare per scontato tutto ciò, le evidenze empiriche non sembrano confermare questa tesi. Chi ragiona sui dati è in genere più ottimista. Le trasformazioni che emergono dalle ricerche sui valori paiono assumere un carattere assai più graduale di quanto molti pensano. Le persistenze sono frequenti e possono colpire tanto quanto i cambiamenti. L’idea, diffusa anche nelle famiglie, che le giovani generazioni siano, quanto a riferimenti valoriali, molto diverse da quelle più anziane non trova grandi conferme empiriche. Certo la soglia di accettabilità sociale di certi comportamenti tende ad abbassarsi. Le generazioni adulte possono dunque intravedere delle pratiche da cui si sentono indotte a sostenere che “non c’è più morale”; una frase che ogni generazione che si sussegue all’altra ha ad un certo punto detto; perché ci sono azioni che per una generazione divenuta anziana sono riprovevoli e che quella successiva riconosce come ammissibili. Ciò che era essenziale appare secondario. La soglia dell’essenziale si sposta, non è detto che si perda. L’essenziale potrebbe anzi essere colto meglio (anche perduto, non c’è dubbio). In ogni caso i giovani che abbiamo incontrato nel corso di una nostra ricerca da cui qui trarremo spunto, sarebbero perplessi sulla conclusione che allude all’eclisse della (loro) morale. Probabilmente sarebbero molto critici se questa idea venisse applicata solo a loro, escludendo le generazioni adulte. “Io ho i miei valori” tendono a ripetere insistentemente, dove in quel “miei” si scorge sia quel processo di personalizzazione di cui diremo tra breve, sia un elemento di riflessività tipicamente moderno (“ma non pretendo che siano condivisi da tutti”).

Ma, tornando all’immagine della clessidra, vi sono ancora altre considerazioni da fare, due in particolare. La prima è che non è molto utile, e può essere rischioso, immaginare la sua parte bassa come un vuoto da riempire. Il processo educativo è oggi assai più orientato in senso bidirezionale di quanto non fosse un tempo. Tanto più cresce l’età dell’educando, quanto più s’avanza verso quei tempi in cui gli adulti cominciano ad avvertire la propria impotenza educativa, tanto più egli si dimostra in grado di disporre di competenze che questi non hanno, semplicemente perchè nati in un altro mondo. Non solo, ma quel modo di intendere può essere rischioso perché è cambiato lo statuto di chi un tempo veniva chiamato “minore” e il confronto con la sua soggettività è oggi uno snodo inevitabile attraverso cui non si può evitare di passare. Ne va della possibilità stessa di esercitare una qualche autorità che non sia ridotta a puro esercizio di potere.

La seconda osservazione è che i granelli di sabbia che penetrano nella parte bassa della nostra clessidra assumono toni, forme e colori diversi da quelli che avevano quando erano nella parte alta. In altre parole, nel passaggio da una generazione all’altra i modelli culturali cambiano; non c’è solo un problema di trasmissione, ma anche di rinnovamento, reso necessario dalle nuove sfide che i cambiamenti avvenuti nella società pongono alle persone. Oggi inoltre, i granelli ormai collocati in basso tendono ad essere sempre più differenziati, anche tra di loro e non solo in rapporto a quelli che stanno in alto, rendendo più difficile scorgere una trama e un senso e inducendo facilmente nell’errore di pensare che questi siano del tutto assenti.

2. I rischi del catastrofismo educativo

Ora è proprio qui il punto: le generazioni più vecchie tendono a concepire queste trasformazioni come perdita e distruzione, non anche come invenzione di nuovi valori e modelli culturali. Se dovessimo prestare sempre credito a quello che le generazioni precedenti pensano di quelle successive non riusciremmo a capire come abbia fatto l’umanità a procedere e qualche volta a progredire e dovremmo forse concludere che Darwin aveva torto o, cosa per noi più preoccupante, che il Vangelo è servito a poco.

Naturalmente può succedere che vi siano dei passi indietro; questo non lo si può escludere. Ma è necessario essere accorti e usare prudenza nelle valutazioni. Si deve comprendere che la rapidità delle trasformazioni distanzia le generazioni e che c’è dunque un problema di ascolto.

Dovremo allora cercare di intendere le “emergenze” (in senso etimologico) al di fuori di un quadro catastrofico, come segni dei tempi, cose nuove che vengono alla luce e richiedono di essere comprese, non come eventi e circostanze minacciosi o devastanti. Dovremmo farlo anche per un’altra ragione, perché se la diagnosi è troppo gravida di negativo, essa rischia di lasciare poco spazio a una speranza reale, al di là dei richiami che possiamo mettere al termine dei nostri documenti per rincuorarci. E su che cosa mai potrebbe basarsi questo sperare se già nella realtà qualcosa di positivo, da riconoscere e far lievitare, non si manifesta?

Nelle pagine che seguono proveremo a riassumere alcune delle idee che sono emerse da una indagine condotta dall’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto sui giovani in età 18-29, qualcosa di più dunque di quegli adolescenti su cui l’immaginazione tende a concentrarsi quando si parla di giovani (Castegnaro A. (a cura di), C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Venezia, Marcianum Press, 2010). Da essa ci pare di essere usciti con una prospettiva più aperta di quella che si scorge in altre analisi. Francamente le riflessioni che si ascoltano sui giovani sono davvero troppo orientate da un pre-giudizio negativo, quasi si volessero cercare tra di loro conferme ad una diagnosi già preconfezionata che ha altre motivazioni.

I giovani di oggi in effetti non godono di una buona fama e non hanno buoni avvocati dalla loro. Anche negli ambienti ecclesiali si è diffuso un panorama cupo e preoccupato. Il distacco dei giovani dalla Chiesa, un fatto peraltro ormai non più nascondibile, è letto come una loro rovina generale. Il commiato da essa viene identificato con il distacco da Dio e questo a sua volta viene letto come deriva morale. Torna, in forme surrettizie, l’esclusivismo dell’“extra ecclesiam nulla salus” che il Concilio aveva superato (Lumen Gentium 16 e Nostra Aetate). Si farà molta fatica a parlare ai giovani se questo sarà l’approccio che prevarrà.

La ricerca citata, basata su interviste in profondità e focus group, è stata anche un modo per reagire alla fastidiosa sensazione che molti parlino dei giovani, ma pochi provino a parlare con loro. Molte delle cose che si sentono dire su di essi non sono altro che proiezioni di un mondo adulto che non ha fatto la fatica di ascoltarli.

3. Qualsiasi cosa dovrò essere sarò comunque io a deciderlo: l’individualizzazione

Chi rilegge i profili individuali tratti dalle interviste ne ricava un’idea molto semplice: 72 interviste corrispondono a 72 ritratti spirituali, i quali a loro volta scaturiscono da 72 individualità che si rivendicano come tali: “questo sono io, io sono così”; e ciò vale anche quando la scelta compiuta implica l’adesione a esperienze e a gruppi che potrebbero sembrare fortemente omologanti.

Dalle narrazioni dei giovani emerge cioè in modo incontenibile una rivendicazione di individualità e soggettività. Quali che siano le identità spirituali cui essi sono momentaneamente approdati, nei loro racconti è la scelta personale ad apparire fondativa e ad attribuire significato, anche quando questa è più probabilmente, nei fatti, il prodotto di un provvisorio lasciarsi andare.

Tutto ciò trova spiegazione nel costituirsi della società attuali in quanto società di individui, in cui il destino personale è affidato innanzitutto ad essi. Quel processo di individualizzazione che attraversa tutta la modernità, ma che ha radici molto più lontane a cui il cristianesimo non è estraneo, si esprime ormai in forme largamente compiute, anche in territori in cui il cattolicesimo ha profonde radici.

Più o meno chiaramente, qualche volta oscuramente, tutti o quasi i giovani percepiscono che quello che sono e saranno è il prodotto delle loro scelte, la non scelta essendo semplicemente una forma di scelta. Come dice Bianca, una ragazza che fa l’educatrice in una associazione cattolica, rispondendo alla domanda se le regole della Chiesa incidono sulla sua vita: “alla fine io decido in ogni caso da me”. Chi, al contrario, è stato colpito da eventi e da decisioni altrui che lo hanno sovrastato, determinando una condizione attuale che percepisce come dominata da un destino incontrollabile, ne ricava una sensazione di profondo disagio interiore, come di aver smarrito il proprio io.

E dunque: “qualsiasi cosa dovrò essere sarò comunque io a deciderlo”, questa è l’idea di fondo che emerge. Non è che i giovani non vedano che questa “autodeterminazione” si compie a partire da un lascito familiare e sociale, dentro un contesto, sociale e relazionale, ma tutto questo è un “materiale”, se così si può dire, “che sta davanti”, è a disposizione, rispetto a cui si deve scegliere. Detto in altro modo i giovani attuali tendono a concepirsi come il prodotto di un processo di auto-costruzione, nel quale è il soggetto stesso a ricercare e a determinare chi infine vorrà essere, sia che questo venga narrato come esigenza di scoprire la proprie inclinazioni profonde e “autentiche”, sia che venga pensato senza un preciso punto di appoggio.

Non è decisivo che poi nella realtà, questo sia vero solo in parte, quello che è importante è che tutto ciò corrisponde a una sorta di ideale a cui tendere. Si tratta di un “mito”, ma di un mito che opera con grande forza. Possiamo dire che si tratta di un mito perché assolutizza la decisione come fonte di identità, trascurando quanto invece è ricevuto dalle generazioni precedenti, ma non dovremmo dimenticare che esso riflette anche una verità: tutti siamo in grado di riconoscere che quello che siamo diventati è anche prodotto delle nostre scelte. Non avremmo uguale rispetto di noi stessi e degli altri se così non fosse.

Può sembrare trattarsi di un orientamento puramente culturale e qualcuno, ritenendolo tale, lo considererà una deriva, ma è necessario comprendere che, prima ancora di essere una questione di atteggiamento culturale, rappresenta una condizione sociale obiettiva alla quale non si può sfuggire. Nel contesto sociale odierno, e per effetto di ciò che di liberante, non di negativo, vi è in esso (la crescita delle possibilità di vita e l’eccedenza culturale) crescere vuol dire scegliere chi vogliamo essere, cosa vogliamo fare, come vogliamo vivere. Non si può evitare di farlo. Lo si vede fin dal modo con cui adulti interessati al destino di un giovane gli si rivolgono chiedendogli pressantemente se si è orientato tra le tante possibilità disponibili, se ha deciso cosa vuol fare “da grande”, e nella preoccupazione che esprimono quando verificano che invece il giovane in questione non ha le idee per niente chiare, cosa abbastanza frequente e ovvia nel contesto attuale.

Un mondo nel quale agiscono processi di individuazione come quelli di cui stiamo parlando delinea una condizione che da un lato è il prodotto della liberazione dei vincoli che le società tradizionali ponevano agli individui e dall’altro rappresenta uno stato obbligato cui le persone non potrebbero sfuggire neanche se lo volessero. Come ci ricorda la lezione esistenzialista “noi siamo obbligati alla libertà”, “non siamo liberi di cessare di essere liberi” (Sartre).

La scoperta e l’autocostruzione di sé è dunque al centro di un rischioso processo, che si basa essenzialmente sull’esperienza e che i giovani rivendicano di fare in piena libertà e autonomia. Se c’è qualcosa di sacro oggi è la libertà di fare le proprie scelte, di scegliere il proprio modo di vivere.

4. I valori in gioco

Molti vedono in tutto ciò lassismo, disordine e afasia morale; le azioni sembrano diventare tutte uguali e eticamente irrilevanti. Ma, contrariamente a questo modo troppo negativo di vedere le cose, si può sostenere che non c’è puramente il vuoto culturale in tutto ciò; ci sono dei valori in gioco. Innanzitutto quello dell’autenticità; è il valore della ricerca autentica di sé, il valore della persona impegnata nel trovare-costruire se stessa. Il timore che gli corrisponde è la paura di perdere se stessi, è di arrivare alla fine della vita e dover riconoscere che si è vissuta una vita che non è la propria.

Strettamente connesso con il precedente esiste un secondo valore centrale oggi, riconosciuto da tutti, anche quando non praticato. Questo valore è il rispetto dell’altro. Nella nostra ricerca è il valore citato più di frequente, che ottiene consensi più convinti, proposto come evidente di per sé e che appare tale da costituirsi come un vero e proprio filo conduttore della cultura giovanile.

Vi sono due modi di intenderlo. Uno più passivo: il rispetto delle scelte degli altri, il rispetto inteso come tolleranza. E ve ne è uno più attivo: il rispetto come prendersi cura, preoccuparsi degli altri. Sia nell’uno che nell’altro senso, esso sostituisce e assorbe molti altri valori, più noti e però tali da apparire linguisticamente logorati dall’uso scadente che ne hanno fatto le generazioni precedenti. Volendo proporre alcuni esempi: per uno dei giovani intervistati il contrario di menefreghismo non è cura, impegno interesse, altruismo, è rispetto; un altro riformula il Decalogo in termini di rispetto; amare il prossimo diventa rispettare il prossimo, amare gli altri rispettare gli altri.

A fondamento del “principio del rispetto” si pone l’idea che ogni persona abbia una dignità umana da rispettare in quanto tale. Quel complesso e delicato lavoro teso a determinare quale è il proprio modo di vivere, ponendo in relazione stimoli esterni (le esperienze), lascito culturale e inclinazioni dell’animo, e che va inteso come un processo di personalizzazione, deve essere condotto nella massima libertà e deve a sua volta essere rispettato; dato che ognuno deve trovarlo da sé, senza essere messi alle strette da forze esterne. Esso rappresenta l’unico modo per arrivare a condurre una vita autentica.

Non è vero dunque che l’agire morale non ha più alcun principio di riferimento. L’agire morale è orientato dal fondamentale criterio di non procurare sofferenza agli altri e in questo senso rappresenta un valore che si pone come assoluto, come tale è concepito dai giovani. È questo del resto il modo in cui viene inteso il senso del peccato oggi.

Il principio del rispetto implica però anche una sospensione del giudizio sulle scelte che gli altri fanno: ciascuno ha diritto di sviluppare un suo stile di vita, dato che ognuno ha un proprio specifico modo di realizzarsi. Come recitava una vecchia canzone di De Gregori: “se Luigi si sporge verso l’acqua sono solo fatti suoi”. In questo secondo punto di vista possiamo scorgere una componente di relativismo. Ma è necessario evitare di vedere solamente questa seconda componente; agisce anche la prima dimensione ed è a partire da quella che la tendenza a sospendere il giudizio acquista significato e va compresa. Invece che usare in modo indeterminato il concetto di relativismo, sarebbe forse meglio parlare, come fa Charles Taylor, di un “relativismo soft”.

È nelle applicazioni e nelle implicazioni che ci si perde, più che sul piano dei principi; è nella complessità situazionale e culturale che molti annaspano e non riescono ordinare le proprie idee, trovando certamente anche scuse per scorciatoie accomodanti. Ma una cosa è ritenere di dover lavorare sul nulla di un informe nichilismo, e una cosa è sostenere che quello che appare carente è riflessività e confronto intersoggettivo, attorno a dei principi che però sussistono.

5. Tracce da seguire, non obblighi da assolvere

Una dimensione chiave che caratterizza i giovani attuali è quella che contrappone esterno-interno, autonomia-eteronomia, esteriorità-interiorità. Quello che viene “da fuori” non ha un valore a priori; deve interagire con qualcosa che è “dentro”, deve essere riscoperto come qualcosa di interno, deve nascere o ri-nascere da dentro, deve essere scelto e fatto proprio. I valori non influiscono se non diventano i miei valori, le appartenenze, come le pratiche non hanno significato, se non sono il prodotto di una mia scelta. Per inciso, anche per questo la figura del praticante muta di senso: la fonte dell’obbligo, ammesso che questa parola possa essere ancora usata, è prima di tutto personale e interiore. Come ha sottolineato Garelli, il criterio dell’osservanza non dice più nulla, esso viene sostituito da quello della preferenza e della significativà interiore.

In questo processo in cui ciò che all’inizio è esterno viene fatto proprio dal soggetto l’autorità formale in quanto tale, qualsiasi essa sia, conta poco. È qualcosa che gli adulti odierni conoscono bene, siano essi genitori, insegnanti, preti o educatori. Quella che conta è l’esperienza e la riflessione su di essa; quello che conta sono le relazioni sostanziali. Persino il lascito culturale genitoriale, per poter essere riconosciuto, viene posto sotto il cappello della parola “esperienza”, anche se in realtà è un fidarsi, un credere in un racconto incarnato.

Il processo prevalente di conoscenza e di costruzione di sé che i giovani praticano, agli adulti sembra piuttosto primitivo e rischioso; si tratta di un apprendimento per prove ed errori e, sia come sia (è necessario prenderne atto), è quello che conta davvero. Non c’è dubbio che il compito davanti a questi giovani individua una via difficile e dagli esiti quanto mai incerti. In una società in cui la storia personale assume i connotati di una biografia della scelta molti sono destinati a cadere; la biografia del fai da te può trasformarsi molto facilmente in una biografia del fallimento; ogni vita è costantemente a rischio. Ma la risposta a questo problema non è evidentemente il ritorno alle società chiuse, nelle quali il destino individuale è fin dall’inizio socialmente determinato. La risposta in un certo senso implica un di più di libertà, di sperimentazione (e di riflessività). “Proprio perché è in gioco la mia vita dovete lasciarmi fare, dovete lasciarmi provare”, sembrano volerci dire i giovani, in ogni modo possibile.

Questa dimensione di personalizzazione-individualizzazione è all’opera. Ed è all’origine di tante difficoltà nel rapporto con le regole e con quelle istituzioni che, come la Chiesa, tendono a fornire regole oltre che valori-principi e sono interessate ad affermarne il loro valore oggettivo.

Valori e regole presentano un diverso grado di introiettabilità. I valori possono più facilmente essere fatti propri. Essi appaiono accettabili, anzi necessari, perché sono orientamenti indispensabili nel giudizio pratico, senza di cui il soggetto non saprebbe come agire. Sono una base su cui la costruzione di sé può essere appoggiata. Le regole sono delle applicazioni, che per il loro carattere “esterno”, per il loro carattere astratto, dunque poco attento alla situazione specifica e alle individualità, vengono vissute in modo critico. Le regole tendono ad essere vissute come un fatto esteriore, possono e devono essere scelte, sulla base di principi razionali o altro, ma scelte nel senso di selezionate, perché una loro accettazione generalizzata appare a questi giovani una debacle dell’individuo, il segno del suo soggiacere a forze esterne. Prova ne sia che alcuni giovani cattolici i quali sostengono di essere portati a rispettare tutte le regole, pochi peraltro, tendono a percepire questa loro inclinazione come un proprio limite, il segno di non sufficiente autonomia, l’espressione di un carattere personale non abbastanza libero.

Nell’indagine di cui stiamo parlando si è sintetizzata la difficoltà nei confronti delle norme con lo slogan “valori sì, regole no”. Esso non implica un rifiuto generalizzato delle regole. Ma allude al fatto che queste hanno bisogno di trovare una giustificazione ulteriore, in genere di carattere funzionale (servono a vivere insieme), o procedurale (sono state decise insieme). E allude all’idea che in ogni caso, se sono prive di una evidente cogenza interna, non possono essere imposte dall’esterno, ma hanno bisogno di essere tradotte nel linguaggio dell’individuo, devono essere ri-comprese nella sua soggettività.

Mentre valori e principi ordinatori non paiono entrare in contrasto con il bisogno di autonomia, comunque guidato dal principio del rispetto dell’altro, le norme, pur riconosciute astrattamente come necessarie, paiono spesso a questi giovani fonte di costrizione ed eteronomia. La loro meccanica applicazione di frequente non sembra in grado di risolvere i problemi etici; il mondo è troppo vario e complesso. Esse paiono troppo relative, mutevoli e dunque non abbastanza sicure. Valgono qui, in questa cultura, ma non in altre. Molte di esse valgono per me, ma non per te. Esse paiono bisognose di giustificazione ulteriore e il soggetto si riserva la possibilità di valutarle di volta in volta, in base ai propri valori e a ciò che “sente”.

Perciò, “se avete da dire qualcosa che mi possa aiutare ad orientarmi, a capire cosa voglio essere e diventare, a trovare-costruire me stesso, a capire chi sono e a farmi sentire realizzato, bene. Vi ascolto e vi ringrazio; ma per favore, non ditemi quel che devo fare”. Questo è quanto questi giovani potrebbero dire ad una qualsiasi agenzia culturale e formativa. Naturalmente poi ci sono le norme civili codificate, dotate di una propria autonoma fonte legittimante, ma questa è ovviamente un’altra questione e i giovani se ne rendono ben conto.

Quanto conti la distinzione valori-regole lo si vede bene nel rapporto con la religione e la Chiesa. La Chiesa cattolica incontra un diffuso ed elevato riconoscimento in quanto ispiratrice di valori. Praticamente tutti i giovani riconoscono di avere un debito verso di essa, anche i non battezzati. In non pochi emerge una domanda in questo senso, un desiderio di significati che possano arricchire la vita.

Diverso appare il discorso sulla declinazione di questi valori – le regole morali – e sui modi di proporle, soprattutto sui modi. Quando nel discorso dei giovani compare la funzione di fonte normativa, la Chiesa diventa innanzitutto produttrice di obblighi e divieti e dunque come una forza limitante, che si contrappone al soggetto. La Chiesa diventa “una montagna di divieti”, come ha detto un intervistato, ed è questa dimensione che, più di altre, condiziona la relazione che i giovani intrattengono o, più spesso, non intrattengono con essa.

Tra le tante osservazioni che vengono sollevate a proposito di tali regole – questioni di legittimità, attualità, praticabilità, asimmetria tematica, atteggiamento da assumere – merita di esserne sottolineata una in particolare, quella della comprensibilità. Non c’è infatti solamente un problema di incapacità di adeguare la propria prassi agli insegnamenti della Chiesa e non è nemmeno solo una questione di dissenso dichiarato rispetto al merito di certe indicazioni, ma più in profondità è che spesso non se ne intendono proprio le motivazioni.

C’è dunque una tensione tra individuo e istituzione religiosa, al cui centro stanno le questioni di etica sessuale, ma che va al di là di quelle. La questione radicale qui è che il modo usato di proporre le norme sembra a molti poco rispettoso dell’autonomia delle persone, entra cioè in contrasto con il principio fondamentale della libertà del soggetto di decidere da sé lo stile di vita da adottare. “Dove vi è obbligo, non vi è moralità” dice un giovane spiritualmente molto ricco che appartiene a una ben nota associazione cattolica. Individuati alcuni principi generali, sui quali si è interessati a ricevere orientamenti e suggerimenti, il resto dovrebbe essere lasciato alla coscienza personale. Questo è quello che pensano in molti. I giovani hanno bisogno di tracce da seguire, non di obblighi da assolvere.

6. Prendere sul serio i valori enunciati

Si potrebbe discutere a lungo sugli orientamenti che questi giovani esprimono. Qui non ne abbiamo lo spazio. C’è in loro una tensione molto evidente tra l’aspirazione che molti esprimono a fare la cosa giusta (non far soffrire il prossimo) solo perché in sé giusta, al di là di ogni possibile tornaconto, perfino interno alla coscienza, o di tipo escatologico, e il senso della complessità e della relatività delle scelte, la difficoltà a determinare cosa l’azione retta sia in concreto. Questa tensione avrebbe bisogno di un sovrappiù di riflessività e certamente non può essere risolta per vie esclusivamente individuali; ha bisogno di essere socializzata. Il “rispetto” non implica necessariamente l’afasia comunicativa, ma, una volta stabilito che esso costituisce una cornice sicura entro cui la comunicazione avviene, rende al contrario quest’ultima realmente possibile.

La carenza di occasioni di riflessività e di condivisione del giudizio può aiutare a collocare quella diversità tra principi dichiarati e comportamenti reali di cui sono gli stessi giovani a rendersi conto. Di rispetto in realtà ce n’è poco dicono alcuni di loro. D’altro canto, se si considera che esiste un divario enorme tra il volere agire bene nei confronti degli altri e il riuscire a farlo si può convenire che l’esistenza di uno scarto tra valori professati e comportamenti non solo può essere, ma c’è sempre stato e sempre sarà.

Ma la loro presenza non è comunque indifferente. Essa creerà in ogni caso una tensione, prima o poi un senso di insoddisfazione, il sentimento che si è in contraddizione. Per questo non è irrilevante che il criterio dello “star bene”, che pure sappiamo diffusamente operante, e che di per sé non ha nulla di morale, debba fare i conti con il criterio che abbiamo qui sottolineato.

Richiamare il contrasto tra le parole e i fatti, tra i valori proclamati e le pratiche seguite, una posizione su cui le generazioni più vecchie non senza ipocrisia tendono a ristagnare, non porta lontano. Come non produce effetti vedere solamente le forme degradate e devianti dei valori professati e pensare che sia con quelle che si deve interloquire. È più utile prendere sul serio i valori enunciati e evidenziarne tutte le implicazioni. In estrema sintesi accompagnare i giovani nel tentativo di rispondere seriamente alla domanda: “vogliamo realmente rispettare gli altri?”