La pedagogia vocazionale di Gesu’
È possibile considerare i Vangeli dei testi pedagogici, dal momento in cui li si consideri catechetici. Il sillogismo è reale e doppio: si tratta di una “pedagogia vocazionale”, tenendo conto del presupposto che tale pedagogia si disponga, soprattutto, per un gruppo che risponde ad una precisa chiamata da parte di Gesù, ad una “vocazione”. La relazione di Gesù con le folle, infatti, se si struttura come una pedagogia, lo fa in maniera mediata, indiretta, non esplicita né, per così dire, “tecnica”. Quanto è invece chiaro circa la relazione di Gesù con i Dodici, che può essere senza dubbi letta ed interpretata come una effettiva pedagogia vocazionale. Del resto gli studi storici su Gesù e gli studi sul Gesù storico continuano ad avvalorare la fondatezza di un Gesù maestro di sapienza, che sia rispondente alla tipologia del maestro cinico, di matrice greca, oppure più vicino alla modalità del rabbi giudaico.
L’impegno pedagogico di Gesù verso le folle è visibile e constatabile all’interno del dinamismo della pedagogia degli Apostoli. Questa inizia con la vocazione che Gesù rivolge agli Apostoli, la quale comporta, intrinsecamente, un essenziale elemento: quello della missione, del compito dell’annuncio. In questo elemento sono coinvolte le folle. Non c’è vocazione, né pedagogia senza un frutto, una maturazione di offerta, di responsabilità di annuncio.
L’attività pedagogica di Gesù nel vangelo di Marco
Seguendo il Vangelo di Marco, traccerei uno schema, circa questo argomento, diviso in tre punti: A. Le premesse; B. La pedagogia di Gesù; C. I frutti, i risultati del lavoro pedagogico di Gesù
- Premesse
Marco non offre alcuna notizia sull’infanzia di Gesù e sulla sua famiglia umana, ma getta subito un gancio con il cielo, stabilisce un rapporto diretto tra Gesù e Dio[1]:
“Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” (Mc 1,1), è l’incipit del secondo Vangelo. Marco non si occupa affatto della “educazione” familiare di Gesù, del suo substrato sapienziale giudaico e della preparazione al suo bar mizba. Per un ragazzo ebreo era del tutto normale crescere munito di tale formazione umana, morale e religiosa.
Al contrario di Marco, Luca, nel suo Vangelo, presta attenzione a questa tappa importante della vita di Gesù (cfr. Lc 2,41-52). Nell’episodio di Gesù che, salito per la Pasqua a Gerusalemme con i suoi genitori, resta a parlare con i Dottori nel Tempio, si trova un quadretto emblematico di questo passaggio pedagogico che riguarda Gesù stesso. Si tratta di un passaggio molto significativo, perché mostra che neppure Gesù abbia fatto a meno di una pedagogia, non sia venuto dal nulla, ma si inscriva in un circolo educativo che nasce nel Giudaismo del suo tempo. La pedagogia che, una volta adulto, Egli applicherà ai suoi discepoli, trarrà profitto da ciò che Gesù stesso ha imparato, sia dalla dottrina del Tempio, sia dalla formazione galilaica della sua famiglia, e, come è giusto, troverà anche dei superamenti critici, delle novità, delle osservanze della tradizioni che verranno demolite per lasciare posto ad altri modi di pensare e di vivere
“Tu sei il mio Figlio diletto”
Tornando a Marco, vediamo che, a differenza di Luca, il testo passa immediatamente a raccontare del compimento delle profezie, nella presentazione della figura del Battista (Is 40,3: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero egli ti preparerà la strada…”) e nel racconto del Battesimo, dove la voce di Dio dal cielo riafferma la paternità divina su di lui: “Tu sei il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mc 1,9). L’assenza di una paternità umana su Gesù, denuncia proprio la mancanza di una pedagogia, poiché il padre, in Israele, era il primo grande attore e responsabile dell’educazione dei figli. La paternità consisteva e si espletava particolarmente come compito educativo, per il pio ebreo nel dovere di insegnare la Torah. Gesù essendo solo Figlio di Dio viene “educato” direttamente da Dio, è Dio che svolge il compito paterno verso di Lui. Dopo i due versetti che Marco dedica alle tentazioni (cf. Mc 1,12-13), ecco che il Vangelo inizia ad essere “predicato” (kerisson to euanghellion) (Mc 1,14). La predicazione non consiste della diffusione di una teoria, ma nell’invito a convertirsi (metanoeite) ed a credere (pisteuete) (Mc 1,15). In questa predicazione ci sono i fondamenti della pedagogia “universale” di Gesù, quella alle folle, alla gente. Ma vediamo come si intreccia con la vocazione degli apostoli.
Li chiamò
L’inizio della attività cherigmatica di Gesù diventa concreta con la chiamata dei primi quattro discepoli (cf. Mc 1,16-20).
Essa comporta: una valorizzazione del mestiere dei chiamati, ma collocati in un nuovo contesto, fuori dalla loro azienda e dalla loro famiglia; un taglio con lo stile di vita che avevano condotto sino ad allora che prevedeva la cura di interessi familiari e personali, che adesso diventa attenzione ed impegno verso le esigenze di Dio e della comunità umana, nel suo insieme.
Ma, a differenza di Gesù, gli Apostoli sono corredati di una “pedagogia familiare”, di un retroterra sapienziale umano e giudaico. Anzi, se ne gioveranno nella nuova vita di Apostoli, pur se in uno modo diverso e con obiettivi diversi.
La “sequela di Gesù” chiede e comporta due cose: da una parte seguire l’esempio di Gesù, nel suo modo di annunciare il vangelo, cioè “il Regno di Dio che è vicino” (Mc 1,15); dall’altra esige di andare oltre, di bypassare la concezione della religione familiare e dell’enoteismo giudaico. La sequela di Gesù, in effetti, non comporta l’abbandono della Legge, ma l’abbandono della pedagogia della Legge. In quella il bambino cresceva con le parole di Mosè, che riceveva nell’alveo della famiglia di sangue e dentro i confini della circoncisione e della sua elezione. Gesù sradica i figli di Zebedeo dalla loro famiglia, per condurli ad un’altra pedagogia religiosa ed umana. Questo aspetto rappresenta un passaggio fondamentale nell’iter pedagogico di Gesù.
- La pedagogia di Gesù
La pedagogia vocazionale è un tutt’uno con l’annuncio stesso del Vangelo. I poli sono due: il primo è che non c’è Vangelo senza apostoli; il secondo che non c’è Vangelo senza le folle che “sono senza pastore”. Sul primo punto dobbiamo dire che Gesù non fa nulla senza gli Apostoli. Come se fosse Vangelo stesso il modo di annunciarlo, la forma: a due a due. In più coppie. Dodici, un numero pari. Tra l’altro un numero equivalente a quello delle tribù di Israele che erano Dodici più la tredicesima, quella dei leviti. (Gesù, infatti, che è anch’egli un tredicesimo, è la parte di Dio, come Levi in mezzo ad Israele). Questo gruppo è già Vangelo, è già Regno di Dio vicino, tempo compiuto, perché è una realtà evangelica, cioè che sta fuori dalla realtà umana (= quella di sangue). In questo modo Gesù giudica la religione giudaica come un fenomeno ancora “umano”.
Il Vangelo annunciato dagli Apostoli con la loro stessa identità di comunione, viene intimamente coinvolto con le folle: “malati e indemoniati” (1,32); “tutta la città” (1,32); “tante persone” (2,2); “tutta la folla” (ochlos, 2,13); “molta folla” (3,7 polu plethos) che veniva da ogni parte, dalla Giudea, da Gerusalemme, dall’Idumea e dalla Transgiordania e Sidone… (cf. 3,8); “si radunò di nuovo tanta folla che non potevano neppure prendere cibo” (3,20). La folla è la vera “famiglia” di Gesù, quella che Gesù sceglie:
“Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folle e gli dissero: Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano. Ma egli rispose loro: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?. Girando lo sguardo su quelli che gli erano seduti attorno disse: ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,31-35).
La vocazione degli Apostoli è nella folla, per la folla, non per se stessi. L’alveo non è più quello della famiglia, ma quello di una realtà universale, complessa, e contaminata. L’AMBIENTE in cui cresce l’apostolo è globale, universale, non protetto da muri, esposto al mondo. Anche gli apostoli imparano dalla loro nuova famiglia, radicati, ormai, in quella di Gesù, che Egli si è scelta e, in quanto nuova famiglia, a sua volta “soggetto educativo”. In questa nuova realtà di legami, tutti imparano come per osmosi.
Dobbiamo dunque, concludere che la cura pedagogica di Gesù verso le folle si interseca inscindibilmente con la pedagogia e la missione degli Apostoli. Resta, tuttavia, una differenza di livelli, di linguaggio, di gradi, tra queste due realtà.
Gesù pedagogo delle folle
L’attenzione di Gesù verso la gente si manifesta immediatamente attraverso le opere prodigiose che egli opera. Gesù scaccia i demoni, guarisce il lebbroso, fa alzare il paralitico dal suo lettuccio. Gesù inizia ad educare le folle, venendo incontro ai loro bisogni, alle loro debolezze. Liberando dal male. La sua pedagogia è basata sull’evidenza delle cose, tanto che la reazione della gente è questa: “Non abbiamo mai veduto nulla di simile” (2,12).
Anche per gli Apostoli Gesù pone i miracoli, ma il testo appena citato di Mc 3,31-35 fa da spartiacque tra un prima e un dopo, nella pedagogia vocazionale di Gesù. Da questo momento Egli sarà un pedagogo dichiarato, visto che “sua madre e e suoi fratelli” sono coloro che “fanno la volontà di Dio”. Ora Gesù è dichiaratamente un pedagogo alternativo alla Legge. Vediamo di individuare gli aspetti speciali della pedagogia che Gesù usa verso gli Apostoli.
L’insegnamento particolare per gli Apostoli
- a. La spiegazione della parabole:
“(…) quelli che erano intorno a Lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio, a quelli di fuori, invece, tutto viene esposto in parabole” (Mc 4,10-11).
Gesù insegna ai Dodici ed a quelli loro vicini, una speciale conoscenza delle cose, il “mistero” che c’è dentro la parabola.
“In privato ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Mc 4,34).
b.L’impegno e la fatica della missione
Gesù dà una grande missione ai Dodici (cf. Mc 6,7-13). Li invia due a due a scacciare demoni, operare guarigioni, ad insegnare a tutti quanto riguardava Gesù stesso. L’opera missionaria dei Dodici consta delle stesse cose che operava Gesù, il quale, a sua volta, insegnava e compiva miracoli. Alla fine della loro missione: “gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato” (Mc 6,30).
- La cura delle debolezze e dei sentimenti più umani
Rientra nella pedagogia di Gesù il suo stile gentile ed affettuoso, comprensivo e vicino all’intima umanità dei suoi apostoli. Non si scandalizza dei loro sentimenti di paura, anzi va loro incontro per poterli rassicurare: “Perché siete così paurosi? Non avete fede?” (Mc 4,40); “Coraggio, sono io non temete” (Mc 6,50); con estrema dolcezza Gesù si avvede e si preoccupa per la la stanchezza che essi possono avere, dopo la missione e come una madre li invita dicendo: “venite in disparte e riposatevi un po” (6,31). Gesù si preoccupa della stanchezza dei suoi, della loro fragilità e si riposa con loro in un luogo solitario. Gesù mostra, infine, mitezza e pazienza nell’aspettare che i Dodici comprendano ciò che Lui sta compiendo nella sua vita pubblica. Con umiltà e trepidazione li interroga: “Non capite ancora?” (Mc 8,21).
- I frutti della pedagogia di Gesù
Nel capitolo ottavo del Vangelo di Marco inizia la terza fase della pedagogia vocazionale di Gesù, verso gli Apostoli: il tempo della maturità dei Dodici. Lo spartiacque è la confessione di Pietro. Tutta l’opera pedagogica di Gesù aveva come obiettivo l’intelligenza di Lui, il cogliere la Sua identità “Voi chi dite che io sia?” (8,29), chiede Gesù al gruppo dei suoi Apostoli. Pietro confessa “Tu sei il Cristo” (8,29), dimostrando di aver compreso l’identità messianica di Gesù. Questo momento è la climax della pedagogia vocazionale di Gesù: il suo fine era niente di più che i Dodici lo conoscessero! Pietro dà successo all’opera di Gesù.
“Và dietro di me”
Ora inizia il tempo della carità, l’età adulta della fede. Essa si radica sul riconoscere Gesù come Cristo e quindi diventargli intimo, compagno, con – divisore del destino. Significa accogliere ed avere Gesù come fratello, come uomo che porta in sé il segno di Dio e viceversa. Ma se Pietro riesce a confessare il Messia in Gesù, non riesce ad accettare un Messia troppo umano come Lui ed un destino troppo amaro, come il suo.
Per tre volte Gesù annuncia ai suoi la sua passione, morte e resurrezione. Quali reazioni ottiene da loro?
- La prima è la reazione di Pietro che rimprovera Gesù , provocando una replica durissima da parte sua (upaghe opiso mou satana: “và dietro di me, satana!”, cf. 8,31-33);
- la seconda è quella dei discepoli che “non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni”; lungo il cammino, infatti, avevano infatti parlato di chi tra loro fosse il più grande … (cf. 9,30-37)
- La terza è la reazione dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni che, lungi dal pensare a Gesù che aveva annunciato : “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno” chiedono di poter sedere accanto a Lui, uno alla destra uno alla sinistra “nella sua gloria”, una volta risorto (cf. 10,32-40).
Quale pedagogia fa scattare, a questo punto Gesù? Come cambia il suo modo di “educare” una comunità ormai adulta? Da una parte vediamo un approccio molto duro e determinato nei confronti di Pietro, il quale, con la sua pretesa di “censurare” il Maestro, rischia di mettersi davanti a Gesù stesso ed alla stessa volontà di Dio. Ma poi Gesù dà corso ad una seconda operazione pedagogica , ricomincia a spiegare cosa significhi essere apostoli e va molto più a fondo della prima fase pedagogica, insegnando che “Chi perderà la propria vita a causa mia e del vangelo la salverà” (cf. Mc 8,34-38)
- Sapienziale e dolce la seconda e la terza operazione pedagogica di Gesù, dopo il secondo e terzo annuncio della passione. Nonostante la delusione che dovesse coglierlo, Gesù continua a educare i suoi, cercando altre vie di persuasione. E così, mentre: “essi ragionavano su chi fosse il più grande” (9,34), Gesù vuole persuaderli all’idea di una “grandezza” autentica e profonda: “Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (9,35). E ancora, cercando di indirizzare le loro menti verso orizzonti nuovi e “divini”: “Coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra di voi, però, non è così” (10,42-43).
La solitudine di Gesù, il Maestro
Gesù vive la solitudine dai suoi discepoli, nonostante la cura pedagogica piena che avesse profuso per loro! Quando la passione arriva davvero per Gesù, Egli ha bisogno dei suoi Apostoli. Scopriamo che la pedagogia vocazionale avesse innanzitutto lo scopo di insegnare ai Dodici la solidarietà e la fraternità innanzitutto verso di Lui, che sarà il primo ad averne bisogno. Ma essi si mostrano incapaci di tanto. Giuda tradisce e Pietro rinnega, e nessuno dei Dodici riesce a restare sveglio con Gesù, nella notte del Getsemani.
Scandaloso è che un centurione romano prenda il posto di Pietro nella confessione di fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39)
Sembra una sconfitta, la sua, sembra che la sua pedagogia vocazionale speciale – quella verso gli apostoli – non sia riuscita. Se addirittura un centurione, del tutto sobrio di pedagogia vocazionale si mostra capace di fare ciò che Pietro non riesce a fare sotto la Croce! C’è lo scacco di tanta pedagogia!
E le folle?
Quale esito ha avuto la pedagogia di Gesù verso folle?
Sulla via della croce e quando Gesù muore restano solo delle donne con lui che “stavano ad osservare da lontano”: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Joses e Salome (15,40). Così pure quando viene deposto dalla croce (Mc 15,47) e così ancora esse si recano con oli aromatici alla tomba di Gesù il giorno dopo il sabato, al levar del giorno (16,1ss). Degli Apostoli nemmeno l’ombra. A conti fatti il successo di Gesù è con la gente che lo ha veramente seguito, pur non avendo fruito di un trattamento speciale! Eppure essi, gli Apostoli, tornano nella memoria e nella fede che Gesù ripone ancora in loro quando, attraverso la voce di un giovane vestito di una veste bianca, seduto sulla parte destra del sepolcro, dà inizio alla terza fase della sua pedagogia vocazionale: quella che inizia dopo la sua resurrezione: “ora andate e dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea” (Mc 16,7).
La pedagogia di Gesù non è una Scuola di addestramento al servizio militare o qualcosa di simile. Non è una fabbrica di esecutori sicuri e ciechi. Essa è una libera proposta di vita che si espone ad una libera adesione, che sempre deve restare libera per essere autentica. E che ha come scopo la persona e la sua libertà. La persona e la sua intelligenza. La persona nella sua piena dignità è il valore primario. Proprio essa è chiamata a mettersi in gioco nella sua libera e consapevole adesione, per un bene che riconosce innanzitutto per sé, e non ad essere una semplice pedina all’interno di un sistema, una struttura, una causa alienante e spersonalizzante.
Cosa imparare da Gesù?
- Nel Vangelo si deve cominciare dalla fine. La pedagogia vocazionale nasce dalla comunità che vive o meno la fase di quella che abbiamo chiamato la carità della fede. La vocazione viene dalla comunità che vive ed attesta un modo di pensare diverso, un modo di gestire i rapporti e le cose diverso, una relazione col potere diversa. “Tra voi non sia così”. La carità di fatto, concreta, realizzata nella comunità adulta è la prima culla di ogni vocazione autentica
- Il rapporto con la “folla”. La vita in mezzo alla folla, alle persone, al mondo senza confini. La pedagogia profetica. Essere “significativi”.
- L’impegno, il lavoro, la fatica nella missione. La dimensione “politica” della vocazione. Essa comporta, innanzitutto, la visibilità della com-passione, della misericordia verso la gente, verso i più deboli, la sensibilità autentica verso l’umanità dell’altro.
- La cura vicendevole, il non trascurare l’aspetto umano delle persone. La dolcezza, l’attenzione verso la persona nella sua più intima verità e nella sua fragilità.
- L’allenamento alla percezione del “mistero” che vive nelle cose. Dell’anima delle cose, di Dio, di qualcosa che trascende ciò che appare, che si vede, che sembra assoluto. Educare ad una intelligenza che vada oltre ciò che si impone nel presente e che sia capace di fecondare il presente di un futuro che viene.